In principio, la Bovisa era una cascina. Cascina Bovisa. Parliamo di un dato storico risalente al Settecento, quando questa cascinetta si trovava in aperta campagna, oltre i confini di Milano, e immersa in quella nebbia che bagna le barbe che i milanesi chiamano scighera. Dovete pensare che tutto questo territorio alle porte della città era considerato una propaggine del Borgo degli Ortolani – quell’angolino di città da cui s’è generata Chinatown. Una specie di Parco Agricolo ma a Nordest, con il piattume infinito dei campi della pianura, le striature azzurrine dei canali, i fontanili per fare i bagni, insomma, quel bucolico che inverdisce gli occhi e che si sa, non ha retto né all’industrializzazione né all’abbassamento della falda idrica. Qui era pieno di cascinelle e paesotti, tutti a correre lungo una via: la via Bovisasca, che andrà poi a costruire la cresta su cui si edificherà il quartiere d’oggi.
Il classico dell’inurbazione che vede la nebbia e i fumi del letame divenire grigiore e carbone, i contadini divenire operai, e la campagna farsi città.
Arriva l’Ottocento fumoso degli spazzacamini, e per fine secolo tutto ha già altri odori. Quello del metallo, del vetro, della chimica, del carbone. Se vi chiedete perché proprio la Bovisa doveva diventare un polo industriale di questa entità, è perché dovete immaginarvela, all’epoca, come Bolzano: una porta sull’Europa germanica che s’apre profonda nello sfintere del San Gottardo, aperto proprio nel 1882.
Poi si sa, è pianura: facile da edificare, facile da percorrere. Nell’arco di quarant’anni, la Bovisa è tanto industrializzata da guadagnarsi, dicono, l’appellativo di “piccola Manchester di Milano”. Potremmo intanto domandarci perché a Milano ci debbano essere sempre e in continuazione “piccole” città, “piccoli” altrove, rimuginando anche separatamente sul “piccolo” e sul “altrove”, ma lasciamo la suggestione a chi avrà più voglia e tempo di noi per fare ricerca delle città nelle città delle città, magari evitando di citare il già usurato Calvino. Insomma, la Bovisa diviene un po’ Manchester in quegli anni, il che significa: grande distretto industriale e produttivo, folta classe operaia, il classico dell’inurbazione che vede la nebbia e i fumi del letame divenire grigiore e carbone, i contadini divenire cittadini – alias: operai. Qui non molti sapranno, per esempio, che l’intitolazione della via a Giuseppe Candiani la si deve al grande stabilimento, omonimo, di acido solforico. Bisogna sapere qui, due aneddoti: uno è che il Candiani amava tanto la fabbrica da trasferirvisi con tutta la famiglia; ce lo possiamo immaginare a vivere in una villa adiacente all’architettura d’abitato operaia, con le case a ringhiera e i grandi cortili interni che ancora oggi fanno da viscere alle palazzine della Bovisa. L’altro, è che l’ampiezza del polo d’industria chimica era tale da avere un impatto anche sul paesaggio, al punto che le ceneri di pirite – il residuo di lavorazione – hanno fatto per decenni da terrapieno su cui poggiava sia stazione ferroviaria che l’abitato (qualcuno ha detto Antropocene?).
Proprio di fianco al Candiani, sorgeva anche la celebre Ceretti & Tanfani – oggi sede del Campus Durando – e all’epoca produttrice di impianti di sollevamento e trasporto, ovvero faceva funivie e intrecciava i cavi per tenerle sollevate. È affascinante pensare la costruzione di funivie in piena pianura, oppure immaginare che la seggiovia installata al Sempione durante la IX Triennale nel 1951 possa essere stata prodotta proprio lì, così come sono rimarchevoli i record raggiunti: linea aerea più lunga d’Europa per trasporto merci (40 km in Spagna); funivia più alta del mondo (Monte Bianco, versante francese, 2700 m di altitudine); massimo carico trasportato su linea aerea all’epoca (20 tonnellate di marmo, a Carrara).
Le Officine del Gas: giganti di lamiera e putrelle d’acciaio che sapevano gonfiarsi come polmoni all’occorrenza.
Nei primi del Novecento, arriva invece l’icona della Bovisa: le Officine del Gas, che fu l’impianto più imponente d’Italia per la produzione e distribuzione del gas. Parliamo dell’architettura più iconica del quartiere, quella che svolge un po’ il ruolo di “bandiera”, e si ritrova negli stickers, nelle insegne dei locali, nei nomi delle trattorie e così via. Giganti di lamiera e putrelle d’acciaio che sapevano gonfiarsi come polmoni all’occorrenza. Ad aggiungersi nel quartiere-fabbrica di quegli anni arrivarono anche i primi colossi del consumismo ruspante, quello che cominciava ad affacciarsi alla quotidianità urbana, come le distillerie dei Fratelli Branca, che portarono qui la produzione dell’amaro più amaro di sempre, ma anche una fabbrica di cioccolato, quasi a mitigare gli odori del metallo con un’atmosfera dolciaria.
In tutto ciò, come negli ambienti industriali anglofoni già iperindustrializzati, e un po’ con quella spinta fascinosa della tecnica, dei fumi e della velocità che ebbe il futurismo a inizio Novecento, anche qui alla Bovisa abbiamo avuto il Mario Sironi a dipingere le vedute dell’industria intorno agli anni ’20. Poi Testori, a raccontare nei cinque volumi de “I segreti di Milano” i dintorni del quartiere, alcune scene di “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti girate proprio a Bovisa negli anni Sessanta, l’Ermanno Olmi col suo unico romanzo “Il ragazzo della Bovisa” ma anche con la pellicola di “Milano ’83”, per arrivare fino ai “Ritratti di Fabbriche” di Gabriele Basilico.
La Bovisa si è da sempre configurata come un polo di quella “cultura del fare” che contraddistingue un po’ la laboriosità meneghina.
Insomma, nell’arco di questi anni, i cortili delle case a ringhiera, che rappresentavano quella socialità agreste, vennero piano piano affiancate dagli stabilimenti industriali, dai capannoni, diventando col tempo abitazioni operaie, gravide di piccole attività e botteghe. Ci si spostava in bicicletta o con la “gamba de legn” (simpatico nomignolo per i vecchi tram), e in treno. Trattorie e Latterie erano il sale dello svago – pensate alla Latteria Maffucci, a Dergano –, e così la Bovisa, a metà tra un paesino rurale e un abnorme polo industriale, s’apprestava a vivere tutto il Novecento. Perché poi, come sapete, arriva il Politecnico. La rivalutazione degli spazi che c’erano, a partire dalla Ceretti & Tanfani, che diventa sede del Campus Durando, e mantenendo pressoché intatta tutta l’architettura preesistente: la facciata rimane quella dell’industria, gli interni vengono ammodernati e meticolosamente scelti in base alla destinazione – vi basti pensare che il lungo edificio in cui venivano annodati i cavi delle seggiovie è ora il LaST, dove svolgono i crash test. Perché poi si ritrova tutto: le Cristallerie Livellara sono ora lo Spirit de Milan, le case e gli studi di produzione sono interni alle vecchie case a ringhiera, operaie, che negli ultimi anni si sono inverdite, i laboratori dei makers nei vecchi capannoni ristrutturati e poi le cascine, come la Cascina Albana con la sua madonna della frutta, e i parchi e le storie delle prime case cinematografiche (l’Armenia Films) che ritornano al quartiere – più a Dergano, con i ragazzi di Nuovo Armenia.
Insomma, tra l’apporto della ferrovia e il continuo arrivare di altre piccole e medie industrie, la Bovisa si è da sempre configurata come un polo importantissimo ricco di fumi, un polmone grigio metallizzato che rappresentava, e rappresenta tutt’oggi in fondo, con l’avvento del Politecnico trent’anni fa, quella “cultura del fare” che contraddistingue un po’ la laboriosità di Milano e che intende incistarsi sempre più nel tessuto socioculturale del quartiere e nell’immaginario che da almeno un secolo lo contraddistingue. Parliamo di quel grande progetto che è MoLeCoLa, e che non farà altro che portare avanti tutte quelle suggestioni, quegli immaginari, che hanno scolpito il quartiere nell’ultimo secolo.