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Cattedrali di gelatina: tutto sull’aspic e dove gustarlo

Trasparente, kitsch, borghesissimo: un monumento involontario a una Milano che crede ancora nella sua superbia.

Written by Ario Mezzolani il 11 December 2025
Aggiornato il 12 December 2025

Qualche settimana fa camminavo nella nebbia milanese – che poi non è più nebbia: sono solo gas di scarico che provano nostalgia – e pensavo a quanti simboli dell’immaginario cittadino abbiamo già perso. La scighera che non scende più, la neve che non si posa, le insegne al neon che brillavano come progetti falliti, i ghisa sopravvissuti soltanto in Galleria, imbalsamati come fauna d’epoca. E poi quelli che resistono: l’aperitivo, il panettone, le luminarie accese con settimane d’anticipo. Io ai simboli ci credo: cliché, stereotipi, tutto il repertorio delle cose che definiscono un luogo più di qualunque urbanistica.

Cammino, cammino, ancora cammino. Nelle cuffie un classico di Dalla — un cliché dichiarato, un cliché che funziona proprio perché non chiede permesso. Un bagno tiepido nel cliché dei cliché mentre attraverso una Milano che, più che vivere, si allena per essere sempre pronta. Canto.

Milano sempre pronta al Natale
che quando passa piange
e ci rimane male
Milano sguardo maligno di Dio
zucchero e catrame

E mentre canto mi perdo nell’archeologia dei suoi fantasmi: signore con l’astrakan a prova di bomba, tacchi bassi da visita di cortesia, tovaglie di lino tirate a frusta per impressionare un ospite che non arriva mai. Scavo tra questi strati di memoria e lì – eccolo. O eccola, fate voi. L’aspic.

Un simbolo sospeso tra ciò che Milano non vuole lasciare andare e ciò che non sa più come guardare. Un telefono a gettoni gastronomico. Un reperto che rifiuta l’estinzione. Da qui la domanda più milanese possibile: dove cavolo si trova ancora l’aspic, oggi?

Anche nella disfatta, l’aspic resta un simbolo: la volontà tutta milanese di rendere bello persino ciò che è destinato a marcire.

C’è stato un momento in cui l’aspic era il sovrano della tavola borghese. Una cucina che non prevedeva inciampi: piatti da esposizione, grembiuli intonsi, bicchieri di Boemia che suonavano come strumenti a corda nei silenzi domestici. La famiglia non mangiava: performava. La precisione era affetto, l’ordine un antivirus esistenziale. Un piatto da guardare prima che mangiare: estetica prima del gusto, controllo prima del caos.

La fame diventava forma, il cibo architettura. L’aspic era il suo palazzo di cristallo. Verdure incastonate come una vetrata gotica, gamberetti disposti a mosaico, uova sode come occhi spalancati, olive piazzate come punti cardinali. La luce del frigorifero gli dava la sacralità di un soprammobile fragile: piccole cattedrali di gelatina dedicate alla società bene e alla sua idea di perfezione domestica.

Nel boom economico, l’aspic era un diploma: comunicava che quella famiglia aveva raggiunto la versione premium di sé stessa. Ma c’era qualcosa di lussurioso in quella freddezza, quasi perverso: un cibo che oscilla, vibra, ma non si muove mai davvero. Vivo per inerzia. Poi arrivò il nuovo millennio e l’aspic è precipitato sul fondo dei frigoriferi. Dentro quell’abbandono, l’aspic è diventato un fossile perfetto della Milano che non voleva mai sbagliare. Ma anche nella disfatta restava un simbolo: la volontà tutta milanese di rendere bello persino ciò che è destinato a marcire.

Eppure — Milano non butta mai davvero via ciò che le assomiglia troppo. E infatti l’aspic sopravvive. Se guardi bene, lo puoi trovare nei banchi gastronomici dell’Esselunga, oppure lo vedi in certe gastronomie-gioiellerie: tra filetti di storione e paté di fegatini, fermo, immobile, impassibile. Testimone silenzioso e un po’ fané di una Milano che non c’è più, ma che continua a guardarti con lo sguardo di chi giudica, sotto centimetri di gelatina.

E allora andiamo insieme, tra le gastronomie posh della città, a scoprire dove trovare, ancora oggi, il simbolo kitsch e decadente di una Milano che scolora. Prima che svanisca del tutto.

Peck

La cattedrale del gusto. Qui tutto è liturgia: pavimenti lucidi, scaffali che sembrano curati da un conservatore d’arte, clienti che avanzano con passo calibrato. Milano qui mostra il suo lato perfetto: elegante, impeccabile, in posa. L’aspic, se lo cerchi, sembra un reperto museale, lucidato ogni giorno, esposto come un piccolo miracolo borghese.

Il Nuovo Principe

Se fosse un album fotografico, sarebbe degli anni Settanta. Tutto è ordinato, calibrato, senza bisogno di ostentare nostalgia: il silenzio, il profumo del pane appena tagliato, i taglieri allineati. L’aspic qui è un ospite elegante e discreto, che conosce la propria superiorità morale senza doverlo dichiarare: semplicemente, sta lì.

Rossi & Grassi

Milano nella sua versione più disciplinata: luci al neon, ordine svizzero, file che scorrono come un’orchestra sinfonica. L’aspic sta lì, disposto con una precisione quasi ospedaliera. È l’emblema della borghesia che non cede mai: non all’ansia, non al caos, tantomeno alla sciatteria.

Zoppi & Gallotti

Il regno della tradizione in via Cesare Battisti guidata da Giuseppe Zoppi. Qui l’aspic sembra un parente lontano che nessuno vede da anni ma che continua a presentarsi impeccabile, con il cappotto buono e un sorriso trattenuto. Milano vecchia maniera, argine della standardizzazione da supermercato.

 

Gastronomia Civelli

Un luogo che non fa scena: la fa senza accorgersene. Storica Gastronomia Artigianale di Milano a due passi dal Duomo. Una semplicità quasi comica, che diventa poesia milanese suo malgrado. Qui l’aspic è esposto come si esporrebbe un relitto trovato in un baule di famiglia, con rispetto.

Fratelli Faravelli

Quartiere bene, gusto borghese. Fondata nel 1957 da Jolando Faravelli e Rosetta, ancora oggi regna tra clienti abituali e passanti curiosi. I prodotti freschi e le ricette pronte parlano di continuità e misura. L’aspic qui è più un soprammobile commestibile: lucido, elegante, senza necessità di scusarsi di essere borghese.

 

Gastronomia Bonardi

Patate al forno, stinchi di santo, ogni ben di Dio. Bonardi è una gastronomia che sembra un romanzo di formazione della Milano che fu. L’aspic, sempre presente, è una fotografia che non ingiallisce: un frammento di educazione sentimentale milanese, dove anche la gelatina ha un carattere.

Rosticceria Galli

Un tempio pop-elitario, dove la tradizione non si vergogna di essere tradizione. L’aspic arriva come un colpo di teatro retrò: un oggetto del desiderio che nessuno desidera davvero ma che tutti, in fondo, rispettano. Milano signora, stanca e perfetta, dal 1949 con cucina rigorosa e ingredienti d’eccellenza.

Torri & Co.

Da oltre un secolo nel cuore di Nolo, a due passi dalla Stazione Centrale. Piccola, elegante, interamente in legno, ordinata come una galleria d’arte del cibo. L’aspic appare come un cameo del passato: discreto, autorevole, capace di catturare lo sguardo senza bisogno di gridare. Milano contemporanea che convive con la memoria.

Salumeria Ghignoni

Familiare, sincera, quartiere che ti accoglie. Dal 1961 Ghignoni serve piatti pronti, lasagne, risotti, arrosti e parmigiana, tutti rigorosamente curati. Formaggi e salumi nostrani al banco, carne fresca di qualità, tutto racconta una Milano che fa le cose per bene. L’aspic qui è solo un dettaglio nostalgico, inserito in un mondo che vive ancora di tradizione autentica.