PROIEZIONI:
Dogville
6 GIUGNO – 20:30
Dancer in the dark
13 GIUGNO – 20:30
Le onde del destino
27 GIUGNO – 20:30
Novembre 2018. Sto studiando regia a Los Angeles e, tra i corridoi della scuola, mi giunge voce che ci sarà una proiezione di The House That Jack Built con connessione live di Lars von Trier. Lars ha paura di volare. Decido di andare con un mio compagno di classe.
L’Ace Hotel è un palazzo a Downtown in stile liberty gotico di inizio Novecento, sembra uscito da un fumetto, e ha una sala cinematografica immensa. Servono da bere alcolici durante la proiezione, cosa alquanto insolita negli Stati Uniti, e il mio compagno di classe insiste che, se dobbiamo vederci un film di Lars von Trier, dobbiamo farlo ubriacandoci di whisky liscio. A fine proiezione appare la gigantesca faccia di Lars sullo schermo. È tarda sera a Los Angeles, sono le sei di mattina a Copenaghen. Lars parla pochi minuti, giusto il tempo di far notare all’intervistatore che le sue domande sono noiose, e chiude bruscamente la connessione con un: «It’s 6 a.m. here and I’m fucking freezing, goodbye».
Schermo nero, silenzio in sala. Questo è l’ultimo ricordo che ho di Lars von Trier.
I miei incontri con il suo cinema però, iniziano anni prima. Il primo contatto con un regista come Lars von Trier – un po’ come succede con certi autori russi – è avvenuto troppo presto, al liceo. Le onde del destino lo vidi con una mia ex. Dancer in the Dark, invece, decisi di vederlo da solo. Dogville arrivò più tardi, quando durante gli anni dell’università notai il DVD sulla libreria di un amico. Passammo l’intera durata del film in un silenzio tombale.
Un minimalismo formale che non nasce solo dal desiderio di non distrarre lo spettatore, ma dalla volontà di eliminare ogni artificio visivo e tecnico.
Il cinema di von Trier – come quello di tanti altri registi – cambia col tempo, ma è a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila che sposa in pieno il manifesto Dogma 95 – fondato assieme a Thomas Vinterberg – un manifesto cinematografico nato in Danimarca che promuove un cinema essenziale, privo di effetti e artifici, in nome della verità narrativa ed emotiva. È in questo periodo che si collocano alcuni dei suoi film più radicali, segnati da un minimalismo formale che non nasce solo dal desiderio di non distrarre lo spettatore, ma dalla volontà di eliminare ogni artificio visivo e tecnico per arrivare a una rappresentazione più nuda, più diretta, più emotivamente brutale della realtà.
Se c’è un filo conduttore che unisce Le onde del destino, Dancer in the Dark e Dogville non è solo l’adesione al Dogma 95. È anche la scelta di creare trame in cui l’estrema bontà dei protagonisti – spesso quasi angelica, fin troppo naïve – viene completamente calpestata dalla cattiveria più meschina e infima, nascosta nelle pieghe più oscure dell’animo umano.
Ho sempre percepito, nel cinema di von Trier, un estremo rigore narrativo: uno sforzo preciso nel costruire trame che si sviluppano internamente, atto dopo atto, senza mai accelerare o saltare passaggi. Von Trier struttura ogni evento con meticolosa cura, concatenando gli snodi narrativi in modo da condurci, in modo inesorabile, verso un punto di non ritorno. E non ha mai fretta di arrivarci: ogni momento ha il suo tempo, ogni passaggio il suo peso. Forse è proprio questa dilatazione, questo rispetto dei tempi narrativi, l’elemento che reputo più “sano” – paradossalmente – dei suoi film.
Una ferocia emotiva evidente nel modo in cui ci colpisce, ma anche un’idea precisa: siamo testimoni privilegiati di una verità che i personaggi non possiedono.
C’è qualcosa di ipnotico nel suo costante desiderio di sfuggire alle regole della forma, nel modo in cui si reinventa abbracciando generi e linguaggi apparentemente inconciliabili con la sua poetica, eppure sempre perfettamente coerenti con il suo sguardo. Penso, ad esempio, a Dancer in the Dark, dove si confronta con il musical, oppure a Dogville, girato in un set spoglio, senza pareti, dove nulla può essere nascosto allo sguardo dello spettatore. Anche qui, la messa in scena diventa un atto etico: tutto deve essere visibile, tutto deve essere esposto.
Una delle cose più potenti, nel cinema di von Trier, è il modo in cui ci coinvolge come spettatori. C’è una ferocia emotiva evidente nel modo in cui ci colpisce, ma anche un’idea precisa: siamo testimoni privilegiati di una verità che i personaggi non possiedono. Eppure, questa consapevolezza non ci dà potere: siamo inermi, condannati a osservare il lento disfacimento di ogni senso morale, di ogni idea di giustizia, che si sgretola davanti ai nostri occhi.
Written by Tommaso Frangini