In un’edizione in cui la rappresentanza nazionale è una questione sfumata, con l’Olanda che lascia il suo spazio storico all’Estonia per trovare una chiesa di Cannaregio mentre il Padiglione Russo completamente chiuso proietta le ombre della guerra su Venezia, la mostra Il latte dei sogni di Cecilia Alemani si è distinta per una curatela di grande impatto e una ricerca storica impeccabile, con una declinazione al femminile e ricca di lavori notevoli, tanto che anche il pubblico più festaiolo è sollecitato a prendere continuamente appunti su telefoni e taccuini. Parliamo in generale di una riflessione sul possibile abbandono di tutti i centrismi (androcentrismo in primis) che si è ripercossa sui lavori curatoriali e artistici degli artisti e dei singoli padiglioni. Se dell’attesissimo Padiglione Italia vi parleremo a parte in un’intervista con l’artista Gian Maria Tosatti, vi presentiamo intanto alcune riflessioni sparse per avvicinarsi all’arcipelago Biennale.
Meritato a nostro avviso è il Leone d’Oro al Padiglione Gran Bretagna. Una ricerca coerente, radicale e fondata nelle culture – e sottoculture – del Regno Unito, quella di Sonia Boyce, prima donna nera a rappresentare la sua nazione. Con l’opera Feeling Her Way l’artista intesse una collaborazione con le musiciste Jacqui Dankworth, Poppy Ajudha, Sofia Jernberg, Tanita Tikaram e la compositrice Errollyn Wallen, per un nuovo capitolo della Devotional Collection della Boyce: un lavoro che vuole documentare attraverso reperti e frammenti il contributo delle musiciste nere alla cultura della nazione inglese. Una colonna sonora continua che si sviluppa in tutte le stanze del Padiglione, allestito interamente con elementi scultorei e una carta da parati realizzata con motivi geometrici ispirati alla pirite, minerale noto anche come l’oro degli stolti, espressione nata in ambito coloniale, qui usata come metafora sottesa all’idea di giudizio.
Trionfo di questa edizione è Francis Alÿs al Padiglione Belgio con The Nature of the Game, che ha raccolto giudizi entusiasti praticamente unanimi da pubblico e critica. Un progetto che documenta in video – fruibili anche on line – i giochi dei bambini in Afghanistan, Belgio, Canada, Repubblica Democratica del Congo, Hong Kong, Messico e Svizzera, ripresi nei luoghi dove l’artista è invitato per mostre e progetti. Giochi come una gara di lumache oppure il volo dentro copertoni da camion prelevati da una discarica e fatti planare tra le dune del Congo. Ad accompagnare i video ci sono due sale con piccoli quadri, controcanto perfetto e poetico che traduce e fissa alcuni momenti nel tempo. Alÿs trascrive queste azioni attraverso una telecamera discreta e silenziosa, che registra i bambini nella loro estrema naturalezza. Il lavoro non è di denuncia e non ha un tono politico, è una poesia dedicata all’infanzia e al gioco. Ce lo racconta la curatrice Hilde Teerlinck: “quello che vedete nel padiglione è attualmente il centro della ricerca dell’artista. Francis Alÿs: ha semplicemente iniziato così, prendendo la sua videocamera e filmando i giochi, cercando di capire come funziona la società, i suoi valori e le tradizioni”.
All’entrata del Padiglione Australia si viene accolti dal magnifico stridore noise, tra feedback e distorsioni, della chitarra di Marco Fusinato, che si esibisce dal vivo al centro di DESASTRES, installazione sperimentale in cui suono e immagine diventano occhi e orecchie in allerta all’interno dello spazio, dove il suono si accompagna a ciclo di immagini in loop proiettate su uno schermo che occupa un lato del Padiglione, mentre un muro di amplificatori gli fa da quinta. Fusinato chiama queste immagini “partitura”: una sorta di sovrascrittura di fotografie di proteste, edifici in fiamme e immagini astratte generate inserendo alcuni termini (non divulgati) nei motori di ricerca. Per il ritorno nella regione da dove proviene la sua famiglia, l’australiano Fusinato attinge dalle sperimentazioni di figure come Thurston Moore e Mats Gustafsson per costruire una complessa macchina sonora e visiva che aggredisce frontalmente il pubblico, lo attiva e lo scuote: semplicemente imperdibile.
Emozionante il lavoro di Zineb Sedira, che con Dreams have no titles trasforma il Padiglione Francia in uno spazio immersivo, al tempo stesso set cinematografico, archivio e sala di proiezione. Sospeso costantemente tra memoria personale e storica, cattura letteralmente il visitatore con momenti performativi e lo porta a tuffarsi nella storia del cinema e nei fondi archivistici, con lo sguardo dell’artista a mediare e costruire un discorso complesso tra Italia, Algeria e Francia, riscoprendo il film documentario del 1964 di Ennio Lorenzini, Les Mains Libres (aka Tronc de Figuier) a fare da modello per le complesse operazioni di rilettura e re-enactment.
Elogio del vuoto, parte 1: la Spagna si presenta con la Corrección di Ignasi Aballí, che svuota lo spazio del padiglione e ne corregge virtualmente la pianta ruotandolo di dieci gradi sul suo asse, in modo da allinearlo con le nazioni vicine e il tessuto urbano. L’illusione è realizzata con nuove pareti temporanee che rendono gli interni ancora più spiazzanti e labirintici, e prosegue con una bellissima caccia al tesoro nella città: l’artista lascia una mappa e un cofanetto, per avere il libro d’artista (gratuitamente) dovrete solo recuperarne i sei fascicoli in altrettanti luoghi simbolici per Venezia e i veneziani, da La Beppa allo storico editore Filippi, fino alla Galleria di Giorgio Mastinu e lo stupendo bookshop di Bruno.
Elogio del vuoto, parte 2: nel Padiglione Germania l’artista Maria Eichhorn, dopo aver dovuto rinunciare al progetto iniziale dove l’intero edificio avrebbe dovuto essere traslato in un altro luogo della città, lavora all’interno mettendo in luce i punti di congiunzione tra l’originale padiglione bavarese del 1909 e l’estensione nazista del 1938, che ha portato all’attuale configurazione. Un lavoro radicale, che arriva letteralmente alle fondamenta e si affida a brevi commentari sulle pareti, completato da un volume e una serie di visite guidate ai luoghi della memoria a Venezia, parte integrante e irrinunciabile per capire il pensiero dell’artista.
Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl, partner nella vita e nel lavoro, sono le protagoniste del Padiglione Austria con il progetto Soft Machine che come una partitura si divide in due “atti”. Prevale un impianto teatrale articolato in due dimensioni, fondato sulla decostruzione delle dinamiche dei meccanismi di strutturazione dell’identità: se da un lato rimanda ad una dimensione quasi cyborg, dall’altro delle quinte permettono allo spettatore di calarsi in un caleidoscopico mondo di citazioni pop, tradizionali, artistiche e kitsch. Con il loro “artist cosmo” toccano tutti i mezzi come design e moda (disegnano anche una propria collezione, d’altronde Jakob Lena Knebl si è formata con Raf Simons all’Università di Vienna). Sull’afflato del Gesamtkunstwerk il tutto sembra voler minare e detronizzare le connotazioni di genere, identità sessuale, colore della pelle e status sociale.
Fuori dai Giardini, i Padiglioni nazionali continuano anche all’Arsenale.
L’Uzbekistan accoglie i visitatori in uno spazio teatrale, sotto nuvole di Limonium essicato: Dixit Algorizmi è curato da Space Caviar e Sheida Ghomashchi e si configura come una riflessione sul lavoro di Muhammad ibn Musa al-Khwārizmī, scienzato ed erudito nato e cresciuto nell’odierna città uzbeka di Khiva. Una serie di esplorazioni in forma di attività pubbliche, che vanno in scena per tutta la durata della biennale trasformando il padiglione in uno strumento, una nuova Casa della Sapienza organizzata spazialmente per ospitare incontri e scambi, con l’installazione sonora padiglione, l’installazione sonora Velocity0, del musicista uzbeko Abror Zufarov e dell’artista e compositore parigino Charli Tapp, a fare da connettore.
Singapore è invece rappresentata da Shubigi Rao con Pulp III: a short biography of the banished book, a cura di Ute Meta Bauer. Parte di un progetto decennale, la ricerca dell’artista qui prende la forma di un libro, un labirinto di carta e un film, per indagare le lingue a rischio estinzione, il futuro della conoscenza pubblica e i legami tra le comunità dedite alla stampa: un’ode poetica, politica e coraggiosa dedicata ai libri come strumento di memoria e conoscenza.
Una nota di merito va sicuramente ai Padiglioni del Kosovo e del Messico. Jakup Ferri con The Monumentality of the Everyday, stupisce con la semplicità del quotidiano, piccoli gesti che fanno parte di una grande installazione site-specific composta da tappeti, ricami, disegni e dipinti. In linea con le ricerche di Cecilia Alemani sulle eredità surrealiste, i suoi lavori attingono da un mondo immaginifico composto da microrganismi come batteri, virus e funghi che stringono amicizie e parentele con umani e animali, creando connessioni necessarie per la futura convivenza. Lo spazio sembra una rampa da skateboard dove è possibile poggiare i piedi su tappeti realizzati a mano da maestrie provenienti da Albania, Kosovo, Burkina Faso e Suriname, mentre le immagini sono costruite a partire da un repertorio eclettico, che comprende anche gli avatar di Jip Ferri (il figlio dell’artista) nel gioco Animal Crossing.
Al Padiglione del Messico, Hasta que los cantos broten (Until the songs spring), presenta Mariana Castillo Deball, Naomi Rincón Gallardo, Fernando Palma Rodríguez e Santiago Borja Charles. I lavori sembrano lottare contro la tradizione di violenza e colonialismo che fa parte del passato della nazione e al tempo stesso rifuggire alla globalizzazione occidentale, testimoniando il radicamento autoctono, da credenze popolari e visioni surreali. Colpisce il video dall’estetica sovversiva di Naomi Rincón Gallardo, Sonnet of Vermin dove un gruppo di animali – interpretati da performer – come un pipistrello, un serpente, uno scorpione e delle rane, cerca di sopravvivere in un mondo futuristico devastato dalla rovina ambientale e dal disordine sociale.
Alla sua prima partecipazione, l’Uganda spicca tra i padiglioni sparsi tra i palazzi veneziani. Una doppia personale degli artisti di Kampala Acaye Kerunen e Collin Sekajugo, Radiance – They Dream in Time è un confronto spettacolare tra forma e materia, culture e sottoculture, lavori femminili e visioni post-coloniali.