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La nippofilia sinologica

Un compendio su come saper distinguere l’Asia dai cinesi partendo dal Karaoke

quartiere Chinatown

Written by Marco De Lucia il 27 September 2021

Foto di Agnese Bedini (DSL Studio) & Josè Limbert

Una passeggiata in Sarpi alla mattina è come una bella doccia fredda: il caos risveglia dal torpore e il movimento fa circolare il sangue cullandolo nella speranza di un nuovo giorno pieno di belle cose. Una passeggiata in Sarpi la sera è un’esperienza futuristica: il caos è sempre presente, ma le luminarie artificiali s’appendono agli occhi ipnoticamente; i fasci di neon risvegliano l’animo della festa più che il sangue; e lo stesso sangue, del resto, in poco tempo è destinato probabilmente a riempirsi di minuscole particelle di etanolo, finendo con l’ospitare nel fegato il rinomato party illegale che ogni sera, nonostante tutto, t’accoglie. Ma in questo sentiero di luci ed ombre, spiccano per la loro estetica – plasmata per ingelosire la migliore pellicola di Nicolas Winding Refn – i Karaoke box (conosciuti, in modo più figo in oriente, come KTV). Le karaoke box, luoghi chiusi, costituiti da diverse camere atte ad ospitare cantanti improvvisati, munite di tutto il materiale necessario per il karaoke, sono camera di perdizione, contaminate dallo sballo e dalla gioia sotto forma di bel canto (o quanto meno del tentativo che sia bello). 

Foto di Josè Limbert
Foto di Josè Limbert

Come forma di performance il karaoke è decisamente conosciuto, e se ne godiamo in un quartiere sinologico come Sarpi è dovuto al fatto che negli anni Ottanta i giapponesi, influenzando il resto dell’asia, l’hanno voluto come uno dei principali mezzi di intrattenimento. Non è difficile immaginarsi in una KTV qui, come in terra nipponica, il divo cosplayer che intona – allegando le mosse di ballo più opportune – la sua sigla d’anime preferita e anzi, è norma negli anime moderni leggere gli hirigana nel contesto quasi imprescindibile delle animazioni di testa di questo medium (un po’ come quando, per un periodo, c’erano state allegate le lyrics ai videoclip su Spotify). Nelle Karaoke box è possibile organizzare feste che ricorrono per i motivi più disparati, la fauna è disomogenea e tuttavia non è fuori norma un dress code fascinoso e bizzarro allo stesso tempo; che sia da cosplayer o influenzato dallo stile delle lolita fashion: ricordo di un’estetica vittoriana reduce da un frontale col kitsch e il kawaii, arricchito da gonne gonfie e sbrilluccicanti, così gonfie e sbrilluccicanti da parere delle statue di Koons in movimento. 

Quando le lingue più variegate vengono strillate nelle karaoke box possiamo superare ogni limite e ogni confine, ideologico e terreno.

Tutto ci sembra permesso, e l’unico accorgimento è che questa karaokefilia non sfoci oltre la performance consentita dalla legge. Al karaoke, come tutte le più grande community, non poteva infatti mancare il suo primo ban, recentemente conferitogli dalla madrepatria dell’hockey: il Canada (che ci ricorda sempre Orietta Berti e il suo modo francofono di pronunciarlo – le /ka.na.da/). Sì. Il Canada ha impedito, ostruito e vietato le riunioni canore. Insomma, i luoghi chiusi, poco ventilati e insomma poco adatti al periodo e quasi descrivibili come una piastra vetri di colture per campioni virologici. Ma in Sarpi, terra sinofila, ci chiediamo, è forse consigliato attenersi alle regole del governo di “casa”? Infatti è recentemente accaduto che il ministro della cultura e del turismo cinese abbiamo annunciato una lista di canzoni ch’è proibitivo far risuonare nelle karoke box; canzoni, in breve, che non promuovano valori socialisti e che possano intaccare la cultura e l’ideologia nazionali. Al bando praticamente mezzo mondo hip hop (come l’interessante, quanto meno dal titolo, “I love the taiwanese”) e buona parte della cultura musicale giovanile. Ma come un terreno vergine, dove ricostituire le basi e fondare uno stato di natura dell’arte performativa, ci apre le sue porte via Paolo Sarpi, dove vengono cantate le lingue più variegate e ciò che risuona nelle karaoke box ci fa superare ogni confine, ideologico e terreno. E se il motore delle serate in sarpi ai KTV non è l’alcol, per rinfrescarsi tra una performance e l’altra, ci si accompagna con un bubble tea, prestatoci questa volta dall’inventiva taiwanese e anche questo esportato con facilità nell’oriente e da noi grazie al quartiere di Milano.

Foto di Agnese Bedini (DSL Studio) & Josè Limbert
Foto di Agnese Bedini (DSL Studio) & Josè Limbert

Insomma, tutto questo dovrebbe anche farci pensare. Tipo: potremmo essere accusati – non a torto – da Edward Said di essere inconsci fautori di una forma di orientalismo. Capita spesso, in effetti, che molti da qui vedano tutta l’Asia come un territorio omogeneo. Altri, ancora peggio, si arroghiamo il privilegio di credere di averla plasmata secondo la nostra mitologia occidentale. Ma poi, l’unica costante del West che si può appioppare all’East sono soltanto gli immortali stereotipi sovraprodotti negli ultimi anni. E di certo orientalista è quella tendenza classificatoria e omologante (in linea con l’ideologia razzista nata e gonfiatasi in epoca coloniale) che ci porta a suddividere la specie umana in “razze” e categorie ben distinte, e come se non bastasse inscritte in concetti universali, stilizzati e ovviamente stereotipati. 

Dresscode fascinosi e bizzarri, cosplayer o lolita fashion, un frontale tra kitsch e kawaii.

Ed è un attimo che entrando in un ristorante cinese ci si aspetti di trovare il sushi, nello stesso modo per cui un ragazzo cinese potrebbe entrare in un ristorante romano aspettandosi di poter ordinare una bella moussaka che tanto le melanzane e la besciamella ci sono anche da noi. Non funziona esattamente così. Tuttavia, Chinatown è sempre più un luogo multietnico, su cui i nostri giudizi vacillano, non capendo cosa sia veramente cinese, cosa non lo sia, se abbia senso pensarlo come quartiere cinese o come quartiere misto. 

Tutta questa riflessione avviene nella nebbia dei locali del folclore, nella cui confusione ci muoviamo a tentoni, inciampando nelle superficialità e tentando, raffazzonati, di costruire una qualche non meglio precisata categoria sistematica di interpretazione. Vacilliamo in preda ai giudizi rapidi, e come espressione di quello che vediamo del quartiere – e che poi è un riflesso su uno specchio datato – ce ne usciamo con frasi tipo “i cinesi sono tutti uguali”. Certo. Lo sono anche le lasagne se non stiamo lì a indagare sulle differenze che possono avere in termini di sugo (come si è asciugato? È manzo? Vitello? Maiale?) e come la panatura misto grana si è seccata in superficie. Ma tutto il mondo è paese e tutto il mondo cade sotto il tranello di questo problema percettivo che porta il nome di other-race effect e che ci spinge a confondere i visi quando tra di loro presentano diverse similitudini. Lo stereotipo è condiviso come è condiviso l’essere umano, e in un quartiere che pare essere tendenzialmente visto dai nippofili come la mecca del costume e che per questo motivi si riempie di esercizi che possono essere di natura giapponese, la realtà rimane espressa dalla comunità che ci abita da ormai quasi un secolo e che forse, in un futuro non lontano, sarà probabilmente popolata da cinesi chiamati “italiani”.