Cosa succede quando guardiamo le cose da vicino? Quali sono gli effetti sull’interpretazione del reale e quanto le nostre soggettività influenzano l’osservazione stessa? Contrapponendosi all’oggettività presunta delle immagini, il festival internazionale di fotografia PhMuseum Days 2024 accoglie quest’anno una serie di storie che fanno dello sguardo parziale sul mondo la propria cifra distintiva. Closer, sottotitolo e tema della quarta edizione, ci invita a fermarci e osservare con attenzione abbandonando le pretesa di afferrare l’insieme per accedere invece al dettaglio di racconti personali che affrontano comunque temi universali come le questioni di genere, le relazioni umane, il potere o il rapporto con l’ambiente.
Dal 12 al 15 settembre si torna, quindi, nello Spazio Bianco di DumBO tra mostre, talk, visite guidate, workshop, presentazioni di libri e proiezioni, sconfinando talvolta in altri luoghi della città.
Anche quest’anno, infatti, il Cortile della Biblioteca dell’Archiginnasio ospiterà la collettiva con i lavori selezionati attraverso l’open call attorno al tema Closer, mentre sulle bacheche di via dell’Abbadia curate dal CHEAP arriveranno le fotografie di Mahalia Taje Giotto, artista trans e non-binary, che con il suo progetto Existential Boner documenta la sua transizione di genere.
Eccovi qui sotto il dettaglio delle mostre e alcune immagini. Il programma completo e i biglietti li trovate invece su www.phmuseumdays.it
Beatriz de Souza Lima – Trajectories
Beatriz de Souza Lima (Brasile, 1998) affronta i temi della cura e dell’interdipendenza partendo dall’osservazione dell’ospedale che visita spesso e dell’orto botanico che incontra sul tragitto. Concentrandosi sulle similitudini dei due spazi, le immagini di Trajectories li avvicinano tanto da renderli inestricabili. La loro prossimità fisica si fa concettuale. Entrambi, infatti, sono luoghi in cui l’estraneità convive con una tensione positiva: il modo in cui gli esseri viventi, siano essi piante o esseri umani, si sforzano di cercare stabilità e creare legami in situazioni di vulnerabilità.
Kush Kukreja – Only in Good Taste
Only in Good Taste di Kush Kukreja (India, 1994) ha inizio da un tragitto abituale: nella città di Delhi, Kukreja attraversa quotidianamente il fiume Yamuna, imparando a leggerlo in maniera molto più complessa e stratificata rispetto a quanto permesso dalle fotografie della tradizione, che hanno lo hanno scolpito come “il fiume inquinato”. Così, Only In Good Taste decostruisce un simbolo dell’Antropocene e offre possibili nuovi percorsi per la sua rappresentazione. A metà tra l’indagine di un perito, di un chimico e l’opera di un performer, il lavoro di Kukreja ha al centro la collaborazione tra il fotografo e il fiume: lo Yamuna non è oggetto passivo di una ricerca, ma parte attiva di una narrazione.
Matylda Niżegorodcew – Octopus’s Diary
Octopus’s Diary di Matylda Niżegorodcew (Polonia, 2001) utilizza la performance per osservare da vicino le storie degli altri. L’artista polacca vive per 48 ore la vita di altre persone, documentando l’intero processo insieme ai soggetti coinvolti nel tentativo di rispondere a una domanda: cosa si prova ad essere qualcun altro? Un esperimento che acquista ulteriore significato vista la giovane età di Niżegorodcew e il nostro rapporto con i social media che ci mettono costantemente davanti alla presunta felicità degli altri.
David De Beyter – The Skeptics
The Skeptics di David De Beyter (Francia,1985) esprime il tentativo di guardare da vicino qualcosa di estremamente distante. A partire da una serie di avvistamenti UFO documentati nelle Isole Canarie, De Beyter si addentra negli studi di una comunità di ufologi amatori. All’incrocio tra pseudo-scienza e pensiero magico, The Skeptics analizza la cultura che circonda gli UFO come nient’altro che una storia di immagini resa possibile dalla loro ambiguità. De Beyter offre così una riflessione sulla post-verità, sull’obsolescenza delle credenze e sulla fine delle utopie.
Camilla De Maffei – Grande Padre
Camilla De Maffei (Italia, 1981) che – in collaborazione con il giornalista Christian Elia – esplora le conseguenze dell’ascesa e del crollo del regime comunista di Hoxha in Albania mettendo in luce le cicatrici lasciate nella società, esaminando architetture, gesti e simboli del passato e del presente. Ispirate alle fotografie scattate dai servizi segreti e ai video di processi ai cittadini, le immagini di De Maffei mettono in scena i tic ossessivi della sorveglianza e del potere.
Taysir Batniji – Disruptions
Disruptions di Taysir Batniji (Palestina, 1966) ci porta, invece, nell’esperienza della guerra con una serie di screenshot realizzati dall’artista tra il 2015 e il 2017 durante le videochiamate con la sua famiglia a Gaza: le immagini, rese quasi illeggibili dai pixel quando salta la comunicazione, rendono visibile come le relazioni e la quotidianità siano compromesse dal conflitto, dal controllo e dalla sorveglianza, mostrando l’infiltrazione della violenza coloniale in ciò che rimane dell’intimità.
Thomas Mailaender – Decalcomania
Thomas Mailaender (Francia, 1979) apre una riflessione su come la storia della nostra modernità sia anche la storia di come scattiamo fotografie. La sua Decalcomania celebra la storia delle immagini, ma non ne mostra nemmeno una: il focus non è sul prodotto finale – la foto – ma sui meccanismi, i materiali e supporti che lo rendono possibile. Collezionando stickers che celebrano i brand fotografici degli anni 70 e 80, Mailaender scrive un inno alla tecnica e ai suoi feticismi, all’amatorialità e alla fotomania, al pop e al vernacolare.
Tara Laure Claire Sood – The Studio
The Studio di Tara Laure Claire Sood (India/Francia, 1995) è un omaggio agli studi fotografici presenti nei villaggi dell’India prima che le fotocamere diventassero di uso comune. Nell’intimità dello studio, fantasie ed aspirazioni diventavano avvicinabili: tramite oggetti di scena, sfondi e costumi, le immagini non solo registravano un ricordo, ma espandevano gli orizzonti del possibile. Per Sood, The Studio è, inoltre, una riflessione sulle rappresentazioni culturali e un tentativo di raccontare fedelmente il suo paese d’origine, lontano dagli spettacolarizzanti stereotipi occidentali.
Pacifico Silano – Close-up
La ricerca di Pacifico Silano (USA, 1986) è incentrata sulla celebrazione di un’altra tradizione visiva. L’artista americano fotografa frammenti di riviste erotiche gay degli anni ‘70-’80, isolando e ingrandendo dettagli. Nelle fotografie di Close-up, tenerezza, erotismo e romanticismo hanno l’ombra della mancanza, della malinconia e della perdita connesse all’epidemia di HIV/AIDS. Stampate su tessuto, fluttuanti e fuori scala, le immagini diventano oggetti materici, che rivelano la struttura della fotografia: reticoli di punti, ma anche di significati malleabili che cambiano in base al contesto. Per la prima volta in questa mostra, Silano espone anche una serie di scatti realizzati sul pavimento del suo studio, una finestra sul processo e sulla relazione con l’archivio di magazine.
Utu-Tuuli Jussila – Härmä / Hoar
Utu-Tuuli Jussila (Finlandia, 1985) guarda invece a una tecnica fotografica pervasiva nel paesaggio contemporaneo – la fotocamera di sorveglianza – e ne ribalta il senso. Härmä / Hoar raccoglie una serie di immagini dalla telecamera di sicurezza installata nel giardino della nonna di 94 anni che, malata di Alzheimer, viveva da sola in campagna. Anziché registrare la presenza di potenziali estranei, la macchina fotografa la quotidianità della nonna e la sua assenza di eventi. Queste fotografie nate per non essere mai guardate si trasformano per Jussila in un archivio in cui scavare, un ultimo terreno di contatto, intimo quanto inaspettato.
Mahalia Taje Giotto – Existential Boner (Via dell’Abbadia)
Iniziato in concomitanza con la terapia ormonale di Taje, artista trans e non-binary, Existential Boner di Mahalia Taje Giotto (Svizzera, 1992) è la documentazione instancabile della sua transizione. Avvicinando la tradizione di autoritratto del secolo scorso al tempo delle webcam e delle fotocamere interne, le immagini raccontano di un rapporto ossessivo con il corpo e con la sua rappresentazione, ma anche di come la fotografia possa farsi strumento di ri-appropriazione identitaria.
Rita Puig-Serra – Anatomy of an Oyster (PhMuseum Lab)
Il programma del festival è stato anticipato dalla mostra Anatomy of an Oyster, personale di Rita Puig-Serra (Spagna, 1985) inaugurata a giugno scorso (e visitabile fino al 15 settembre) al PhMuseum Lab di Bologna. Il lavoro della fotografa catalana è un viaggio nel passato che traccia una storia di coraggio e rielaborazione personale degli abusi subiti in famiglia da bambina. Un esercizio di catarsi che, tramite la metafora dell’ostrica e della sua rimozione, permette di addentrarsi in un’esperienza dolorosa, raccontata a una madre ormai assente.