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Dentro e fuori Escapology: intervista a Kode9

L'intervista alla mente dietro ad Hyperdub per il rientro in classe della nuova stagione di Inner Spaces.

Written by Lorenzo Montefinese il 15 September 2025

È raro imbattersi in figure che lascino il segno nel mondo della musica così come in quello della riflessione teorica; che siano per decenni sempre all’avanguardia musicale, come DJ e come label manager; che siano coinvolti in progetti discografici ma anche editoriali e artistici. Steve Goodman aka Kode9 è senz’altro una di queste figure, più uniche che rare nel panorama contemporaneo.

Scozzese trapiantato in Inghilterra, negli anni ’90 fa parte del leggendario gruppo para-accademico della CCRU (Cybernetic Culture Research Unit) insieme a personaggi di spicco della filosofia e degli studi culturali come il compianto Mark Fisher, Kodwo Eshun, Luciana Parisi e Ray Brassier. È in quel periodo che le sonorità dell’ underground elettronico britannico lo folgorano: jungle e drum’and’bass su tutte, colonne sonore dell’ accelerazionismo allucinato e allucinatorio che la CCRU esprimeva con la parola scritta. A cavallo del nuovo millennio è la volta della UK garage, le cui mutazioni più scarne e oscure nei primi ’00 – da cui prenderà forma la dubstep – attirano così tanto l’interesse di Steve/Kode9 da spingerlo a creare un blog in cui scrivere di questa
musica: Hyperdub.

Nel 2004 il sito diventa una vera e propria label, destinata a lasciare il segno nella musica elettronica (e non solo) degli ultimi vent’anni. Kode9 produce musica, spesso accompagnata dallo spoken word del prematuramente scomparso Spaceape. Con Hyperdub, scopre e lancia numerosi talenti, primo fra tutti lo schivo e sfuggente Burial.
Non smette mai di suonare come DJ, ed è stato sempre in prima linea nello spingere i suoni più caldi del sottosuolo UK, dalla dubstep alla UK funky, dalla grime alla jungle, senza dimenticare il suo ruolo fondamentale nel portare al successo planetario la footwork di Chicago.

All’attività musicale si affianca la sua produzione teorica, sparuta ma essenziale. Nel 2010 pubblica per MIT il saggio Sonic Warfare, vera e propria summa del suo pensiero filosofico e biopolitico sul suono. La sua ricerca nell’ambito dei sound studies e della filosofia del suono continua con i progetti e le pubblicazioni all’interno del collettivo
AUDINT, mentre negli ultimi anni ha iniziato a curare installazioni ed eventi che includono performance, talk, letture e DJ set ai Corsica Studios di Londra. Tre decenni di infaticabile attività e nessuna voglia di fermarsi, come testimoniano i recenti progetti Astro-Darien ed Escapology: veri e propri universi multimediali in cui musica, immagini in movimento e sonic fiction si fondono senza soluzione di continuità.

In occasione della sua performance all’Auditorium San Fedele all’interno della rassegna Inner Spaces, dove presenterà Escapology sotto forma di live audiovisivo, abbiamo fatto una chiacchierata con Kode9 parlando di musica, theory, e altro.

Ciao Steve, è un piacere avere l’opportunità di farti qualche domanda. Per cominciare, a cosa ti sei dedicato ultimamente?
Mi sono concesso una rara vacanza – al momento sto girando l’Islanda in auto. Ha un’atmosfera davvero sublime, lunare, il che è ironico considerati i temi di Escapology.

Presenterai Escapology a Inner Spaces qui a Milano. Ad oggi, mi sembra il tuo progetto più stratificato e sfaccettato, in quanto comprende musica e immagini costruite intorno ad una sonic fiction. Com’è creare un’esperienza audiovisiva così coinvolgente rispetto a produrre singoli più orientati al dancefloor?

Con Escapology compongo musica e creo il sound design, registro video, intervengo sulle animazioni dei miei collaboratori e mixo tutto questo materiale in tempo reale. Continuo a considerarmi un ‘non-musicista’, quindi sto ancora cercando di capire cosa significa per me esibirmi live. Per questo progetto controllo la musica con la mia mano sinistra e i visual con la destra, e il senso di liveness deriva da questa interazione. Forse è paragonabile, in maniera semplificata, a ciò che un pianista fa con le note gravi e quelle acute. È un esperimento interessante per me, ma in realtà sto solo sfiorando la superficie di ciò che è possibile fare.

Direi che con Escapology e Astro-Darien hai raggiunto l’apice di quell’attitudine a costrurire mondi che hai mostrato sin da Memories of the Future. Il tuo universo multimediale comprende musica, visual, installazioni, saggi, performance e collaborazioni con artisti come Lawrence Lek e il collettivo Audint. Ti trovi a tuo agio tanto in console quanto nel pubblicare saggi accademici, curare performance ai Corsica Studios o sviluppare sonic fiction. Cosa tiene insieme tutto questo?

Penso che la mia forma di escapologia personale sia di trovare una linea di fuga in una fiction, un concetto, un processo, una collezione di suoni, una vibe, una location, un’immagine, un odore, ed esplorarla e intensificarla dalla maggior parte di prospettive possibili di modo che inizi a formare una sorta di cristallo transdisciplinare.

Sonic Warfare è stato recentemente tradotto in italiano ed è ancora rilevante e urgente nel contesto della riflessione accademica sulla musica e sul suono. Cosa ne pensi a 15 anni dalla sua prima pubblicazione? Ti sembra che i concetti proposti nel libro reggano ancora o pensi che la situazione attuale richieda nuovi concetti e intuizioni?

Sono ritornato spesso sui temi del libro nell’ultimo paio d’anni, specialmente in relazione alla critica del terrorismo sonoro israeliano, un esempio con cui si apre il testo originale – ossia, l’utilizzo di boati sonori sulla Striscia di Gaza per produrre quella che chiamo “ecologia della paura”. Il libro ha molti limiti, ma c’è una nozione che penso il libro abbia profetizzato pur non essendovi inclusa (perché non esisteva ancora propriamente), ed è il modo in cui il ronzio basso e insistente della guerra coi droni produce una condizione affettiva di ‘dronofobia’. Naturalmente, la dimensione sonora del conflitto non è che una piccola dimensione atmosferica del modo in cui la guerra viene condotta contro un ambiente popolato, e della terribile situazione in Palestina e Ucraina; ma, allo stesso tempo, l’uso recente di armi sonore da parte della polizia serba mi ha spinto a raffinare queste idee.

Hyperdub è attiva come etichetta da più di vent’anni, e da circa trenta come entità coesa a partire da quando era nata come blog. Sono sempre colpito da come tu sia riuscito a rimanere rilevante per tutti questi anni senza seguire mode o svenderti: sei sempre stato aperto a nuove sonorità e nuovi artisti, e allo stesso hai coltivato
rapporti duraturi con membri chiave della comunità Hyperdub. Rifletti mai su tutto ciò che hai realizzato con Hyperdub? Come ci si sente ad essere rimasti sulla cresta dell’onda per tutto questo tempo, come etichetta e come curatore?

Il nostro ventesimo anniversario l’anno scorso sarebbe stata l’occasione adatta per una riflessione di questo tipo, ma penso che fossi troppo preoccupato a sopravvivere: non è mai stato così difficile rimanere a galla come una piccola etichetta discografica. Stiamo ancora cercando di capire come adattarci per navigare nelle attuali trasformazioni economiche dell’industria musicale.

Ricordo un tuo vecchio intervento per Red Bull Music Academy in cui dicevi di tenere il tuo lavoro musicale e quello accademico ben separati. È ancora così?

Penso che i miei lavori recenti sulle sonic fiction e sugli audio saggi propongano un medium e un metodo uniforme per tenere insieme tutti questi aspetti diversi.

Sono sempre stato affascinato dal tuo concetto di “speed tribes”. A partire dalla pandemia, il mondo della musica dance ha visto un perpetuo aumento dei BPM, che sia la moda hard techno o i revival jungle e speed garage. Allo stesso tempo, altri artisti e scene stanno sperimentando con sound più lenti, come ad esempio le mutazioni dembow-dancehall e chuggers sui 100-110 BPM. Che idea ti sei fatto del panorama della club music contemporanea?

Penso sia interessante, perché credo che la tecnologia stia rendendo sempre più irrilevante l’idea di ‘speed tribes’, o almeno che il concetto vada aggiornato.

Non è mai stato così facile per i DJ suonare più generi e diversi BPM, e il pubblico sembra identificarsi tribalmente con una determinata scena, vibe o BPM molto di meno che in passato.

Quindi può essere che il concetto di ‘speed tribe’ si sia frattalizzato: siamo tutti molto più abituati a vivere a differenti velocità, a volte simultaneamente.

Ti esibirai con l’Acusmonium all’Auditorium San Fedele, così come avevi fatto all’INA-GRM di Parigi. Cosa cambia nel tuo modo di approcciarti a questo tipo di eventi rispetto a un DJ set?
Ho usato l’Acusmonium (un assemblaggio di 50 altoparlanti creato da François Bayle) solo all’INA-GRM per la premiere di Astro-Darien, il progetto da cui è emerso Escapology. Allora lo usai come una sorta di impianto audio surround flessibile e immersivo. All’Auditorium San Fedele sarà più simile ad una diffusione stereo convenzionale.

Infine, c’è qualche producer che ti ha particolarmente colpito recentemente e che ti piacerebbe far uscire su Hyperdub in futuro?
Sai che adoro le sorprese.