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Formicolare

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Written by Piergiorgio Caserini il 15 March 2020
Aggiornato il 22 April 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Le bolle hanno intrappolato un segmento della linea di rifornimento. I tondi riflessi
cangianti si muovono con velocità luminali sulle piastrelle bianche, tremolano per
qualche secondo e poi pop, esplodono e si accasciano in macchie trasparenti.

Ma nonostante siano intrappolate lì dentro, ben visibili, la logistica delle briciole non
si ferma. Altre linee di trasporto continuano imperterrite a sparire nell’intercapedine
del forno, secondo un tragitto spigoloso che seguendo le fughe s’insinua nelle fessure
intorno al lavandino. Lì dentro, una pila di piatti ancora da lavare reca le macchie
giallo-viscide dello spezzatino di ieri sera. È una torre bassa e lercia che sembra
incrostarsi nei riflessi dell’alluminio, spalmati nella luce chiara del mattino che
gonfia ogni dettaglio, graffio e macchia. A fissare troppo la luce, lo sguardo si
smarrisce nel liscio piano di cottura ripartito dalle fughe scure, facendo di quelle
millimetriche conchette delle profonde trincee, strade in cui alcune file sgambettano
ancora ordinatamente tra il pulviscolo del caffè e vari resti di verdure tritate.

Formiche, decine di formiche.

Ecco che un’altra timida colonna si appresta a uscire dopo lo scempio di bolle.
Sgrassarle era terribile, ma sembrava l’unica azione efficace. Il progetto Caffè era
fallito subito. Non è vero che le tracce di feromone si cancellano, il cervello-
formicaio persiste, è più forte, le ritraccia in un istante.

Una, due, tre, quattro. L’avanguardia zampetta priva di cautela ed esce dalle
insenature del lavandino. Il bianco le rivela immediatamente, e nonostante lo
sterminio in atto, che alcuni chiamano disinfestazione e altri non chiamano per
niente, perseverano. Ma non sono stupide, no. Tutt’altro. D’altronde è una specie che
conta centoquarantacinque milioni di anni di storia. Come possono esserlo? A vederla
sulla prospettiva di un tempo profondo, infinitamente lungo, sono pressoché
indistruttibili. Niente può nuocerle. Per questo doveva essere chiaro fin dall’inizio
che anche il Progetto Polvere avrebbe fallito. Avevano cosparso le intercapedini e gli
spigoli di veleno bianco, ma niente. Figuriamoci il caffè.

Gloria dorme ancora, ma tra poco si sarebbe svegliata mugugnando per il sole in
faccia. Si alzava rigorosamente tardi da una decina di giorni, segnale che il lavoro da
casa e la quarantena cominciavano a confondere i tempi. I minuti andavano con le
ore, i giorni con altri giorni.

Lunedì, martedì, giovedì, mercoledì, sabato, venerdì e domenica.

Lunedì e domenica tenevano il conto giusto per l’abitudine al lavoro. La differenza
degli altri si è assottigliata tanto da non valere più nulla. Il crollo della
calendarizzazione è stato il primo sintomo, poi sono arrivate le formiche.

Purché fosse rimasto il senso delle cose di tutti i giorni, la stessa confortevole
assennatezza a ripetere le azioni, il paesaggio formicolante della cucina lo lascia
puntualmente allibito ogni mattina. Non demordono, si rifiutano di andarsene, di
uscire, di abitare l’aperto che a lui e agli altri 1,7 miliardi è precluso da settimane.
Forse fuori sono finite le briciole, forse qua sono più semplici da recuperare.

La cosa certa è che il tempo passato in casa è direttamente proporzionale alle
formiche. Colazioni, pranzi, spuntini, cene, l’ambiente ideale per la logistica delle
briciole. L’ennesimo indizio che non era pronto a passare tutto quel tempo in quei
sessanta metri quadrati, e probabilmente non lo era nessuno.

Certo, si scoprono dettagli, anfratti, si osserva meglio lo spazio e i suoi oggetti
quando quello spazio è tutto quello che c’è. Così che il momento in cui ti rendi conto
che tutto quello che possiedi è superfluo arriva in fretta. Cosa serve a sopravvivere?

Libri? Li lancia.

Li sbatte ripetutamente contro le formiche. Il tavolo, le piante, il computer, poi, roba
inerte, da compagnia e basta.

Ma quelle, da qualche parte dentro l’intercapedine, hanno di sicuro una scorta
secolare, millenaria. Mentre loro in casa non hanno nessuna ‘stiva’, nessun ‘bunker’.
E sono pure in affitto, pensava.

L’ultima esigua fila di formiche scompare nella fessura dietro il forno. Decide di
rimanere così, con lo sguardo posato sull’intercapedine e lo sgrassatore in mano. La
fissa solo per qualche secondo, e la linea pare subito aprirsi, scavarsi in profondità
noncurante delle tubazioni, della calce e della polvere, lasciando cascare l’occhio in
picchiata verso un reame cavernoso e scuro, nascosto dietro al mobilio, dentro i muri,
dentro i tubi. D’un tratto l’intero appartamento sembra sospendersi, attorniato da
cunicoli capillarizzati e interminabili, un immenso formicaio abitato da miliardi di
anni e dedito alla sopravvivenza, al nascondimento e all’accumulo. Intere ere
geologiche passate ad affinare la preparedness formicolante. Ecco cosa aveva
intravisto.

La grande enciclopedia sotterranea del materiale edibile, percorsa da una miriade di zampette e fauci artigliate.

Un piccolo attacco di panico si riconosce subito dalle palpitazioni, dall’offuscamento
della vista. Poi il respiro comincia ad appesantirsi, e si sente l’affanno finché l’aria
manca. Non si pensa altro che a quello. Si pensa che manca l’aria, come nei cunicoli.

Le bolle cangianti sul piano cottura si erano dissipate. Rincarò la dose. Sgrassò tutte
le formiche in fila e annegò le fughe delle piastrelle, curandosi bene di non tralasciare
le intercapedini cave dietro al forno e intorno al lavandino.

Umpfumpf, spruzzava lo sgrassatore.

Umpfumpf si affannava lui.

La pioggia acida si abbatte come una piaga, come tutte le mattine. Non avrebbe
potuto sgrassare ancora per molto, la bottiglia è agli sgoccioli, e per questo decide di
fermarsi e osservare la consueta scena di terrore. Gli addomi convulsi, ripiegati su
loro stessi, le zampe frenetiche trattenute dalla tensione superficiale dello sgrassatore,
dalle sue bollicine cangianti, il tempo giusto per accartocciare tutto l’addome, finché
le zampe si ritraggono, sciolte, e ciò che rimane è una palletta, un grano poco più
grande del macinato di caffè.

Ma ormai l’accerchiamento è compiuto. Non avrebbe dovuto immaginare le
profondità delle intercapedini, le dimensioni dell’accumulo. Ora tutto lo spazio
sembrava un cazzo di involucro, una membrana di terra e cemento, un sipario per
nascondere le cataste di cibo, che per loro è informazione pura, sociale, di classe. La
formica che mangia, sgagna e mordicchia lascia tracce d’odore sugli alimenti, sulle
briciole, e le tracce passano di bocca in fauce come se fosse bava, centinaia e
centinaia di volte. Di certo, l’enciclopedia edibile conteneva anche informazioni
estratte dalla sua bava, dai suoi umori viscidi, dal suo odore lasciato sul pane, e si
tratta di informazioni strategiche, che avrebbero usato per superare ancora una volta
la piaga dello sgrassatore, ancora una mattina, ancora un giorno.

Pensò come stranamente l’enciclopedia di Diderot e d’Alambert, il primo grande
raccoglitore dei saperi, l’arca somma, si accavallasse ai due grandi terremoti che
fecero crollare la ragione Illuminista. Alla prima edizione del 1751 seguì il terremoto
di Lisbona del 1755, quello che sconvolse Pascal, e alla seconda del 1777 successe il
terremoto calabro-messinese nel 1783. Era un caso, sicuramente un caso, che la terra
tremò distruggendo coste, città e paesaggi, rimodellandoli a suo piacimento; un caso
che quando si formulò la certezza di “aver tutto sotto controllo”, il mondo si dimostrò
in disaccordo; un caso che accadde proprio mentre i saperi trovavano una culla, una
scialuppa per essere conservati e tramandati.

Un caso che le formiche fossero uscite tutte durante la quarantena.

Stipare l’informazione è un riflesso di sopravvivenza, suggeriscono le formiche, la
cultura è post-traumatica, continuano, il pensiero anche, si chiedono, e le due cose
camminano insieme. Disastro e informazione si moltiplicano a vicenda, sono l’uno
necessità dell’altra, a quale appartiene lui in questo momento, qual è la prospettiva di
scala che deve usare?

Eccole spuntare ancora dall’intercapedine infinita del lavello, baciate dal sole.

Umpfumpf.

Questa volta la spugna le scroscia assieme alle pozze di sgrassatore. Il candore del
piano cottura lascia un sollievo abbacinante. La finestra della cucina è una superficie
di luce calda, e lui sente le carezze del cielo schermato scorrergli addosso, e sente di
dover volgere la testa al di fuori di quei sessanta metri quadrati d’isolamento. Ma
l’esterno è già un arto monco della sua vita sociale, e formicola come formicolano le
braccia schiacciate nella notte. È una sensazione non localizzabile, sottocutanea e
persistente.

Gratta, gratta, umpfumpf.

È passata un’ora, e quando Gloria lo chiama dalla camera la sua voce percorre tutte le
intercapedini, le fughe tirate a lucido, e scivola sulle piastrelle come i pattini sul
ghiaccio o la luce sulla sua pelle, che quasi scotta. Non si è mosso dalla finestra
nemmeno per pisciare, ma la sua voce lo fa rinsavire. Guarda il piano cottura, e
nessuna formica percorre le fughe, nessuna palletta nera scandisce il bianco delle
piastrelle. Bene. Smonta la moka, mette l’acqua e prende il barattolo del caffè, questa
volta per berlo, non per spargerlo. Ma il caffè è finito. Si comincia, pensa. Si veste,
indossa scarpe, guanti e mascherina e apre la porta.

«Vado al supermercato a prendere il caffè», dice. Le sue mattine cominciavano così,
uno volta sì e una no. Era la sua logistica delle briciole, e in verità sotto controllo non
c’era davvero un cazzo.

7.03-15.04, ogni mattina, Milano