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Dove osano gli artisti che non divertono: Spazio O’ e Standards

Eventi e luoghi che hanno cambiato le città: Milano, capitolo 6

Written by Andrea Cazzani il 28 May 2020
Aggiornato il 27 May 2020

Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?

Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.

“Grassante lue” recita una lapide posta in Duomo sotto una croce che, si dice, l’Arcivescovo San Carlo Borromeo portò in processione, scalzo, durante l’epidemia di peste del 1576: “mentre imperversa la pestilenza”. Nome che sarebbe fenomenale per una band doom metal/power noise/post industrial/dark ambient. E, “grassante lue”, l’argomento che ha suscitato maggiore interesse nella mia social bubble durante il lockdown non riguarda le differenze fra gli indici Rt e R0, le ipotetiche date di riapertura delle scuole o del recupero del campionato di calcio, bensì l’indignazione montata dopo le mal ricevute dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha definito gli artisti come “quelli che ci fanno divertire”. Ora, decenni di malgoverno di minus habentes ci hanno forse convinto che parole o grugniti emessi per errore possano assumere significati a piacimento, a seconda delle necessità elettorali; ci si aspettava quindi una smentita o la scusa di “essere stato frainteso”. Invece no, anche se tali parole evocano gli inquietanti fantasmi di Alvaro Vitali e Jerry Calà, Giuseppe Conte non rettifica e ha pienamente ragione. In quanto “divertimento” è etimologicamente legato al latino “divertere”, una cosa che distoglie dalle proprie preoccupazioni. Non c’entra ridere. Personalmente mi “diverto” ascoltando Keiji Haino, leggendo Emil Cioran o guardando Stalker di Tarkovskij (distanziamento sociale? Lo faccio da sempre, grazie), non proprio gli argomenti su cui verte l’ultima puntata di Colorado Cafè. E chi a Milano ha tali interessi (non siamo matti, non siamo antipatici, non mordiamo) ha e ha avuto due indirizzi dove recarsi e attorno ai quali si è coagulata una certa “scena”, curiosa e multidisciplinare: Spazio O’ e Standards.

Spazio O’ 2015

Lo Spazio O’ esiste nel quartiere Isola dal 2006, e ha inanellato una serie di concerti spiccando fin da subito per la qualità delle proposte, senza dubbio insolite per la scena milanese, e per le cene post-concerto con gli artisti presso la pizzeria “La Balena”

Come succede con gli amici più cari e con i posti che più amo, non so con esattezza da quanto tempo conosco lo Spazio O’: contatto quindi la fondatrice Sara Serighelli per rinfrescare la memoria e scopro che esiste nel quartiere Isola dal 2006, e ha inanellato una serie di concerti dei quali ricordo con piacere (mi perdonino i non citati) Tony Conrad, Mario Bertoncini del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Rudolf Eb.er, Rhys Chatham, Oren Ambarchi, Pierre Berthet e Rie Nakajima, Will Guthrie, Lubomyr Melnyk, Aki Onda e Akio Suzuki, Carl Stone, Tim Hecker, Lino Capra Vaccina, Chris Corsano e mille altri (documentati quasi tutti dai puntuali video di www.ursss.com), spiccando fin da subito per la qualità delle proposte, senza dubbio insolite per la scena milanese, e per le cene post-concerto con gli artisti presso la pizzeria “La Balena” (sull’insegna, un logo raffigurante una minacciosa orca assassina – mai capito perchè – e non che facesse una pizza particolarmente gustosa, ma c’era sempre posto anche se ci si presentava in venti senza prenotare). Da un paio d’anni i gestori dello spazio O’ (oltre a Sara, Fabio Carboni titolare della distribuzione discografica Soundohm, che qui ha il suo quartier generale) hanno rinunciato all’organizzazione di concerti mantenendo tra gli eventi più significativi solo Sprint, mostra della microeditoria a cadenza annuale, e qualche esposizione legata alla design week. Anche “La Balena” ha tristemente chiuso, segnando la fine di un’epoca. Mi manca.

Standards, 2018

Il pubblico non viene visto solo come clientela che permette la sopravvivenza, ma come humus vivo che interviene e in un certo senso plasma e ispira le attività di Standards

Ma non si è chiuso il sipario per i buongustai di musica di ricerca. A poca distanza, alla Bovisa, alcuni appassionati personaggi che già gravitavano attorno allo Spazio O’ (in particolare i musicisti Alberto Boccardi e Nicola Ratti) hanno aperto (dal 2015) Standards, una sorta di Spazio O’ di dimensioni ridotte che applica una cura ancora maggiore alla qualità del suono, proponendo non solo concerti ma un’attenzione all’esperienza acustica, anche tramite residenze di artisti legati in qualche modo al suono, eventi organizzati nel quartiere accomunati dal concetto dell’ascolto e a pratiche come i field recordings. Non solo “uno spazio per la musica dal vivo”, quindi (che c’è ed è di prim’ordine: Valerio Tricoli, Andrew Pekler, Lucrecia Dalt, Andrea Belfi, Tarawangsawelas i primi che mi sovvengono), ma un luogo dove condividere esperienze. Ad esempio: durante il lockdown, Standards ha pubblicato una serie di “esercizi di ascolto”, i Quarantine Workout, pratiche da eseguire nella segregazione casalinga che ha segnato gli ultimi mesi e su cui i curatori hanno chiesto pareri e osservazioni. Il pubblico quindi non viene visto solo come clientela che permette la sopravvivenza, ma come humus vivo che interviene e in un certo senso plasma e ispira le attività dello spazio. Che si spera possa riaprire con rinnovato entusiasmo e vigore.

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