Per un attimo dolore, poi solo l’amore.
Spine di rose, sangue e carne. Là fuori siam dannati!
Sàlvati salvàti.*
La barricata: una fortezza improvvisata, un entropico ecosistema sospeso tra guerriglia urbana e archivio.
Un continuo sovrapporsi di immagini, di foto incorniciate rese illeggibili dall’artista. L’eco imperituro di voci che intonano all’unisono un grido di battaglia: un inno apocalittico, la ricerca della cura.
La barricata è impenetrabile ma fragile, rappresenta “la reale rivendicazione di spazio da parte degli esclusi” (Wolfgang Schede, The Barricade. Image Acts of Political Authority in Paris, May 1968, Nero Editions, 2021), uno storico strumento di militanza politica e di occupazione dello spazio pubblico. L’opera di Jacopo Benassi si fa ambiente nel tentativo di sanare il nostro rapporto con il mondo esterno: un safe place in cui poterci proteggere e in cui lenire le ferite. «Il mondo là fuori è sempre peggio: la barricata è un po’ come un’arca! La mostra nasce da una mia esigenza: volevo creare confusione e ho portato dentro tutta la mia vita, le foto, i quadri, il mio studio, quello che vedo e sento, la musica e gli strumenti. È la prima mostra che sento veramente mia, in cui dico qualcosa di me stesso: una restituzione critica di me e dell’uomo ma in cui provo anche a chiedermi cosa stia succedendo».
Per un attimo dolore, poi solo … ferro, legno, vetro (poi solo) terra, sassi, terra (poi solo) mare, terra, cielo. La barricata è salva.*
Vetri rotti, tasselli di legno bruciati o imperfetti, casse in plastica capovolte, immagini ribaltate, la puntina del giradischi che graffia l’inno composto da Benassi e Lamante: la barricata raccoglie paure, fragilità e dolore. È un calderone spontaneo di elementi, la cui ragione d’essere è il caos perché non tutto ha una spiegazione razionale, semplicemente accade. «Mi piace essere duro ma anche ironico, un misto tra il geniale e il dilettante. Se c’è l’errore: meglio!».
Dallo spazio intimo e sicuro della barricata si sprigiona la guerriglia: calchi in cemento di piedi e mani danno inizio allo scontro, lanciando pietre di gesso e ciabatte, sventolando le bandiere della rivolta utilizzando dei rudimentali bastoni spinati. La barricata è un gioco serio, una ricontestualizzazione dissacratoria e ironica degli strumenti e dei gesti delle manifestazioni e dell’azione militante. Memoria di un passato attualizzato, che parla oggi al presente. «La barricata iniziale ricorda il ’68 e la rivoluzione francese: non possiamo non guardarci indietro, veniamo dalla storia. Ci protegge da un mondo che non è come pensiamo che sia».
La fortificazione realizzata da Benassi diventa medium e strumento artistico quanto esistenziale, che ci viene lasciato in eredità: un luogo personale e intimo ma anche uno spazio pubblico, in cui poter riflettere e poter condividere. Al centro dello spazio delineato dalla barricata si apre un palcoscenico rudimentale, «come quello del Btomic»: uno spazio grezzo e spontaneo in cui verranno ospitate quattro performance che vedranno l’artista dialogare con Khan of Finland in un intervento sonoro intitolato Yes not war (17 settembre); Lady Maru in Brutal Casual (3 ottobre); Luciano Chessa e Marco Mazzoni in Sassi (23 ottobre), recuperando l’immaginario della morra sarda Lamante e Michele Lombardelli in INNO (6 novembre).
«Mi piaceva l’idea che lo spazio della mostra fosse vivo, quasi come un’occupazione che prende in sequestro la galleria per un mese e mezzo».
La presenza di Benassi nello spazio è tangibile e ingombrante, ma al tempo stesso l’artista si nega direttamente al nostro sguardo seguendo i paradigmi di un’estetica che si basa sulla rinuncia. «È un dialogo continuo con quello che c’è ma si sottrae: un’impronta. Mi interessa far lavorare l’immaginazione delle persone: ormai vediamo così tanto che sento l’esigenza di coprire, lasciare spazio, rinunciare».
Come ci si può salvare?
«Ci si salva solo se si crede in quello che si sta facendo: quando è così, ogni cosa che facciamo e che esce nel mondo diventa per noi salvezza. È un processo continuo: una volta finito devi ricominciare dedicandoti a un’altra cosa. Sono tutti piccoli frammenti di te che lasci in giro e che speri ti permettano di vivere in eterno». I continui contrasti che animano la barricata ci suggeriscono una possibile soluzione: non c’è cura senza sofferenza, il dolore conduce alla salvezza. L’arte nelle sue ambiguità è un pharmakon, veleno e antidoto al tempo stesso, distruzione e ricostruzione.
Sàlvati, salvàti è un dispositivo taumaturgico, un rituale personale quanto collettivo: non ci si salva mai da soli, c’è sempre un qualcosa o un qualcuno.
Occhi di vetro, freddo e sabbia.
Per un attimo l’amore, poi solo…*
Cosa vuol dire guardare?
«Guardare vuol dire arrendersi all’imperfezione. Mi piace la spontaneità e abitare situazioni fragili e di precarietà. Non mi interessa il bello: devo sentire quello che sto facendo. Nei miei lavori non guardo mai gli altri, ma cerco di ritrovarmi: gli animali, le piante, il bosco sono sempre io».
Questa, forse, è la cura: il segreto salvifico nell’arte di Jacopo Benassi.
* Lamante/Benassi, Sàlvati Salvàti, 2024, vinile 35 giri, 2 min
Written by Eva Adduci