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Lo smilodonte che siamo

Il museo di storia naturale che è sempre stato al posto giusto: prima allo zoo, poi ai giardini e infine nella palestra ombrosa

quartiere Porta-Venezia

Written by Piergiorgio Caserini il 11 June 2021
Aggiornato il 23 June 2021

Dentro al Museo di Storia Naturale di Porta Venezia, dentro ai Giardini Indro Montanelli, c’è una tigre dai denti a sciabola che azzanna un povero cristo di qualche decina di migliaia di anni fa. 

Non è vero, ma ci sono svariati fossili dei nostri antenati più prossimi provenienti da ogni parte del mondo, carrellate di reperti e ossa tra cui spicca un calco della bisnonna Lucy, che prese il celebre nome dai Beatles, e del Nonno detto Turkana Boy. Rispettivamente 3 milioni e 1,6. La Great Granma Lucy si dice morta per sfinimento Granpa Turkana per un’infezione ai denti – quando i dentisti ancora non c’erano. Forse Nonno-Turkana Boy avrebbe potuto incontrare uno smilodonte, ma probabilmente la famigerata tigre raschiava i denti sugli alberi americani, pronta ad affrontare l’estinzione nella competizione con questi scriccioli furbetti e fastidiosi che sono gli umani. 

Bene, provate ora a immaginare un museo di Storia Naturale del XXXI secolo. Lo sappiamo che è raro, di questi tempi, andare così in là con le aspettative di vita della specie. Sappiamo fin troppo bene come una certa estetica della rovina, della wasteland, dell’estinzione, si stia imponendo alla stregua di un riflesso incondizionato. C’è poco da fare, i tempi che corrono portano il futuro a un apparente vicolo cieco. Sappiamo anche che se proprio si vuole scendere un po’ nel dettaglio, quanto dice Shaviro rispetto a una “estetica accelerazionista”, che necessariamente deve passare attraverso un territorio fisico e cognitivo segnato da una catastrofe, non si sta dicendo che lì bisogna soffermarsi. Ma insomma, qua vogliamo soltanto fornirvi un’immagine comparativa e tirare dritti. Quindi: in questo immaginario museo del Terzo Millennio, come verremo rappresentati? 

Quali fossili, quali ricostruzioni, quali tassidermie per gli occhi che guarderanno in un Museo di Storia Naturale del XXXI?

Tralasciando l’ovvia domanda del chi ci sarà a guardare un tale museo quando il mare avrà ripreso il posto che gli spetta, nel cuore del Nord Italia, tra il lido di Lodi la spiaggia di Melegnano, sotto al sole cocente e tropicalizzato della Monza-Brianza, vogliamo dare una risposta a questa domanda. Quali fossili, quali ricostruzioni, quali tassidermie per gli occhi che guarderanno in un Museo di Storia Naturale del XXXI? Quali animali verranno esposti? Dovete anche considerare il fatto che già ora una certa capacità di stupirsi s’è depotenziata. La qualità dello stupore è scarsa, un leone non dice più un cazzo a nessuno, perché il leone è relegato a un passato prossimo, all’immaginazione da cinepattenone del safari, alla natura domesticata, e questa è una cruda realtà dei fatti che sarebbe bello risolvere. Ma bisognerebbe confrontarsi sul perché si preferisce lasciarsi trasportare dai boati dei motori di un razzo stratosferico o dal lancio di un viaggio orbitale. 

Foto di Lucia Buricelli

Se passate tra i Giardini di Porta Venezia, avrete intanto già una certa panoramica sulla fauna umana. Qui di telefoni e sguardi bassi se ne vedono pochi, tuttalpiù si vedono orologi e cover-porta-smartphone a bicipite sudato e brillante, sballottato dall’orgoglioso portamento delle centinaia di runners che corrono nei parchi, sbuffando affannosamente, alienati da una concentrazione animalesca. La corsa: gazzelle, ghepardi, tigri siberiane, antilocapre, struzzi. Vi viene da pensare questo, agli animali più veloci, girovagando per il parco dopo una visita al Museo di Storia Naturale. Così come guardando agli angoli rocciosi dei Giardini, o sotto le edicole liberty inutilizzate, capite che quelli sono i luoghi deputati a un fenomeno tutto contemporaneo di questi anni Venti: l’esternalizzazione delle palestre. A ogni angolo serie di flessioni nervose, jumping jacks concitati, plank eterni sollecitati dai discorsi motivazionali dei coach all’aperto. Oppure il soffio da scarico di un jab da pugile aggressore, che incalza senza soste l’aria pesante del sole pomeridiano. La forza: gorilla, orsi, elefanti, tigri, scarabei e formiche. Gli animali potenti. Sì, amici. Se scarabei e formiche avessero la stazza di un gorilla non saremmo qua a parlarne. Per chi ricorda quel B-Movie di Straship Troopers non sarà difficile immedesimarsi. Per gli altri, ripiegando alla storia naturale piuttosto che alla fantascienza, consigliamo di immaginare qualche centinaio di milioni di anni fa, quando millepiedi corazzati da due metri e mezzo scivolavano tra gli arbusti, sorvolati da libellule extralarge larghe come un tavolino da bar. 

Al di là di ogni ragionevole ragione, c’è sempre la possibilità dell’estinzione.

Questa è una parte della fauna umana che troviamo in città, che se visitate il Museo nel parco inevitabilmente vi porta lì: al paragone. Come ci ricorderanno? Sebbene oggi come oggi la tassidermia possa non essere vista di buon’occhio, bisogna ammettere che trovarsi davanti ad animal i passati smuove qualcosa dal fondale animale che abita un po’ tutti. Un momento di timore, un’alzata di pelle d’oca, l’endorfina della corsa. È un esotismo di tempo, scriveva la bell’anima di Victor Segalen. E forse è questa la ragione della tassidermia. Perché se ci pensate c’è uno strano feticismo in questa pratica. C’è l’ambizione di un’arte che non si fa solo di tecniche e saperi, ma punta all’estetizzazione. C’è un’esigenza formale lì da qualche parte, tra una resinata e un punto cucito, che non è poi dissimile dagli esercizi di stile di un realismo. Tipo Michelangelo, ma celebrativo. Perché in fondo li si vuole rivedere vivi quegli animali, che sia un triceratopo acquattato o una tigre siberiana che balza su un alce. Perché sono monumentali, a volte per davvero e altre è la storia a renderli tali, il fascino del perduto. E al Museo di Storia Naturale dei Giardini, naturalmente, c’è pure uno dei pochi tassidermisti rimasti in Italia. Per altro la tassidermia è pratica antica, ma diciamo che lo sprint lo ha avuto tra il XVIII e il XIX, proprio quando tra archeologia e geologia e, per l’appunto, scienze naturali si cominciava a capire che come tutto il resto, al di là di ogni ragionevole ragione, c’è sempre la possibilità dell’estinzione. E voilà.

Come dicevamo all’inizio, oggi che la fine pare sempre dietro l’angolo, la domanda è: ve la immaginate, voi, la ricostruzione, l’impagliatura, la tassidermizzazione di un runner o di un jumper-jack? Immobilizzati così, nell’atto di correre e di saltare levando le braccia al cielo in uno strano inno al corpo che trova nella fatica massima, nel sudore, nell’alienazione di un corpo sentito tanto da far male, un agonismo ferale: la vita animale. L’esemplare adatto – almeno stereotipamente. Si pensa a loro per una ragione semplice. Perché per il resto – la variante di specie troppo, troppo umana –, siamo ormai esemplari d’appartamento, chini e prostrati su schermi in movimento, ubiqui, assecondati da una miopia che avanza come il morbo di Giustiniano con stime confutabili che vedono metà della popolazione orba tra trent’anni, e questi sono solo i problemi del lifestyle occidentale, purché ci siano tendenze innegabili su certe ossessioni sportive, tipo l’esternalizzazione delle palestre. 

In ogni caso, il Museo è sempre stato dove doveva stare. Dapprima in mezzo a uno zoo, tra gli elefanti, i pinguini, le tigri e le scimmie che una volta scapparono per appartarsi sotto al Planetario, forse per guardare le stelle in un ansiogeno prequel de Il Pianeta delle Scimmie. Poi in mezzo a dei giardini costellati da statue maschie e patriarcali, e infine in una palestra su prato. Nel mezzo, un tassidermista.