Quando si parla del quartiere, l’abbinamento viene naturale: Porta Venezia, per molti, è quartiere africano. Tra questi molti, quando va bene, una certa percentuale si fa avanti e specifica: Porta Venezia è quartiere eritreo. Altri ancora, attenti alla questione dell’identità, cercano di fare ulteriori distinguo, parlando di quartiere misto, a presenza sì eritrea, ma anche etiope, a volte ricorrendo ad un termine un po’ controverso che mette tutti sotto un grande cappello: quello della comunità habesha, che poi, tradotto in italiano, diventa comunità abissina. Chi è figlio di immigrati eritrei ed etiopi ed è cresciuto a Porta Venezia a volte adotta il termine con orgoglio, perché sottolinea un’unione di popoli che non stanno al gioco del dividi e comanda. Tra gli eritrei, in maggioranza in quartiere, in molti sottolineano come tra i due popoli ci sia tantissimo in comune. E così i luoghi di culto e di ritrovo vengono condivisi sotto il segno di una terra persa da ambo parti, come si fa con la lingua tigrina, in molti casi. È una dinamica, questa, che si ritrova nelle persone di mentalità aperta provenienti da altre parti del mondo dove conflitti in corso separano regioni un tempo unite, come India e Pakistan, ad esempio.
Ma come e quando il quartiere è diventato il punto di riferimento della comunità eritrea?
Partiamo dall’inizio. Dopo l’occupazione coloniale italiana, che diede prove di particolare ferocia e di un’impronta razzista molto spiccata – un esempio: ad Asmara, tutt’ora capitale, vigeva una sorta di apartheid ante litteram che venne preso a modello ed esacerbato da paesi come il Sud Africa pre-Mandela – nel corso della Seconda Guerra Mondiale subentrano le forze alleate che, terminato il conflitto, costringeranno l’Italia a cedere i propri possedimenti coloniali. Oggi della presenza italiana rimangono gli edifici dal gusto fascista, quelli futuristi, ciò che rimane delle infrastrutture dell’epoca, la cucina, un’eredità linguistica che trova ancora traccia in certi neologismi in tigrino mutuati dall’italiano, e l’Istituto Italiano Statale Omnicomprensivo di Asmara, che dal 1935 è stato il più grande istituto italiano al di fuori dei confini nazionali fino alla sua chiusura, avvenuta nel 2020.
Nei decenni che seguono la fine della Seconda Guerra Mondiale la comunità italiana se ne va dall’Eritrea e alcuni dei figli non riconosciuti di coloni e di donne eritree, cresciuti sostanzialmente come orfani, si imbarcano su quelle chiamate poi navi bianche dirette in Italia. A quel punto, l’Impero di Etiopia, che in passato aveva fatto parte dell’Africa Orientale Italiana, vede nell’annessione eritrea la possibilità di avere uno sbocco sul mare e di ottenere il controllo su un territorio tutto sommato ben organizzato dopo la fine della presenza italiana. Così, nel 1952, l’Eritrea diventa parte di una federazione etiope, ma è un equilibrio destinato a durare poco: l’assetto dello stato viene cambiato e l’Eritrea diventa una provincia amministrativa dello stato etiope. La tensione sale, si sviluppa un movimento indipendentista, e negli anni Sessanta comincia una guerra per l’indipendenza destinata a durare decenni a venire.
Molti che hanno vissuto quei tempi da bambini nati in Italia da genitori eritrei se li ricorda come idilliaci, complice l’assenza di viaggio di sola andata per lasciarsi alle proprie spalle la propria terra.
Proprio in questo periodo, a Porta Venezia, cominciano ad arrivare i primi eritrei, che arrivano a Milano con mezzi economici propri, prendendo aerei e organizzando lo spostamento in maniera radicalmente diversa rispetto ai viaggi della speranza dalla Libia tristemente noti a tutti. La presenza della comunità, comunque, dagli anni Settanta in poi assume le sembianze di una storia collettiva localizzata e ben raccontata da Medhin Paolos e Alan Maglio, nel loro Asmarina (2015). È allora che la comunità prende l’iniziativa di organizzarsi, cercando di entrare nei circuiti della città circostante e creare spazi comuni dove potersi ritrovare e vivere, anche con una certa nostalgia, quella vita ormai a più di seimila kilometri di distanza.
E così ci si ritrova nella chiesa di Viale Piave, attorno alla figura di Padre Marino, punto di riferimento per la comunità e vero tuttofare a cui si rivolge chiunque abbia un problema. A quel punto ci sono un calendario di celebrazioni eritree condiviso e vissuto con gioia dalla comunità, una scuola di lingua dove si insegna tigrino e italiano per nuovi arrivati e nuove arrivate di qualsiasi età, e colonie estive per bambini di origine eritrea all’interno di uno stabile di Viale Kramer dove vengono organizzati anche concerti, incontri politici, e pasti di comunità con donne che cucinano cibo per decine e decine di persone. Molti che hanno vissuto quei tempi da bambini nati in Italia da genitori eritrei se li ricorda come idilliaci, complice l’assenza di viaggio di sola andata per lasciarsi alle proprie spalle la propria terra.
Con il passare degli anni il quartiere diventa in tutto e per tutto un concentrato di Eritrea, con una comunità che comincia a stratificarsi e diventare sempre più variegata e complessa. Perché nel frattempo, nel 1991, dopo trent’anni di conflitto sanguinoso, si conclude la guerra di indipendenza con la vittoria dell’Eritrea, che diventa stato sovrano e tiene elezioni nel 1993. È uno spartiacque, questo, dal quale il paese, e forse Porta Venezia, non torna più indietro. Isaias Afewerki viene eletto capo di stato dopo aver guidato le forze di liberazione eritree; passano gli anni, l’euforia per la raggiunta indipendenza diventa sempre più debole, e Isaias da lì non si smuove, e attualmente, 2021, è ancora capo di stato.
Oggi l’Eritrea viene paragonata alla Corea del Nord, posta come ultimo paese per libertà di stampa in una classifica di 180 e trascinata ciclicamente nel continuo del conflitto apparentemente senza fine con la vicina Etiopia. Nel 2014 sono in centinaia gli eritrei di passaggio a Porta Venezia dopo essere arrivati a Lampedusa i con barconi, lasciandosi alle spalle quella che viene riconosciuta dalla comunità internazionale come una dittatura totalitaria. Così i vissuti nel quartiere, si stratificano, si dividono, con strappi forse inconciliabili tra persone, amici, parenti. Il paese che si è lasciato alle spalle cambia in maniera irrevocabile, e il presente in cui si vive pure. Sorgono barriere invisibili, tanto forti da diventare invalicabili. Così il ristorante dei sostenitori dell’attuale governo e il bar frequentato da chi dall’attuale governo è fuggito da poco e deve ancora costruirsi una vita sono prova dell’esistenza di vasi non comunicanti. Ponti interrotti.
E poi c’è un altro sentimento di divisione, non meno problematico, vissuto da chi è nato in Italia e ha un vissuto differente da chi in Eritrea ci è nato e cresciuto, guardato allo stesso tempo dai suoi coetanei italiani come estraneo, in qualche modo, anche per via della legge sulla cittadinanza basata sullo ius sanguinis, che non la riconosce in automatico a chi nel paese ci nasce, cresce e ci diventa maggiorenne. È il grande nodo non sciolto dei figli di immigrati, legato a doppio filo ad un’altra questione più ampia che coinvolge anche chi vive da decenni nel paese e che può riassumersi nelle domande: cosa vuol dire essere italiani? E quando e perché lo si diventa agli occhi degli altri?
Sono tutte dinamiche, queste, che si muovono sotto la pelle di un quartiere in trasformazione, incomprensibili a una persona esterna. Anche perché, in questi anni, a smuovere le acque e aggiungere chiavi di lettura al paesaggio alla comunità eritrea si è aggiunta quella LGTBQI+. Un binomio che dicono sia nato assieme e che si è sicuramente sedimentato nel corso degli ultimi vent’anni. Perché alle origini del Rainbow District c’è anche la disposizione all’accoglienza della comunità eritrea ed etiope. Quell’ostinatezza nell’occuparsi degli altri e fare comunità insieme, del cercare l’esperienza comune. Del sapere che bisogna mettere insieme tutti i colori possibili e senza cercare la distinzione, come sono i presupposti del Rainbow – una rainbow nation -, e che l’amore altro non è che le fondamenta per una castta per tutte e tutte, come racconta la nascita del Love.