Come scrive Marc Augé «i paesaggi prevalenti del mondo attuale […] sono essenzialmente dei paesaggi urbani». A dare forma a questi paesaggi sono prevalentemente gli edifici architettonici che se ne stanno lì il più delle volte ingombranti e massicci.
Sin dai suoi esordi Carlos Garaicoa ha lavorato sulle architetture, ma lo ha fatto con mezzi deperibili, leggerissimi, quasi effimeri, certamente non monumentali, in apparente contrasto con la pietra o i materiali da costruzione. Ha realizzato maquettes di città ed edifici di carta (Bend City, esposta anche alla Biennale di Venezia del 2009), di cera (Now Let’s Play to Disappear), di polistirolo (nelle recenti foto-topografie), di zucchero (Basic Principles to Destroy) e addirittura di luce (On How the Earth Wants to Look Like the Sky, esposta alla Biennale di Venezia del 2005); le stesse immagini fotografiche su cui interviene attraverso il disegno e la scrittura, per modificare architetture esistenti, sono lievi, seppur estremamente incisive.
Carlos Garaicoa, che ha una curiosa formazione giovanile nell’ambito della termodinamica, si è poi dedicato alle arti visive guardando sempre all’architettura come fosse un filtro attraverso cui leggere la società e le strutture che ne stanno alla base. Tutto ebbe inizio nella sua città, a L’Avana, dove negli anni Novanta molti edifici versavano in stato di abbandono, forse anche rivelando inesorabilmente un’inaspettata fragilità.
Partito appunto dalla fotografia e dal disegno, ha poi iniziato ad avvalersi della collaborazione di architetti professionisti, insieme ai quali idea progetti che arrivano ad un altissimo grado di definizione e fattibilità, come accadde per l’opera che presentò nel 2002 a Documenta 11, quando propose per L’Avana il completamento di una serie di edifici divenuti rovine prima ancora di essere terminati.
Siamo così davanti a un’architettura che simbolizza un sistema sociale, esattamente come nei casi in cui l’artista espone sotto teca, come fossero corone antiche e quindi simboli di potere, le miniature dei luoghi dei massacri più noti della storia recente (dallo Stadio National De Chile, alla base navale di Guantanamo, per citare solo un paio di esempi) oppure quando mette in cassaforte i modellini in oro degli edifici bancari che controllano i sistemi finanziari mondiali (in Saving the Safe).
Non è la prima volta che Carlos Garaicoa lavora in Italia, l’artista è rappresentato nel nostro paese dalla Galleria Continua e nel Castello di Ama c’è una sua opera permanente del 2006: un altro lavoro potentissimo sulle barriere, all’interno del quale sono stati riprodotti in scala alcuni dei muri di separazione più celebri, come quello di Berlino, quello che separa le due Coree o la Grande Muraglia cinese.
E se nel 2003, chiamato dalla Fondazione Volume! a Roma, diede vita a un’opera come Letter to the Censors (ora in collezione alla Tate) sulla censura cinematografica, non possiamo che attendere con impazienza di vedere come invece leggerà e reagirà ora al tessuto torinese.
Written by Angela Maderna