Una mostra epica e cruciale, questa curata da Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, perché offre alla città di Milano la ricostruzione accuratissima del corpus di opere forse più importanti di tutta la storia dell’arte contemporanea italiana: gli ambienti di Fontana. Offuscati nel senso comune dagli iconici tagli, gli ambienti sono contemporaneamente il punto più alto e il nucleo più produttivo dell’arte di Fontana: senza di loro gran parte delle serie prodotte negli anni successivi non esisterebbe, e il peso che hanno esercitato sulle neoavanguardie internazionali è enorme.
Tornato dall’Argentina a Milano dopo la Seconda Guerra Mondiale, Fontana mise a punto insieme ad altri artisti e critici una serie di teorie sul superamento dello spazio della tela e delle dimensioni scultore convenzionali, che avevano trovato prima una formulazione nel Manifiesto Blanco del 1946 e poi una prima realizzazione nell’Ambiente spaziale a luce nera alla Galleria del Naviglio nel 1949. Negli stessi anni presero forma le tele bucate e i tagli, attraversati da luci, esposti e immortalati nelle fotografie di Mulas in modo da creare a loro volta degli spazi cosmici: i Concetti spaziali.
La luce nera del titolo era la luce di Wood, una vera passione di Lucio Fontana, che in una stanza buia illuminava una scultura in cartapesta dipinta con colori fluorescenti, per dare «questa sensazione di vuoto, un senso, una materia completamente nuovi per il pubblico».
La vocazione spazialista non è emersa all’improvviso nella mente dell’artista, ma nasce dalle straordinarie collaborazioni di Fontana con alcuni tra gli architetti più interessanti del razionalismo dell’era fascista, culminate nell’abbagliante bianco della Sala della Vittoria alla VI Triennale di Milano, progettata da Nizzoli, Palanti e Persico. Il rapporto con la Triennale ha continuato nei decenni successivi ad alimentare l’evoluzione dello spazialismo, nel 1951 con il grande neon blu sullo scalone (oggi ricostruito al Museo del Novecento, e naturalmente all’apertura della mostra qui all’HangarBicocca), e poi con le Utopie pensate insieme a Nanda Vigo per la XIII Triennale del 1964, due corridoi da attraversare, uno nero e uno rosso, con pavimenti gommosi e luci che trapelano dai fori delle pareti.
Fino a oggi la conoscenza degli ambienti spaziali, e delle altre opere affini, come i soffitti di cinema e alberghi, è stata affidata essenzialmente a fotografie più o meno sbiadite. Qualcuna era stata ricostruita singolarmente in qualche mostra o museo, ma mai è stato possibile attraversarli, riviverli, farne esperienza diretta in così grande numero.
Poche strutture sarebbero state in grado di fare un’operazione così grandiosa come questa all’Hangar, che ripropone anche le opere mitiche degli ultimissimi anni di Fontana, quelle al Walker Art Center di Minneapolis e allo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel cinquantesimo anniversario della loro creazione, e quella del ’68 a Kassel.
Written by Lucia Tozzi