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Dieci anni di JAZZMI

Milano come palcoscenico di un genere che non smette di evolversi mai

Written by Filippo Cauz il 8 October 2025

foto di Giorgia Motta

Parcheggi abusivi, applausi abusivi. Appalti truccati, trapianti truccati e motorini truccati. Sono trascorsi 30 anni dalla dirompente Terra dei cachi di Elio e le Storie Tese, eppure a rileggerne l’incipit oggi sembra ancora una descrizione accurata della Milano del 2025, forse con solo le e-bike al posto dei motorini, strumento di lavoro essenziale di chi è costretto da una “città che corre” a correre ben più veloce delle proprie possibilità. Non ci voleva molto, a dire il vero, a ipotizzare la direzione distruttiva imboccata dalla città con il passaggio di secolo, e non ci voleva molto a vedere i frutti di questo vorace estrattivismo espulsivo, ma ora che è sotto gli occhi di tutti, ora che i cittadini si sono visti scippati addirittura del loro storico stadio, vale la pena ancora una volta ripensare a ciò che si è continuato a muovere sotto – o di fianco – allo spesso strato di cemento e lamiera che ha strangolato Milano. E se in vetrina luccicano insostenibili torri olimpiche, sommersa dal fragore degli applausi abusivi c’è ancora tanta musica che si agita, scalcia, a suo modo resiste. Porta “fiori, fiori dappertutto”, come si annuncia nella sua nuova edizione JAZZMI, una rassegna arrivata al suo anno dieci, ed è un traguardo clamoroso se si pensa al decennio durissimo attraversato da Milano.

Dieci anni sono una cifra matura per un festival. È l’età in cui lo slancio rivoluzionario giovanile lascia definitivamente il passo all’età adulta, quella fatta di abitudini e di piccole comodità. Con una rara dose di saggezza, JAZZMI non rinnega questo aspetto dell’invecchiamento e non ha paura alcuna di sedersi nelle sue zone di comfort, ma anche in quelle, vuoi per una scintilla, vuoi per un bicchiere di troppo, capita di voler ribaltare tutto e di spalancare le finestre alla più sporca contaminazione. Se ci pensate bene, la storia stessa del jazz non è andata poi troppo diversamente. E il bello è che quando la finestra la spalanchi non sai mai cosa arriverà, magari un alito di vento o magari un energico fragore.

Ci sono tanti nomi a cui siamo abituati a JAZZMI o sulle strade più convenzionali del jazz: andiamoli a sentire perché sanno ormai bene che corde toccare. Ma ci sono anche nomi diversi, sgattaiolati dentro da pertugi e finestre inattese, e come sempre sono soprattutto questi i concerti a cui affidarsi, perché magari deludono ma è assai più facile che scatenino il vero stupore. Torniamo a farci stregare il cuore, come ogni volta, dai Necks, da Shabaka, dai Kokoroko o da Marc Ribot. Facciamoci la nostra doverosa dose di sculettamento con Flying Lotus, Durand Bernarr, Takuya Kuroda o Bilal. Ma soprattutto spalanchiamo le nostre finestre allo stupore con chi ci viene regalato da JAZZMI e poi chissà quando ci ricapita. Leggende come Orchestra Baobab, Abdullah Ibrahim, Huun Huur Tu e Arrested Development; maestri come Anouar Brahem o il trio L’Antidote; nuovi viaggioni come Amaro Freitas (se non il disco più bello dello scorso anno, poco ci manca), Nubya Garcia, Mammal Hands, C’mon Tigre o Yuuf. Quanti problemi irrisolti, diceva sempre quel brano, ma un cuore grande così. Un cuore vecchio dieci anni, ma talmente in forma che chissà quanti ne ha ancora davanti.