La storia del cinema è costellata di treni. A partire dal battesimo nella storia del primo cinematografo dei fratelli Lumiere, con L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat – che non è il primo film della storia – fino ai più recenti treni frequentati da un Poirot o un James Bond o anche una banda di rivoluzionari e forze armate in stile Snowpiercer. Ma quel primo soggetto scelto dai Lumiere, quel treno che fece sussultare il pubblico nel 1896 davanti a una locomotiva intenta a investirli uscendo una finestra luminosa, inaugurò non soltanto la stagione del cinema in sé, ma anche quelle analogie e metafore che legano quasi indissolubilmente la cinematografia al treno. C’è un momento storico e suggestivo che viene percorso in comune, all’insegna della velocità, dell’accelerazione, degli studi sul movimento che vanno di pari passo con la riduzione delle distanze geografiche. Perché poi d’altronde l’immagine in movimento non è poi così diversa dallo scorrere del paesaggio visto dai finestrini del treno: movimento ed emozione, motion and emotion, l’accelerazione dell’immagine e una nuova logica della rappresentazione – ma questo genere di speculazioni le lasciamo a chi le ha fatte decadi fa analizzando i rapporti tra velocità e immagine (indubbiamente Paul Virilio in cima), perché qui la storia che vi raccontiamo è quella di un “C’era una volta”: «C’era una volta, a Milano, il quartiere del Cinema di fianco alla stazione».
A Milano treni e pellicole hanno cospirato per decadi.
Ebbene sì, a dispetto di ogni indubbia predominanza romana sulla produzione cinematografica nostrana, a Milano treni e pellicole hanno cospirato per decadi, in quella vasca da bagno squisitamente moderna con bolle di immagini e turbinii in movimento, tra proiettori, rocchetti e ferrovie.
Ora, Milano tentò la sua una piccola Hollywood nel centro-città, proprio sotto alla Madonnina, con il celebre cinema Apollo e i grandi locali al neon agghindati da maxi-cartelloni con tanto di file, bigliettai, clima da serata trendy e ovviamente mondana a cappotto lungo. Ma il quartiere del cinema meneghino era, come forse si vuole per una città come Milano, squisitamente logistico. Parliamo di via Soperga, rimasta nei cuori come il luogo delle fondamenta del Cinema, come il ventricolo sinistro del cuore cardiopatico di Stazione Centrale che custodiva non le sale cinematografiche, ma ciò che occorreva a farle funzionare, che reggeva per intero la distribuzione e l’esercizio cinematografico: le case di produzione, i noleggi tecnici, le sale private dei test, i rivenditori di pellicola, insomma, tutto l’armamentario tecnico e assieme sociale, tra i bar le osterie e le balere della comunità del cinema di Milano.
L’epopea hollywoodiana a Milano: Columbia, Warner Bros, United Artists e poi Universal, Disney.
Tra le nebbie fitte di un Piazzale Loreto ultra periferico nel trentennio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quando quella zona era allineata al racconto celentaniano di via Gluck – In una casa, fuori città / Gente tranquilla, che lavorava / Là dove c’era l’erba ora c’è / una città –, sul crinale del massicciato ferroviario in via Soperga, si leggevano sui citofoni i nomi mitici dell’epopea produttivistica hollywoodiana: Columbia, Warner Bros, United Artists e poi Universal, Disney, attorniati dalle piccole case di produzione qua e là.
Cos’era, cosa succedeva in via Soperga, nel “Quartiere del Cinema” di Milano? Se si vanno a leggere le poche storie e ascoltare le tante testimonianze, dovete immaginarla come uno strano spazio a metà tra un salotto e un magazzino. Gli artisti lo capiranno benissimo, perché un luogo così è a tutti gli effetti uno studio – si spiega così la strana architettura logistica, da shed-landscape, che in sostanza predomina i paraggi di Stazione Centrale. Insomma, un salotto-magazzino serve per creare le condizioni perfette per produrre in amicizia e fare feste.
Infarti per le uscite di film importanti, cinematografi con fondina e pistola come un John Wayne del massicciato ferroviario.
Sappiamo per esempio che il martedì e il venerdì erano i giorni del cinema di via Soperga, quando tutto il retroscena produttivo del cinema si ritrovava in zona per far baldoria (“salotto”), quando tutti si riversavano nel tempio del noleggio, tra gli ingranaggi festanti della gloriosa macchina emozionale del cinema, quella capace di far piangere, sorridere e innamorare al buio delle sale. È quella piega del cinema per cui le emozioni, le scene e gli spazi del grande schermo riescono sempre a fare breccia nella realtà di tutti i giorni: basta pensare a quelle storie che si trovano scritte qua e là rispetto al clima di via Soperga, storie che raccontano di infarti occorsi alla scoperta della data d’uscita di un film importante o di cinematografi addobbati con fondina e pistola come dei John Wayne sul massicciato ferroviario.
Questo strano legame tra realtà e finzione si ritrova poi alla perfezione nel clima di una Milano che al cinema degli anni Settanta aveva i toni del giallo, dei turpi omicidi di stato e delle storie di una città che cinquant’anni era “nera”, noir come la notte, e che magari anche per questo viveva la sua controparte in osteria, quei luoghi dell’aggregazione creativa che hanno in fondo costruito il limaccio su cui si è eretta la Milano-altra di oggi. Per farvi rendere conto di che Milano si trattava bisogna fare un sorvolo sulla storia criminale – d’altronde il crime italiano negli anni Settanta spingeva –: Calibro 9 ma ancor di più Milano Odia: La Polizia Non Può Sparare, sono soltanto due dei capolavori che rappresentano al cinema la città meneghina tinta di nero, di una notte che decadi fa aveva tutt’altro sapore – meno amarognolo dell’MD e più solforoso, con tonalità di petardo e polvere da sparo in legno di frassino.
Per non smettere di seguire il filo nero della notte, più o meno in concomitanza con la nascita di quel distretto logistico-produttivo della cinematografia di via Soperga, nasce a Milano anche il primo tamburino editoriale dedicato al cinema, e si trova ovviamente, su La Notte: forse il più famoso quotidiano in formato tabloid della città meneghina (che arrivò ad avere ben tre uscite al giorno), dedito alla cronaca spinta e cruda del nero più nero che si possa immaginare tra omicidi, pistole, furti, rapimenti, assalti a banche e portavalori e ovviamente droga, droga e droga quando gli anni promettevano bene – ed erano gli stessi del piombo. Insomma, La Notte, giusto per rimanere in tema, fu tra i primi a farsi le domande per eccellenza: “Chi siamo? Dove andiamo? Dove ci si diverte?”, inserendo così le prime recensioni a stelline (per i giudizi dei critici) e pallini (per il successo nelle sale) dei film, in una sezione inizialmente a cura di Enzo Biagi. Leggenda narra che inizialmente ci fossero soltanto le stelline, e solo dopo una pessima recensione a un Don Peppino si sentirono in dovere di considerare il pubblico – alla Rotten Tomatoes.
Dopo questi racconti, vi lasciamo con un luogo-testimonianza di quanto abbiamo conosciuto: la grande Zari Film, tempio della cinematografia passata, storica, materica e logistica. Fondata da Franco Zari nel 1965, nel corso degli anni ha accumulato una quantità di materiali impressionante, una specie di pentola d’oro della cinematografia meneghina (ma anche europea, data la natura logistica di questo “quartiere del cinema”) posta al termine dell’arcobaleno di Centrale, con colonne di DVD e pilastri di VHS che conservano tesori e capolavori il più delle volte introvabili – se non lì da Franchino. Trovate poi il Beltrade e il Palestrina, tra Nolo e la soglia di Loreto, che ancora conservano lo spirito d’iniziativa, di preview e d’essai – nonché di amicalità, bicchieri di vino e scoponi scientifici, soprattutto il Beltrade – che caratterizzava via Soperga.