Esattamente quarant’anni dalla prima, storica occupazione in via Leoncavallo 22 del 18 ottobre 1975: da unico luogo della periferia nord-est di Milano in cui «Si poteva trovare qualcosa di diverso dalle siringhe e dalla catena di montaggio» a «Museo a cielo aperto» (per citare il “compagno Sgarbi”), attraverso esperimenti (multi)culturali, manifestazioni e battaglie, il Leoncavallo resta un luogo di riferimento in cui è passata tutta Milano – chi per un concerto, chi per una birra a ora tarda, chi per esprimere dissenso. In occasione del suo compleanno (e ancora in attesa che lo spazio riceva la meritata “regolarizzazione”), abbiamo provato a mettere insieme i numerosi tasselli della storia del Leo attraverso l’esperienza in prima persona di chi questo spazio lo vive tutti i giorni: Matteo, Elisa, Tia e soprattutto Kenny, responsabile della programmazione musicale e del progetto Lobo.
ZERO: Che ricordo hai della prima volta in cui hai messo piede nel Leoncavallo? C’è stato qualche particolare che fin da subito ti ha fatto sentire legato a questo spazio?
KENNY: La prima volta che sono entrato al Leo è stato per un concerto dei Sick Of It All, doveva essere il 2002. Ricordo di essere rimasto sorpreso da quanto fosse gigante e da quanto ci si possa sentire piccoli di fronte a un luogo in cui si respira storia in ogni angolo. Era il periodo dell’hardcore e del punk, c’erano concerti tutte le settimane. Un punto di riferimento per tutta Milano e forse per tutta Italia era Dauntaun, lo spazio nei sotterranei del Leo. Ero abbastanza legato a tutta quella scena, dopo qualche anno suonai con il mio gruppo di allora e per me fu come suonare a San Siro. Poi arrivò una nuova generazione, che nello specifico si occupava di concerti e attività in Dauntaun. Era il collettivo FreeGo!, dove c’erano tutti amici e compagni con cui avevo condiviso palchi e avventure musicali in anni precedenti. Sono entrato a farne parte quando il collettivo era già avviato. Quel periodo è stato anche uno dei più difficili del Leo – ma credo del Movimento in generale – in quanto vennero sgomberati alcuni spazi storici di Milano come Bulk, Garibaldi e di lì a poco Pergola, a cui si aggiunse uno sgombero, finito fortunatamente con la rioccupazione, di Cox 18. Trovarsi in una fase storica in cui si percepiva Milano come una città morta da cui fuggire, ma contemporaneamente essere in uno degli spazi più importanti e storici della città con una libertà pazzesca nel dare nuovi stimoli, credo sia stato il motivo principale che mi ha fatto rimanere qui per tutti questi anni. E ne è valsa la pena, vedendo anche oggi “rinascere” in qualche modo il Leo con un sacco di nuove esperienze come la Serigrafia, Game Over, la Ciclofficina, il Bike Polo o progetti come Lobo.
Difficile se non impossibile condensare in un’intervista il senso di un’esperienza come quella quarantennale del Leoncavallo. Ad ogni modo, ci sono degli insegnamenti, dei racconti o dei ricordi a cui sei legato che possono essere rappresentativi di questa storia così lunga e complessa?
Premesso che è una domanda la cui risposta potrebbe durare giorni interi, il bello di questo spazio è che ci sono praticamente 3 generazioni che si sono susseguite in tutti questi anni. Mamma Luciana – presidente dell’Associazione delle Mamme Antifasciste del Leoncavallo e che a fine mese compirà 90 anni – attiva dal 1978, fino a qualche anno fa stava con noi praticamente fino a chiusura del centro e accompagnava le nostre serate con aneddoti e racconti di questi 40 anni. Ci raccontava, e ancora lo fa, del clima che si respirava nel ’78 con l’assassinio di Fausto e Iaio, del laboratorio e del “casino” (come lo definisce lei) che c’era in Leoncavallo 22, dei diversi sgomberi e delle decine di processi penali a cui ha dovuto assistere per tutto quello che era successo. Ci racconta di come vorrebbe vedere questo spazio “a posto”, di quanta musica assordante ha ascoltato in questi anni e di tutti i personaggi a cui ha stretto la mano. Delle persone che ha incontrato e di quanto sia contenta oggi di vedere ventenni che si attivano per far vivere ancora questo spazio. Poi tutti i “vecchi” del Leo hanno ogni volta qualcosa da raccontarti su quello che è successo e mi sto rendendo conto che inizio ad avere anche io un po’ di racconti. Sotto il nome Leoncavallo sono successe molte cose, non ci si rendeva neanche conto di quello che avrebbero significato e stanno significando per le persone e la città. E quante di queste sarebbero state d’ispirazione per molte altre esperienze a Milano.
Forse potrei cercarlo su Wikipedia, ma sicuramente il tuo punto di vista è più attendibile. Dal ’75 a oggi il Leoncavallo ha “traslocato” due volte, riesci a darci una mappatura di quelli che sono stati gli episodi cruciali che hanno segnato questi 40 anni?
Su Wikipedia trovi molte notizie false o errate per quanto riguarda il Leo, sconsigliamo di prenderle come riferimento. Le sedi del Leoncavallo sono state tre: via Leoncavallo, Via Salomone e l’attuale di via Watteau. I “traslochi” sono stati sgomberi effettuati tutti dalle forze dell’ordine e nessuno è stato indolore. Per rispondere in maniera esauriente a questa domanda bisognerebbe scrivere un libro, ma cercando di sintetizzare, direi che gli eventi principali sono stati gli omicidi di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (1978), l’inizio dell’esperienza Helter Skelter (da cui poi sfocerà il centro sociale Cox 18, nato dall’espansione di un’antica sede anarchica, NdR) nel 1984, il festival al Parco Lambro “Né eroina né polizia” e la resistenza al primo sgombero (1989), la nascita di European Counter Network (1991), l’attacco della Lega Lombarda nei confronti del centro e l’elezione di Formentini a sindaco di Milano (1993), infine un “nuovo” modo di intendere e organizzare i concerti e gli eventi culturali con l’occupazione della sede di via Watteu, e quindi Leonkart (1996-1997), Transeurohiphopconnection (1998), l’Happening Internazionale Uderground (2000-2003), le Feste Raccolto e Semina (1995-2015) e la disobbedienza civile che ha caratterizzato il nostro agire in tutti gli anni ‘90.
In termini culturali, politici e in un certo senso legati al senso civico, quali linee guida credi siano rimaste salde nel tempo e abbiano avuto un impatto sul territorio?
Credo che tematiche come l’antiproibizionismo, il lavoro, il welfare, il fornire servizi a prezzi popolari se non gratuiti, siano un punto importante di quello che il Leo rappresenta. Prendo come esempio forse quella più importante per il Leo: l’antiproibizionismo. Ecco, il fare due volte all’anno feste che celebrano la canapa e che un vecchio compagno del Leo, ora parlamentare, abbia appena presentato una proposta di legge per la legalizzazione della canapa, fa capire come quotidianamente si stia facendo un lavoro di divulgazione, portando avanti un messaggio che può e deve arrivare a tutti con tutte le complessità del caso. Lo storico slogan “Legalizzare e Tassare” racchiude una contraddizione forte di quello che è il Leo, ovvero che da una parte si voglia la legalizzazione di una sostanza, ma che dall’altra possa essere “tassata” dallo stato. È forse il modo per arrivare davvero alle persone più lontane da questo spazio e dalle nostre idee: che non sia una necessità di pochi, ma che possa essere una possibilità per tanti.
Qual è il mosaico di associazioni e strutture stabili che costituiscono il Leoncavallo?
Al Leo sono presenti molte associazioni e gruppi informali. Il più importante, sia per storicità che per valore, è sicuramente l’Associazione delle Mamme Antifasciste del Leoncavallo, nata nel 1978 in maniera informale dopo l’assassinio di Fausto e Iaio in via Mancinelli. A oggi si può dire che sia la capofila di tutti i progetti del Leo, nonché l’associazione a cui è destinato da anni lo sfratto. Per il resto, si sono alternati un sacco di associazioni e strutture che per quanto riguarda la sede di via Watteau, dove siamo dal ’94, sono cambiate.
Forse gli unici progetti che sono rimasti attivi da allora sono di sicuro la Cucina Pop – che ha una straordinaria storia e, a oggi, riesce a fornire continuamente centinaia di pasti gratuiti con prodotti che provengono in gran parte da produttori del progetto de La Terra Trema. Quest’ultimo invece, dopo l’esperienza di Critical Wine e la morte di Luigi Veronelli, fondatore del progetto, ha cambiato nome in La Terra Trema partendo da alcuni punti saldi di quella esperienza ed elaborandone nuovi altri. Il Baretto, il laboratorio di Teatro, alcuni macchinari della Serigrafia, la radio invece nascono addirittura in Leoncavallo 22 e continuano a vivere ancora oggi! Ovviamente ci sono tantissimi altri progetti che non esistono più o che sono nati qui negli ultimi anni vedi Game Over, Bike Polo, Ciclofficina o lo spazio d’arte che aprirà proprio questo fine settimana come GaliLeo.
Passando all’aspetto musicale, al Leo ci sono varie serate: quali sono le crew con cui ti coordini per la programmazione?
Ci sono tantissime crew che si sono alternate, gruppi e associazioni che interagiscono con la programmazione del Leo: ci sono le nostre feste e celebrazioni come la Festa del Raccolto e della Semina, La Terra Trema, Game Over, il ricordo di Fausto e Iaio, la commemorazione di Piazza Fontana che sono appuntamenti annuali. Poi personalmente mi occupo di dividere e incastrare al meglio tutte le mille mila proposte che arrivano al Leo. C’è l’appuntamento del reggae che ad oggi si chiama Run di Danz dove ci sono Serious Thing, Calabash Crew, il nostro piccolo Junior Sprea e il buon Vito War. Gli eventi Double Drop, crew capitanata da Tommy Tumble che spazia da serate drum and bass ad eventi hip hop (le centomille volte di Aphrodite, i quarantanni di hip hop con Kool Herc, Afrika Bambaata, l’edizione annuale del DMC). Le crew più giovani che spesso collaborano tra loro come i Degenere e Kinky Business che spaziano in tutta quella che è la bass music e i bassoni dub con DreadLion. Poi negli ultimi anni, Ensi, che abbiamo visto nascere e crescere ha continuato il ciclo dell’hip hop, che tra noi chiamiamo “più giovane”, con Massive (nell’ultimo anno sono passati Nightskinny, Bassi Maestro, Mezzo Sangue..).
A proposito di realtà che compongono il Leo, sicuramente una fondamentale è Radio Onda D’Urto: ci racconti della sua storia?
L’esperienza di Radio Onda d’Urto nasce da quella di Radio Onda Diretta, che si è sempre dichiara un’emittente comunista. Fare controinformazione era considerata la cosa più importante, soprattutto perché non c’era contatto con la stampa mainstream. Quindi l’opportunità di poter dire la nostra e raccontare senza filtri era fondamentale. La prima postazione al Parco Lambro è del ’91: un’antenna, un trasmettitore, un mixer, un microfono una “piastra” e via, un debole segnale per protestare contro una legge che consegnava l’informazione ai grandi monopoli, raccontando cosa voleva dire vivere nei quartieri periferici italiani devastati dall’eroina. In via Leoncavallo le trasmissioni avevano una fascia oraria ridotta, pomeriggio/sera, alimentati a gasolio. Più avanti, con una serie di concerti organizzati ad hoc ci acquistammo la frequenza. Però in quegli anni la repressione nei confronti dei compagni e degli spazi era fortissima e la decisione di portare la sede fuori dal Leoncavallo è stata dettata dall’esigenza di poter proseguire l’esperienza; per anni in via Lambro, accanto al Leo, due stanzine hanno segnato la controinformazione milanese, una redazione ampia ed eterogenea. Poi con l’occupazione di via Watteau la sede è tornata all’interno dello spazio. Ora la redazione milanese si occupa principalmente di musica, infatti sono poche le ore di trasmissione da Milano, ma la redazione di Brescia che ha negli anni dato voce a chi voce non ha, è un importante megafono di quello che succede a Brescia, ma anche in Lombardia e organizza la festa che ogni anno permette alla radio di vivere è di essere indipendente e soprattutto senza pubblicità!
Intermezzo “memorabilia”: ti ricordi il tuo primo concerto al Leo come spettatore e come organizzatore? Ce ne sono altri rimasti negli annali del Leo?
Il mio primo concerto furono i Sick Of it All, ricordo ancora il batterista con i dollari nella bandana e il salone pienissimo. Oltre a una serie di concerti organizzati con FreeGo, il primissimo fu la sonorizzazione de La Caduta di Casa Usher dei Massimo Volume. Era il 2009, si trattava della prima data di una rassegna che si chiamava “Sound Ciak” dove diversi gruppi sonorizzavano o univano la loro musica dopo la visione di un film.
Quell’anno è stato incredibile a livello di concerti ed eventi: di sicuro, di quel periodo riecheggia ancora nelle orecchie di molti milanesi il concerto di Shaggy. Altri eventi memorabili sono stati Public Enemy (nel 1999, nel tour di There’s a Poison Goin’ On, NdR) con un Leoncavallo che esplodeva, il concerto di Carmen Consoli con l’orchestra, il Wu Tang Clan, il tour di MonkeyTown dei Modeselektor, le innumerevoli volte di Ellen Allien o Aphrodite, il concerto dei Subsonica dopo SanRemo, i Fugazi con la rampa da skate in fondo al Salone, i Mano Negra arrivati per caso a chiedere se potevano suonare il giorno dopo (almeno così narra la leggenda!) in Leoncavallo 22…
Nel corso degli anni avrai visto un po’ come lavorano locali, agenzie, spazi vari. Che differenza c’è tra l’occuparsi della programmazione di uno spazio come il Leo e il resto?
Il mio approccio è quello di guardare a proposte che non hanno ancora spazio a Milano e che in realtà hanno sempre segnato le mie preferenze musicali. Questo ovviamente ha delle difficoltà che però vengono compensate dalla possibilità che un salone come quello del Leo può dare. Spesso ci si “toglie i sassolini dalla scarpa” facendo e producendo eventi di artisti molto importanti che in realtà non ti aspetteresti in queste situazioni: la cosa importante è che un concerto di Shaggy al Leo per esempio riesci a proporlo a prezzi bassissimi e credo che per Milano sia una delle tante risorse che questo spazio può offrire. Per quanto riguarda il rapporto con gli artisti, ogni volta è una scoperta ovviamente, ma il fatto che in molti chiedano poi di tornare qui credo sia una vittoria, perché ne capiscono la potenzialità e l’impegno che ci mettiamo tutti per fare del nostro meglio.
Passando al pubblico, suppongo sia molto eterogeneo: hai imparato a conoscerlo rispetto a quelli che sono i suoi limiti e le sue preferenze, il suo atteggiamento e le sue abitudini?
Il pubblico è uno dei più grossi interrogativi del mondo. Scherzi a parte, credo che sia difficilissimo a oggi trovare un modo per definirlo. La cosa più importante per gli spazi sociali – che a mio parere dovrebbero essere linfa vitale e propulsori di novità – è non appiattire la proposta a quello che vuole il pubblico, ma essere sempre punto di proposta e innovazione anche su generi che ormai sembrano oltrepassati, tenendo un occhio a quello che succede in città. Ora, attirerò l’ira di tanti, ma l’esempio di Major Lazer è emblematico di come fino a qualche anno fa il reggae fosse inteso in un modo e come invece dopo l’uscita di alcuni suoi singoli oggi venga interpretato e vissuto in un’altra maniera. Luoghi e crew che fino a poco tempo fa non conoscevano neanche un nome di reggae, ora fanno serate dancehall senza magari neanche conoscere un pezzo di Barrington Levy o Johnny Osbourne. Questo non per dare ragione a una o all’altra parte, ma comunque ti devi confrontare con quello che le realtà propongono mantenendo la tua personalità. Un djset di questa estate al Magnolia di Vito War mi ha fatto sorridere perché è riuscito a fare ballare tutti senza mettere neanche un pezzo di Major Lazer o simili.
Quali sono le serate più frequentate? C’è un pubblico di fedelissimi?
Beh, senza dubbio posso permettermi di dire che i “fedelissimi” ci sono e tanti. Le serate più frequentate a oggi sono quelle più trasversali a livello musicale e, proprio per questo, a settembre abbiamo ricominciato a fare le serate “multisala” dove ci sono generi diversi in tre spazi diversi del Leo. Ovvio che se fai il nome “grosso” di un qualsiasi genere, avrai “grosso” pubblico: come in tutta la musica, è ovvio che esistano momenti di picco e momenti di down. Per qualche anno per esempio fare dei live significava avere pochissimo pubblico. Ci sono stati momenti in cui il reggae è stato il top e tutti venivano solo per il reggae, due tre volte alla settimana. Oggi la drumandbass, forse perché in pochissimi a Milano la stiamo proponendo o forse anche perché produttori di spicco internazionale hanno cambiato genere, sta vivendo un periodo un po’ difficile.
Altro discorso importante (e ampio) credo sia legato alla multiculturalità. Posto che è ovvio che uno spazio occupato sia per definizione aperto a culture diverse, negli ultimi anni vi siete dati degli obiettivi, avete ragionato su questo anche per diventare riferimento per gli stranieri in città?
Possiamo dire che storicamente il Leo ha dato spazio a culture diverse, cercando anche di essere casa per molti migranti e che la multiculturalità che si vive qui dentro, sia uno dei punti di forza. Nello specifico, musicalmente credo che le serate reggae abbiano la maggior affluenza di migranti, in particolare africani. Dall’altra esiste una scuola di italiano per stranieri che due volte alla settimana propone lezioni gratuite per chiunque voglia imparare la lingua. Una cosa interessante è che negli ultimi tempi, oltre a migranti solitamente di origine africana, si stanno avvicinando anche studenti e giovani che provengono dal nord Europa.
Multiculturalità, certo, ma anche appuntamenti che non trovano spazio altrove a Milano come il ventennale di Planet Mu: il Leoncavallo è un luogo di tradizioni o piuttosto di avanguardia?
Il Leo è un luogo proprio a metà tra tradizione e avanguardia: da una parte ti puoi dedicare a cose ricercate e portare eventi incredibili proprio come quello di Planet Mu, ma dall’altra puoi pensare di poter portare dei grandi “classici”. Un evento su cui sono sempre molto contento di lavorare sono le Feste del Raccolto e della Semina che già di per sé attirano un vasto pubblico. Quest’anno abbiamo avuto l’occasione e ci siamo potuti permettere di ospitare il live di Swindle, per esempio, un artista incredibile che era già la terza volta che passava da noi, ma la prima volta non c’erano più di 250 persone, al Raccolto quasi 2000. Il punto è che il Leo come tutti i luoghi occupati dovrebbe essere sede di sperimentazioni e provare a portare novità e nuove sonorità (se pensiamo solo alla musica).
Ti sarà capitato di fare un giro negli spazi occupati all’estero o di ricevere un riscontro da band internazionali che si sono esibite qui e altrove: in genere l’Italia è sempre indietro su tutto, il Leoncavallo però ha una fama e una storia che va oltre il territorio nazionale, nella sua complessità credi che il Leo regga il confronto, che anzi possa essere ancora, con tutte le difficoltà, un punto di riferimento a livello europeo?
La cosa che mi piace raccontare a tutti è di come musicisti, producer o dj che provengono da Berlino, Londra, Los Ageles, Francia o chissà dove, ogni volta rimangono entusiasti e affascinati da quello che è il Leo e delle sue molteplici attività. Posti e luoghi da cui tutti noi cerchiamo di prendere ispirazione, ridendo ti dicono che dovremmo esportare questa “cosa” anche nelle loro città. Questo credo sia una delle cose che faccia capire quanto sia importante uno spazio come questo che va oltre Milano, l’Italia, l’Europa… Dal punto di vista della programmazione culturale stiamo molto attenti anche a quello che avviene all’estero e stiamo cercando di far nascere nuovi progetti che possano dare linfa e attività durante tutta la settimana.
40 anni di storia e di attività sul territorio ma la questione della regolarizzazione dello spazio è ancora aperta: da persone che operano dal punto di vista culturale e politico in una città come Milano, quali sono i suoi limiti maggiori nei confronti di chi lavora sul territorio in questi ambiti?
I centri sociali e gli spazi autogestiti hanno oramai una storia abbastanza lunga e crediamo che sia necessario ricontestualizzare queste esperienze alla luce delle trasformazioni che si sono andate a consolidare negli ultimi 20 anni. Senza il Leoncavallo oggi non ci sarebbero né i cosiddetti centri sociali di seconda generazione, né esperienze come il Magnolia. Che piaccia o meno, questo è un dato di fatto. Arrivare alla cosidetta “regolarizzazione” per noi è importante, in quanto ci permetterebbe di fare un salto di qualità organizzativo. Ma la strada è ancora lunga e l’attuale amministrazione non è più in grado di effettuare questo passaggio.
Immagino che all’interno del Leo ci sia spazio anche per un confronto tra generazioni diverse, sia in termini organizzativi da una parte che come pubblico dall’altra. Questo come si traduce e si è tradotto in passato in un punto di forza?
La diversità generazionale è un’altra componente fortissima e importante del Leoncavallo: con quarant’anni di storia, ci sono quasi tre generazioni a confronto. Il luogo dove ci si incontra tutti insieme è l’assemblea del lunedì, dove tutti i gruppi si incontrano e si scontrano rispetto a tutte le questioni di politica e gestione del Leo. La forza sta proprio nel connubio tra l’esperienza di chi questo posto lo vive da tantissimo e le nuove proposte che possono arrivare da chi si è avvicinato da pochissimo.
Rispetto al periodo che hai vissuto in prima persona, quali sono state le difficoltà maggiori e le soddisfazioni più grandi?
Le difficoltà in uno spazio occupato credo siano all’ordine del giorno: credo che proprio la precarietà del fatto di essere continuamente sotto sfratto, in molti momenti abbia fatto allontanare e dividere gruppi e collettivi. Proprio per questo abbiamo dovuto fermare progetti e lavori, visto che non si sapeva se il mese successivo saremmo stati ancora qui. Altrettanto posso dire sulle soddisfazioni, che si hanno quotidianamente: il Leo è un luogo di incontro, di passaggio e di contatti impossibile da definire. Tutti i giorni vedi e metti insieme persone che altrimenti non si sarebbero incontrate e vedi fruire e apprezzare cose che magari dopo anni ti rendi conto del valore e ti dici “Cazzo, l’abbiamo fatto noi quello!”. Penso anche a gruppi musicali che sono ormai in vetta a classifiche che hanno mosso i primi passi qui dentro, a slogan che sono diventati frasi di pensiero comune o a persone che grazie al Leo sono riuscite a crearsi una professionalità, trovando anche la possibilità di sviluppare idee.
Nel 2015 e con tutte le attività che svolgete al vostro interno credi ci siano ancora pregiudizi rispetto a uno spazio “ufficialmente” occupato, con i murales e che fa campagne antiproibizioniste o la maggioranza delle persone lo percepisce come un luogo che è parte integrante del territorio? C’è da parte vostra la volontà di creare un senso di appartenenza con tutta la città?
Il Leoncavallo è di tutti. In 40 anni di esperienza sono passate diverse generazioni: tieni presente che oggi all’interno dello spazio operano circa 15 gruppi informali e associazioni: dalla serigrafia al laboratorio di teatro, dalla scuola di italiano al corso di inglese… Sviluppatori indie, una redazione radiofonica, bike polo, una cucina popolare, una neonata galleria d’arte. Non cerchiamo una appartenenza ideologica; costruiamo reti di cooperazione fuori dalle logiche di mercato. Per noi il cambiamento è una pratica quotidiana di trasformazione del presente, di autogoverno, di solidarietà e mutualismo.
Come vi state preparando a questi tre mesi di “festeggiamenti”?
Saranno tre mesi di fuoco! Siamo partiti con Game Over a settembre, Festa del Raccolto, il live dei Melvins, per il vero giorno del compleanno del Leo, il 18 ottobre, avremo Africa Unite. Poi festeggeremo i 20 anni di Planet Mu con Mike Paradinas, Luke Vibert e altri, Araab Muzik, la storica Terra Trema, Freestylers, Lightning Bolt… E a dicembre chiudiamo con altre cose fantastiche che annunceremo nei prossimi giorni. Credo che meglio di così non avremmo potuto fare!
Avete fatto una sorta di “bilancio” per l’occasione o il quarantennale, in fondo, è solo una formalità?
Per sapere dove andare è necessario capire da dove si viene e gli “anniversari” sono l’occasione per fare una sorta di check up, con lo sguardo rivolto in avanti. Il Leoncavallo è sempre stato legato anche alla storia dei movimenti, e dopo il G8 di Genova 2001 c’è stata una involuzione che ancora oggi paghiamo… Ora crediamo sia venuto il momento di rimettersi in gioco completamente. Seguiteci, perché ci sarà da divertirsi.