Nel dormiveglia ripenso al 2019, la prima volta per me in Africa: un volo da Milano ad Accra e un Airbnb. Emozionata per questo incontro con l’ignoto, da sola, con poca cognizione di causa e troppe aspettative. Ricordo il traffico, le tante moto che suonavano il clacson proprio a me. E adesso cosa ho fatto di sbagliato? Sono arrivata da 5 minuti. Dopo una settimana avrei messo in discussione le mie scelte in quanto a mete turistiche, dopo due sarebbe arrivato l’innamoramento, ora del volo di ritorno mi sarei ripromessa di tornare più volte e così ho fatto. Di Augure conosco gli elementi reali che fanno da background al linguaggio poetico: gli edifici modernisti degli anni ’60 con i loro frangisole, le montagne di rifiuti tessili, il senso dello stile innato dei passanti, l’economia estrattiva. Riconosco anche la pressoché impossibilità di comprendere dinamiche familiari e forme relazionali, specialmente da esterni.
Augure è un film su tutto: identità, appartenenza, strutture di potere e religione, patriarcato, colonialismo, famiglie opprimenti, aspettative societarie e regole autoimposte, assenze, l’incapacità di conciliare le proprie origini con ciò che – in fondo – si è.
Mi immergo, lo guardo due volte. Riemergo. Mi invaghisco dell’autore, musicista congolese che gioca con scrittura e immagini, che è anche stilista e icona fashion, ora anche regista. Soprattutto un poeta dice, tutto viene dalla poesia. Hai presente quelle opere d’arte integrali, in cui diverse forme artistiche convergono e si alimentano a vicenda? Bene, ora prendi un regista che cura anche i costumi dei suoi attori e che ha composto la colonna sonora. Siamo in un ambito di universalità e Augure è un film su tutto: identità, appartenenza, strutture di potere e religione, patriarcato, colonialismo, famiglie opprimenti, aspettative societarie e regole autoimposte, assenze, l’incapacità di conciliare le proprie origini con ciò che – in fondo – si è.
Baloji ne parla attraverso la lente della spiritualità, con la lucidità e profondità di analisi di chi conosce più mondi. Tutti i personaggi sono accusati di stregoneria: Koffi detto “zabolo” (stregone) in famiglia, Mama Mujila che è il motore della vicenda , e la sua coraggiosa figlia anticonformista Tshala. Anche Paco, ragazzino di strada che si fa giustizia da solo. In un ritorno a casa che è più una discesa verso gli inferi, il viaggio di Koffi è soprattutto l’immersione in un immaginario fatto di latte materno misto al sangue delle madri che non vogliono figli. Nuvole di fumo fucsia che scandiscono i momenti importanti, una gang di ragazzini in vestiti rosa confetto, la gang rivale in outfit leopardati, come piacerebbe a Mugabe. C’è molto rosa in Augure. Ci sono wrestling e ombretto giallo fortemente pigmentato, sirene, un venditore di bare che canta l’opera, spiriti malvagi. È un film in cui ogni fotogramma è visivamente così solido da poter avere vita propria.
Siamo a Kinshasa o Lubumbashi (forse, perché le città non vengono mai nominate) ma soprattutto siamo in un mondo non aderente al reale. Baloji non insegue l’oggettività, vuole creare. Agisce come un DJ, non sceglie linguaggi artistici, li mischia. Fonde elementi di tante città: mosse newyorkesi di voguing, parate come a New Orleans, i funerali danzanti ghanesi, un negozio di elettricità che durante un blackout ha più luci che Las Vegas. C’è addirittura la casetta di marzapane di Hansel e Gretel in chiave tropicale.
Cosa dice la giuria popolare? Gli spiriti vedono tutto, gli spiriti giudicano.
Come annuncia Tshala, qui è una realtà diversa.
Anche Koffi sa di trovarsi in una dimensione spazio-temporale diversa.
Non si tratta di cercare di capire.
L’alternativa è avere paura di vivere.
La proiezione del film Augure è seguita da una conversazione tra il regista Baloji e la direttrice artistica del FESCAAAL – Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
Written by Manuela Nebuloni