“Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera”: citando Neruda, Paolo Ruggiero giornalista e scrittore formatosi a Bologna ci ha mandato questo suo racconto sulla città remixando per noi alcune parti del suo libro d’esordio La grande stagione (Castelvecchi, 2020). Protagonisti del suo romanzo sono proprio i luoghi raccontati da Livio, neolaureato che sta per salutare Bologna alla volta di Parigi. “Livio – scrive Renato Barilli – riversa quasi ad horas le sue private vicende, e ci sarebbe da meravigliarsi se tutto questo non fosse molto vicino all’esperienza dell’autore in persona. Che a un bolognese come me offre il piacere di svolgersi per gran parte nelle vie, vicoli, piazzette, angiporti della città felsinea, in cui Livio si aggira sia per ragioni di studente, sia per la disperata ricerca di un impiego, intento anche a soddisfare i bisogni primari del cibo e del sesso”.
Le istantanee di Paolo per i lettori di ZERO sono, invece, un invito a credere nell’energia unica di Bologna “che non si spegne e tornerà alla grande”.
Rientro a Bologna con il buio, sotto una pioggia fitta che ha cominciato a rigare il parabrezza all’altezza di Ferrara.
La città è lucidata dall’acqua, guido a velocità costante centrando l’onda dei semafori che passano al verde uno dopo l’altro, si accendono di riflesso anche sull’asfalto, in prospettiva. Trovo parcheggio sotto casa. La pioggia entra di taglio sotto i portici.
Abito al quinto piano, all’angolo tra via Fondazza e via San Petronio Vecchio. Potevo capitare al quarto e la finestra avrebbe inquadrato solo l’intonaco delle case di fronte. Invece alzando le tapparelle accanto al letto appare una distesa di tegole e tetti, iniziano dal lato opposto della via, si infittiscono verso il centro storico, diradandosi in direzione dei colli.
La sera affiora il profilo della torre Asinelli, sottile, quadrata, da qui sembra quasi un fiammifero, con una luce rossa in cima.
Sento il battito regolare dei tacchi di una ragazza in strada, mi affaccio. Si è fermata in mezzo alla via. Il volto non si vede, nascosto dall’ombrello. Controlla nella borsetta se ha dimenticato qualcosa, poi la vedo sparire sotto al portico.
Dici Berlino, Amsterdam, Kiev, Lubiana. Dici Roma e Trastevere, Milano e i Navigli, Parigi e il Quartier Latin. Ma confrontandoci sull’argomento tra amici, da anni, gente che di viaggi ne ha fatti, ci siamo convinti che la città dove puoi goderti di più la vita, se hai tra i venti e i trentacinque anni, anche oltre, ce l’abbiamo sotto i piedi, è proprio Bologna. La città d’Europa più adatta a vivere una giovinezza sensuale, esaltante.
Bologna “paese dei balocchi”. Bologna come se fosse una festa continua, un Erasmus che può durare dieci anni. Bologna anche romantica, dispensatrice di opportunità, di incontri.
Bologna è dove tu esci al mattino, puoi incontrare una ragazza in un parco, accanto a una bancarella dei libri d’occasione, alla macchinetta del caffè in facoltà. Ti sorride, tu porgi un pretesto, una battuta scanzonata. Le chiedi con naturalezza il numero. Oppure te lo offre lei stessa. La richiami un po’ più tardi, come se avessi dimenticato di dirle qualcosa. Le proponi di ritrovarvi per la sera. Un invito a cena improvvisato.
Bologna la notte asseconda questi incontri con un’atmosfera inimitabile, le sue prospettive di portici ocra e arancio, i lampioni fiochi, quei chiaroscuri così soffusi, confidenziali. Non sarebbe possibile replicarli altrove.
Di giorno i toni caldi della città possono affaticare, dopo tanti anni a volte vorresti più trasparenze, acciaio, vetro. Ma la notte Bologna riesce ancora a stupirti, sulla sua complicità ci puoi contare.
I giorni di pioggia hanno liberato una luce quasi aurorale, scintillante. Cinque chilometri di corsa all’alba, da piazza Carducci fino ai Giardini Margherita. Qualche giro attorno via Trento Trieste e ritorno. Stamattina mi hanno superato tre ragazze in bicicletta. Pedalavano in relax, mattutine, lasciandosi dietro una scia di risate, mi hanno messo di buon umore.
In via Fondazza trovo aperto il portone, conduce alla corte che attraversava ogni giorno il maestro: Giorgio Morandi ha abitato qui dal 1910 al 1964. I muri perimetrali al giardinetto interno sono tinteggiati in giallo scuro. Biciclette appoggiate all’intonaco, scrostato dall’umidità nella parte in ombra.
La luce del mattino passa attraverso una porta a vetri colorati, si proietta sull’erba come una diapositiva. Quella porta sarà lì da decenni, negli spigoli è nera di polvere antica: mi piace pensare che quei colori al suolo, trasparenti, mobili, li vedesse anche Morandi.
In Strada Maggiore, splendida alle 10, vado a dare un’occhiata a Scienze Politiche. I passi risuonano nella corte di Palazzo Hercolani, ancora deserto. Il caffè metallico che prendo alla macchinetta rianima un ricordo corporale, gastrico di certi pomeriggi prima degli esami, con il cranio sospeso per ore sopra le fotocopie dei libri di testo. Mi ricordo della frescura di certe salette studio, anche quando fuori si soffocava di afa. Era non molto tempo fa.
Svolto in via Zamboni, mi fermo un attimo davanti al 25. Proprio da queste parti, a Lettere, iniziarono le occupazioni studentesche, nel febbraio 1977. Happening e cortei notturni, le lezioni di Gianni Celati, i pennarelli magici di Andrea Pazienza.
Manca, il grande Paz. Chissà come disegnerebbe Bologna oggi. Erano gli “anni di pongo”, come li chiamava Freak Antoni. Lettere, Dams, via Zamboni. Luoghi che ora sono abitati da altre energie, nuove mescole di creatività. Giornate a volte di sbadigli, a volte attraversate da lampi inattesi di euforia, dalla prospettiva di una serata che ti riaccende.
Mi diverto a prendere la temperatura della città da vari punti di osservazione. Cammino senza una direzione precisa. Flânerie alla bolognese.
Svolto ad angolo retto immettendomi come un Pac-Man in via Belle Arti. Cammino senza fretta, godendomi l’elasticità delle suola sul marciapiede. Le ragazze sembrano essersi messe d’accordo: pure loro paiono camminare più lentamente del solito.
Rallentare il passo riconcilia con la città, te ne offre dettagli che altrimenti non vedi, incisioni di muri che osservate da vicino mostrano un’anima di gesso, friabile. Fessure abitate da licheni, muffe. Cammini e si muovono attorno anche i profili dei tetti, oltre i quali si staglia un cielo che in certi giorni prende un colore quasi turchese e allora dà una gioia improvvisa, perché ti accorgi che quel celeste è proprio lo stesso di secoli fa, e questa persistenza del cielo nel tempo, a Bologna la senti più evidente che altrove.
Mi inoltro nell’ex ghetto ebraico, sorvegliato dal profilo amico delle Due Torri. Antiche linguette di lattina brillano come squame, incastonate nell’asfalto. Faccio un po’ di stiramenti allungando le braccia contro un palo.
Entro in un minimarket, cerco nel frigo qualcosa di rinfrescante da bere. Un tizio scherza con una cassiera, parlano a voce alta, ridono, sono amici. È un attimo di vitalità quasi rabbiosa, attorno a quella cassa, e dà vertigine pensare a quante infinite manifestazioni di vita siano in atto ovunque in quel momento, in contemporanea, di vita nonostante tutto: arrampicate in solitaria in montagna, pescherecci al largo nell’Egeo, danze tribali, telescopi in rotazione, balzi di puma da foglie notturne, capriole di otarie, chitarre grattate su spiagge ancora vuote ma dove sta già facendo troppo caldo, meglio tuffarsi.
Decido di prendere la Opel e salire sui colli a respirare un po’ di aria fresca. Al prato dei Cavaioni il parcheggio è vuoto. Mi piace questo pezzo di collina con il suo orizzonte vasto, il prato con l’erba già alta, non ancora falciata. Srotolo la stuoia. Sono l’unico a essere salito qui, stamattina.
Un’amica mi raggiunge più tardi, ha scritto: porterà qualcosa da bere e una focaccia da un forno che ha scoperto da poco, soffice e alta e vedrai, dice, ha un profumo d’olio incredibile.
Brezza leggera e fragranze precoci di menta, basilico. Torna la primavera, certo torna anche aprile e poi con i suoi alberi espansi un altro verdissimo maggio, che è uno dei mesi più belli a Bologna e veramente non lo so, se sarei capace di lasciare questa città.
Brezza leggera e fragranze precoci di menta, sembra quasi mojito. Ma forse stavo già dormendo.
Ho sonnecchiato in pendenza, mentre con la stuoia, senza accorgermi, scivolavo qualche decina di metri più a valle.
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Brani estratti da “La grande stagione” di Paolo Ruggiero, Castelvecchi editore ©2020 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione