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… E invece cazzi

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Written by Alessandro Sardone il 18 April 2020
Aggiornato il 5 May 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Jurij Gagarin ha un posto speciale nella mia cucina, così come lo hanno Yukio Mishima e Hugo Chavez.

Il suo ritratto in bianco e nero, ad altissimo contrasto, occupa una posizione defilata per non dire angusta tra la credenza (il vault dei carboidrati giusto sopra il tozzo C1P8, il frigorifero a basso consumo ed elevato rendimento) e la lunga e stretta finestra che sale dal pavimento a scacchi fino al tetto lievemente crepato. Tagliando verticalmente l’angolo cieco della pièce, fornisce una vista del cortile interno a metà tra Poggioreale e gli interni di Solaris (l’originale di Tarkovsky, non certo quella cacata di remake a stelle e strisce con George Clooney).
Tra quelle che dal basso del secondo piano sembrano sconfinate pareti bianche, s’indovinano finestre non accessibili alla vista. Un’angolazione sfortunata, ma certo rassicurante quanto a privacy.
Il sorriso sornione del cosmonauta sovietico è rivolto appunto verso l’esterno, incurante della solidità di quelle sbarre di ferro che nemmeno Jean Valjean avrebbe saputo piegare. Quelle pupille scrutano l’infinito con l’ottimismo di chi ha nel progresso umano la sua stella polare e ha ancora la voglia di esplorare spazi sconfinati e pianeti sconosciuti. Non lo turba lo sguardo severo del patriota giapponese, impettito, le mani ai fianchi nell’atto di rivolgersi alle nuove generazioni in quella che sarà la sua ultima, sconclusionata arringa. Il Prometeo del socialismo bolivariano del XXI secolo lo saluta invece solennemente, il palmo della mano destra alzato alla tempia come si confà agli uomini in divisa.

Spazi sconfinati, pianeti sconosciuti… e invece cazzi.

Sui social imperversa non l’Uomo Nuovo ma ancora quello vecchio, vecchissimo, che avanza sulle nocche e fissa il dito del saggio che gl’indica la luna, come il puntino rosso del laser che pensavi distraesse soltanto i felini annoiati tra un letargo e l’altro sul divano espropriato irremovibilmente al padronato umano. È l’uomo che aspetta di essere salvato dal disastro, aspetta l’intervento di un Bruce Willis poche ore prima dell’impatto dell’asteroide. Ma non ci sarà questa volta; non c’è mai stato se non nella mitologia hollywoodiana sulla quale si è modellata per più di sessant’anni l’idea stessa di libertà da queste parti, fino alla mazzata finale nel ’91: un saluto all’URSS e un benvenuto alla Guerra del Golfo.
Che vorrà mai dire “libertà”, poi? Libertà da cosa? Libertà di fare che? Credo fermamente che la più alta definizione di libertà sia stata coniata da un pubblicitario, qualche anno fa, per vendere una nota marca di assorbenti con le ali. Le ali, appunto, della libertà.

Nancy Gerbillo, di là, sta facendo un altro caffè. L’aroma mi riporta alla realtà.

E insomma, attendiamo pazienti la fine dell’isolamento volontario rinchiusi nella torre d’avorio del nostro panopticon, la più ottimistica delle visioni future, il desiderio più grande, coincidente con il fantasma di una birra ghiacciata vista mare o una grigliata in campagna, di quelle che ci siamo persi a Pasquetta, mentre schiere di illuminati detentori della verità incendiano i totem innalzati all’ultima versione dello standard della telefonia mobile, e i tentativi di occupazione Nato della Siria sovrana continuano indisturbati, con un dollaro nella mano, una versione del Corano riveduta e corretta nell’altra e un fucile piantato su per il culo.
E se invece tornassimo a guardare il cielo dalla finestra, là fuori, oltre gli strati dell’atmosfera e i facili individualismi, oltre lo scoglio sul quale ci siamo arenati, soli col nostro Wilson e uno smartphone armato di Facebook, Instagram, Tinder e poco altro?
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Paris 18, 18 aprile