Storytelling è una parola che ormai impone un sacro terrore. La natura manipolatoria della sua sfera semantica ha preso il posto nella coscienza universale del senso annacquato, ridente, che la spiegava come un mood fascinoso e una particolare abilità nel porgere un argomento o un fatto. Detto in parole povere, ormai tutti sanno che storytelling è un ramo del marketing, non una forma della nobile arte della retorica, è la base economica delle sempre più numerose scuole-truffa di scrittura, è la mercificazione e la messa a reddito della scrittura. Pubblicità, greenwashing, socialwashing, le esternazioni politiche contemporanee, testi che accompagnano rendering di immobiliaristi e speech di assessori sulle trasformazioni urbane, sono tutte manifestazioni dello storytelling.
Come lo usa Liu Ye? Perché ha scelto questa parola per intitolare la propria mostra? “Sebbene non sia mai diventato un artista astratto, ciò che mi interessa è rendere essenziale il carattere narrativo e tendere alla semplificazione”, dichiara.
La cifra stilistica propria del primo approccio di Liu Ye corrisponde a una collisione di anacronismi, tipica dell’individuo immerso in una cultura straniera: i motivi dell’arte moderna sono combinati a citazioni dei grandi maestri, e riferimenti alla cultura occidentale sono associati a icone della tradizione cinese. La natura autobiografica dell’opera assume connotazioni diverse alla fine degli anni Novanta, quando l’artista lascia l’Europa per tornare nel suo paese natale. La sua arte è un mezzo per investigare e scoprire se stesso.
Written by La Redazione