Suoni il campanello in via Meda, ti aprono. Da Contraste ci si entra come in casa d’altri, con la sensazione di non avere il controllo. E infatti non ce l’hai. Ti siedi ai tavoli rotondi, guardi, aspetti. E ti arriva in mano una finta cipolla, caramellata, lucida come un vetro di Murano. La rompi con un morso, scopri un cuore dolce, caldo, che sa di brace e infanzia. È il primo colpo.

Contraste è tutto così: un ristorante che gioca, ma non per ridere. Ogni piatto è una domanda. Il menu si chiama Riflesso — non perché sia nostalgico, ma perché parte dal ricordo per deviarlo. Prende la tradizione e la ribalta. Non è comfort food, è confusion food. Il bello è che funziona.
Il donut alla bolognese ne è l’esempio più chiaro. Una ciambella lievitata, soffice, ripiena di ragù. Non è uno scherzo da chef, è un’idea precisa: dare una forma pop a un sapore antico. Quando lo addenti senti casa, ma con l’estetica di Springfield.

Un altro piatto arriva dentro una cornice nera lucida. Il contenuto: piccolo, geometrico, da osservare più che da affondarci il coltello. Dentro c’è un’armonia di consistenze e vibrazioni di palato. Mi interrogo su cosa sto mangiando. Cose che non dovrebbero stare insieme eppure sì. E funzionano, dannazione.
Poi c’è la cozza. O meglio, quello che sembra una cozza. Il guscio è una scultura che inganna, dentro una mousse marina, sapida, vellutata. Ti guardi intorno per capire se gli altri stanno capendo quello che mangiano. Non è chiaro, ma va bene così.

“Contraste non ti rassicura, ti confonde, ti fa ridere, ti obbliga a scegliere: mordere, bere, rompere. Non è una cena, è un gioco dove il gusto arriva dopo lo stupore.”
Le animelle arrivano più avanti, servite su una base cremosa, probabilmente a base di funghi o fondo bruno. Croccanti, calde, avvolgenti. Nessuna acrobazia qui, solo il piacere grasso del morso perfetto.
Nel mezzo passano altre portate che giocano sul travestimento, la sorpresa, l’estetica dell’ambiguità. Ma non è mai fine a se stessa. Lo stupore non è il centro, è il mezzo. Ti stimola, ma non ti distrae dal gusto.

Non si mangia, si interpreta. Il personale è parte del copione: racconta, provoca, osserva. Ti lasciano il tempo di guardare male il piatto, ridere, chiederti: “Ma questa roba si morde? Si beve? Si apre?”
Contraste non ti coccola. Ti spinge. Ti fa ridere quando non capisci, ti fa parlare col tavolo accanto (“Anche voi siete al pomodoro cubo?”), ti fa dimenticare di essere in un ristorante stellato. La sala non ti guarda dall’alto. Ti accompagna. Ti guida, ti ascolta. Non c’è il rituale da sommelier con il gomito alto. C’è una bottiglia che gira e una storia sussurrata all’orecchio.
Alla fine non sai bene cosa hai mangiato, ma ti ricordi ogni boccone. Contraste non è un posto dove torni per ritrovare i sapori. Ci torni per perderti di nuovo.