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Clubbing, addio!

Una riflessione sul ruolo politico e l'evoluzione del clubbing nel tardo capitalismo.

Written by Giulio Pecci il 8 May 2025

Foto di Mila Jonis

Quello del clubbing è uno dei funerali più lunghi della storia. Lo si celebra all’incirca dal 2020, dalle chiusure forzate del COVID che hanno messo in ginocchio tutto il settore culturale. Il mantra è uno: non ci si è mai veramente ripresi da quel momento. I cambi di abitudini delle nuove generazioni e le altre crisi mondiali che si sono susseguite hanno continuato a dare calci a questo corpo apparentemente inerme. Una sorta di interpretazione del famoso meme dei The Simpsons: “stop stop, he’s already dead!”.

Cinque anni dopo è forse il caso di renderci conto che quelle chiusure sono state una spia, non la causa. Il declino del clubbing è iniziato molto prima e si è trattato di un declino culturale e sociale, prima ancora che economico. Un declino di cui il clubbing è stato allo stesso tempo sintomo e medicina, in un rapporto molto complicato con la realtà di cui si faceva espressione — qui sarebbe stato bello scrivere in inglese, visto che medicina e droga si indicano con la stessa parola: drug.

Dunque: il clubbing è morto, viva il clubbing? In primis bisogna stabilire il perimetro della discussione. Se parliamo del clubbing esclusivamente come realtà industriale, le cose vanno bene. Come ogni industria in un sistema capitalistico, il clubbing è passato attraverso alcune fasi. Stringendo: da underground a mainstream. Con tutti i cambiamenti, le contraddizioni, le difficoltà e la perdita di autenticità che comporta questo tipo di transizione. Nonostante se ne celebri il funerale dal 2020 infatti i report ci dicono esattamente il contrario: il mercato della musica elettronica è in costante crescita, con numeri da capogiro che fanno impallidire quasi ogni altro settore musicale.

Questo per dire che quando diciamo che il clubbing è morto, non ci riferiamo alla pratica di stare sotto cassa per ore. Quella continua ad esistere in ogni metropoli e non solo. Non ci riferiamo neanche all’assenza di festival enormi, che anzi continuano a fiorire più o meno in ogni angolo del globo. Entrambe le pratiche però sono diventate sempre più esclusive, costose ed inaccessibili. Quando diciamo che il clubbing è morto ci riferiamo al corollario ideologico che ha ammantato la sua esistenza da sempre: quello comunitario, di rottura, di divertimento e sfogo alla portata di tutti. Insomma non è lui ad essere morto, più probabilmente siamo noi.

D’altronde il sogno utopistico della seconda Summer of Love è svanito del tutto. Intorno al 1988 a Londra si affermava l’uso ricreativo delle droghe sintetiche applicate alle basse frequenze provenienti dai sound system ronzanti della capitale inglese. Una rivoluzione apparente, che coincideva con la fine dei grigissimi anni Tatcheriani e una voglia matta di leggerezza e fuga dalla realtà. Nel 1967 a San Francisco, durante la prima Summer of Love, si era scoperto l’uso degli allucinogeni, legandoli al ronzio delle chitarre elettriche e brani dalla durata elastica quanto le sinapsi del cervello degli ascoltatori. Lì la reazione diretta fu al puritanesimo statunitense e subito dopo all’inizio della straziante guerra del Vietnam.

Musica e droghe, mano nella mano per fornire sollievo e fuga dalla realtà. Mi rendo conto che usare il termine generico, “droghe”, per indicare un insieme complesso ed eterogeneo di sostanze può far storcere il naso. Soprattutto perché mettere insieme oppiacei, stimolanti e allucinogeni è una generalizzazione estrema: i processi chimici che scatenano sono diversi, gli effetti sulla psiche e sul medio-lungo termine anche. È un po’ come parlare con quelle persone che ti dicono “mi piace la musica” e alla domanda “che tipo di musica” rispondono: “tutta”. Li vorresti vedere morire lentamente, schiacciati da un muro di casse che suonano noise giapponese. Quindi insomma, so che dire “droghe” è una generalizzazione, ma qui il punto è un altro.

Come può confermare un qualunque psicologo alle prime armi, fuggire nelle sostanze nei momenti di crisi ha poco o nulla di risolutivo. La generazione del Vietnam, quella degli hippy, si è svegliata piano piano, aprendo gli occhi nel mezzo della Guerra Fredda. Spesso facendo tutto il giro e diventando più conservatrice e autarchica della generazione a cui si era ribellata. I nati negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, quelli che ballavano nudi a Woodstock imbottiti di LSD, sono i primi responsabili dello sfacelo socio-politico-cuturale a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni.

A giudicare da quello che ci circonda (ritorno degli estremismi di destra; autarchia come vecchia nuova moda per le potenze mondiali; un capitalismo agli ultimi stadi che sta sputando le nostre ossa e sangue; una forbice di diseguaglianza sociale che continua ad ampliarsi) non è andata meglio a coloro che si sono svegliati dalla seconda Summer of Love. È quella generazione lì che per lo più ha votato nella direzione in cui ci troviamo oggi. È sempre bene ricordare infatti che, in Europa e negli Stati Uniti, ci si è per lo più arrivati con il voto, una scelta.

Questo grande trip, per rimanere in tema, mi frulla in testa da mesi. È composto da pensieri e temi diversi ma due sono quelli che mi hanno mosso alla scrittura di questo articolo. Il primo è personale. Apro una breve parentesi per contestualizzare meglio: negli ultimi anni, in aggiunta al mio lavoro principale (la scrittura) ho fatto il dj in giro per l’Italia. Ci sono stati periodi in cui senza l’introito economico proveniente dai dj set – belle serate piene di gente o aperitivi strazianti – non sarei neanche lontanamente arrivato a fine mese. Spesso mi sono divertito molto, ma nella maggior parte dei casi ho vissuto con frustrazione situazioni che nulla avevano a che fare con quello che mi interessa veramente: la musica e il senso di comunità che ne ho sempre tratto. Situazioni che mi lasciavano prosciugato, con il vuoto dentro.

Mi sono interrogato per mesi su queste sensazioni, riscontrandole nella maggior parte delle persone che mi circondano, amatori o professionisti del settore musicale. Poi un giorno, rileggendo delle opere di Frantz Fanon, mi sono sentito un po’ come Archimede immerso nella vasca. Avevo completamente dimenticato un passaggio de “I dannati della terra”, capolavoro di Fanon letto anni prima. Un libro che è punto di riferimento assoluto per gli studi post-coloniali, che ha rivoluzionato il modo in cui si studiano i rapporti di razza e classe. Insomma, un libro che ha cambiato la vita a tanti – anche a me. Per questo mi sono sorpreso nel non ricordarla e per questo ha acceso la luce all’improvviso, unendo i puntini tra il mio malessere personale e quello esterno a me, sociale. La riporto quasi integrale:

«[…] Uno studio del mondo coloniale deve necessariamente attendere alla comprensione del fenomeno della danze e possessione. Il rilassamento del colonizzato, è appunto quell’orgia muscolare nel corso della quale la più acuta aggressività, la più immediata violenza vengono incanalate, trasformate, cancellate. Il cerchio della danza è un cerchio permissivo. Protegge e autorizza. A ore fisse, a date fisse, uomini e donne si ritrovano in un dato luogo e, sotto l’occhio grave della tribù, si lanciano in una pantomima di aspetto disordinato ma in realtà molto sistematica in cui, per vie molteplici, dinieghi del capo, curvatura della spina dorsale, rigato all’indietro di tutto il corpo, si decifra a prima vista lo sforzo grandioso di una collettività per esorcizzarsi, affrancarsi, esprimersi. Tutto è permesso…dentro il cerchio. L’altura dove ci siamo arrampicati come per essere più vicini alla luna, la sponda dove ci siamo lasciati scivolare come per manifestare l’equivalenza della danza e dell’abluzione, del lavaggio della purificazione, sono luoghi sacri. Tutto è permesso poiché in realtà, non ci si riunisce se non per lasciare la libido accumulata, l’aggressività ostacolata, prorompere vulcanicamente. Messe a morte simboliche, cavalcate figurative, assassini immaginari molteplici, bisogna che tutto ciò venga fuori. I cattivi umori scolano via, fragorosi come colate di lava.»

Aggiungo un altro pezzo, quello veramente risolutivo:

«[…] Tali sfaldamenti della personalità, tali sdoppiamenti, tali dissoluzioni, adempiano a una funzione economica primordiale per la stabilità del mondo colonizzato. All’andata, gli uomini e le donne erano impazienti, scalpitanti, «coi nervi». Al ritorno è la calma che torna al villaggio, la pace, l’immobilità.»

“I Dannati della Terra” usciva nel 1961, nel pieno delle lotte di decolonizzazione africane, diventandone presto uno dei testi – se non “il testo” – di riferimento. La scrittura di Fanon è precisa come un bisturi e distruttiva come una motosega. Non c’è scampo alla trasparenza e inclemenza delle sue analisi: il viaggio che si intraprende nella psicologia coloniale, i suoi aspetti economici e umani, non ha mai smesso di descrivere la realtà che ci circonda. Gli hippy del 1967, i ravers del 1988, scappavano dalla realtà, trovando la pace del villaggio nella possessione della musica e della droga. Ma soprattutto trovando un senso di collettività, per la maggior parte impossibile da sperimentare altrimenti.

“Human Traffic”, film culto per la seconda ondata di clubbers, descrive bene quest’ultima necessità. La disperazione della settimana lavorativa, la mancanza di futuro e di alternative accettabili, la difficoltà di stabilire connessioni umane dovendo far fronte alle proprie insicurezze, esacerbate da un sistema che non fa altro che masticarti continuamente. Tutto questo è esorcizzato nel rito del weekend, due giorni e mezzo di annichilimento e abisso grazie al clubbing e alle droghe che lo accompagnano. È una versione diacronicamente e diatopicamente diversa di quello che scriveva Fanon, ma il meccanismo alla base è esattamente lo stesso. La scena in cui i personaggi cantano in coro una rivisitazione dell’inno inglese è splendida, illuminante nella sua sintesi emotiva:

«I’m trying to be myself,
Understand everyone,
It’s a mission and a half.

Looking at everyone,
Trying to learn something
but I am getting more confused;
It’s hard being cool.

Our generation,
Alienation,
Have we a soul?

Techno emergency,
Virtual reality,
We’re running out of new ideas?

Who is the Queen?»

Confusione, alienazione, realtà virtuale, assenza di anima, mancanza di idee. Nel 1999 c’era una generazione che già faceva i conti con tutti quei temi di cui parliamo anche oggi, che sono arrivati forse a uno stadio terminale, il livello finale – per ora. Decenni fa ancora resisteva un senso di futuro che riusciva a far indorare la pillola (o forse era un miraggio, proprio grazie all’assunzione di pillole) oggi non c’è più neanche quello. Come ha suggerito a più riprese Mark Fisher, il futuro non riusciamo più ad immaginarlo. Con il velo di Maya definitivamente squarciato, ballare con finta gioia ottusa magari sotto l’effetto di sostanze, spendendo sempre più soldi ma guadagnandone sempre di meno, evoca semplicemente il sempre profetico Boris:

«Serve un qualche cazzo di futuro. […] Parlo della locura. Il peggio conservatorismo, che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte.»

Il peggio conservatorismo che si tinge di simpatia un po’ come i casi Hör e Boiler Room. Ma anche come il fatto che la sostanza più di moda in questo momento sia la ketamina: la droga dissociativa e alienante per eccellenza – “sfaldamenti della personalità, sdoppiamenti, dissoluzioni” fa eco di nuovo Fanon. La stessa sostanza di cui una delle persone più malvagie del pianeta, Elon Musk, ha ammesso candidamente di far uso abitualmente, per curare sintomi depressivi. I clubbers di oggi condividono la propria droga d’elezione con Elon Musk. È il paradosso, il sole nero, la ricerca di un sollievo ormai irraggiungibile, il conservatorismo con le paillettes addosso. Oggi come mai il clubbing non ha nulla di rivoluzionario e si è anzi trasformato definitivamente in quello che scrive Fanon: una dissoluzione personale al servizio del mondo colono, capitalista. Uno dei tanti anestetici necessari a mandare giù una realtà sempre più indigeribile.

Ok, quindi? Demonizziamo il ballare? Certamente no, anzi. Ma guardiamo in faccia la realtà e smettiamo di sorprenderci perché il cubbing gioca allo stesso gioco di qualunque altra industria. Oggi più che mai parliamo di una valvola di sfogo perfettamente integrata nel sistema, che ne usa le stesse armi, che è soggetta alle stesse debolezze e contraddizioni. Altra prova è l’approccio che le nuove generazioni hanno al clubbing. È provato come l’alcol sia quasi scomparso dalle abitudini della famosa Gen Z – chi organizza serate, compreso il sottoscritto, ve lo potrà confermare piangendo sui conti del bar. Per le droghe il discorso è diverso, più complesso, ma anche qui in generale sembra che le due cose non vadano più mano nella mano, anzi. La sensazione è che la figura del “clubber” sia scomparsa. Si va a ballare per stare insieme e fare due salti con gli amici, non c’è un corollario ideologico, una profondità storica o un’identificazione con una (sotto) cultura.

Siamo partiti dal delineare un perimetro. Ecco, oggi quel perimetro è cambiato. Se nel XX secolo le rotture delle Summer Of Love erano effettivamente quello, delle rotture, oggi sono a mala pena uno scherzo. Se si vuole trovare un associazionismo alternativo, propositivo, non è decisamente lì che bisogna guardare. Vengono in mente esperienze come le palestre popolari, per altro nate esattamente con lo scopo caro a Fanon. Come luoghi di preparazione fisica e mentale, di lucidità in tempi bui, foriere di associazionismo e livellamento sociale. Laboratori che nascono spesso da esperienze politiche o che finiscono per diventarlo, basti pensare al Quarticciolo a Roma, Bolognina Boxe a Bologna, la Palestra Popolare Torricelli a Milano. Anche perché essere vivo in questo periodo storico, mi ricorda quei giochi da spiaggia popolari fino a qualche anno fa.

Guardiamo in faccia la realtà e smettiamo di sorprenderci perché il cubbing gioca allo stesso gioco di qualunque altra industria.

Quei giochi che, previo inserimento di moneta, rilasciavano una pallina rimbalzante in un percorso costellato di buchi. Lo scopo era percorrere tutto il labirinto impossibile, facendo cadere la sfera nel buco corretto, quello che te l’avrebbe regalata. Bisognava evitare tutti i buchi “sbagliati”, pilotando la pallina grazie a un volante che spostava il piano inclinato. Non ricordo di aver mai vinto a quel gioco; non ricordo nessuno di mia conoscenza che abbia mai vinto la pallina. Oggi è così: siamo palline su un piano inclinato; siamo allo stesso tempo anche il moccioso eccitato e senza grandi capacità di coordinazione che pilota le palline. Ogni curva spericolata concretizza la paura di cadere nel buco sbagliato. Parafrasando Fanon, se l’attivismo e la resistenza si riducono ad invitare gente al proprio dj set e andare a sfondarsi una notte intera, direi che le probabilità di cadere nel buco sbagliato si moltiplicano vertiginosamente.

Il fatto è che in un buco ci cadiamo sicuramente. Anne Carson ha scritto una bellissima e agrodolce elegia per New York. «Di notte cambia l’atmosfera, c’è qualcosa che non torna. Potresti essere chiunque, una guardia, un bersaglio, potresti essere qualunque cosa». Stiamo scivolando nel buio della notte e non c’è niente di nuovo. Proviamo tristezza, rimpiangiamo ciò che è stato, fa parte dell’esperienza dell’essere umani. Ma soprattutto, scrive la Carson, «quello che ci distingue come essere umani è che non smettiamo mai di finirci, di riscriverci». Piangiamo la fine di qualcosa, accogliamo l’inizio di qualcos’altro.

«Quando sento qualcuno fare il melodramma sulla New York che sparisce penso, amico mio, è così che va, è il patto che abbiamo accettato. Vale per tutti. Dicevano le stesse cose nel 1840. È gioia e fatica, picchi e crolli, morbido e spigoloso, topi e dolcetti, e boom boom boom boom, benvenuto crepuscolo. Cos’è il crepuscolo? Il crepuscolo restituisce il vago; ridistribuisce la tua concentrazione; dissolve la realtà in fantasmi che vagano per la tua testa; ti estrania dal te stesso del presente portandoti in un silenzio strano, nel trambusto, in un’oscurità alla quale puoi appoggiarti.»

Tutte le foto dell’articolo sono tratte da “Meditations On Love” di Mila Jonis.