Monumentale è un nome che ha decisamente senso: tanto per indicare un luogo dove stanno i monumenti, quanto per intendere più genericamente qualcosa di molto grande. Di solenne. Enorme. Come solitamente sono poi i monumenti. In questo senso Monumentale è una tautologia, anzi: un raddoppio tautologico. È mastodontico, copre una porzione più che considerevole di spazio e ovviamente ci sono i monumenti grossi: edicole storiche marmoree e feretri altrettanto importanti, con moli significative e decori a volte al limite dell’horror vacui – beati ricordi di storia dell’arte. E la paura del vuoto, in un cimitero, ha effettivamente senso.
Insomma, varcata la soglia di Monumentale comincia un viaggio che somiglia più a un trip che a un tour. Se da una parte passeggiare per questi viottoli può essere paragonato – e sicuramente percepito – come un viaggio nella storia, una specie di Grand Tour del XVII secolo ma dove i monumenti non sono alla storia, il trip è un risultato piuttosto logico nel momento in cui, da sempre, il confronto con le cose morte porta a riflettere su come si vive. Psichedelia. Comincia con un inizio pacifico e placido, morto verrebbe da dire, in cui il passeggio sul viottolo sembra una traversata su un rigagnolo in barca, cullati e sovrastati dal cielo blu cobalto del famedio. E la prima psico-suggestione è proprio questo cielo: la volta puntata dalle sue sempiterne stelle, sotto la quale riposano le figure che Milano è orgogliosa di ricordare con tombe dal sapore neogotico, slanciate verso il cielo, tensive. Insomma, fantasmatiche.
E qui sta pure tutto il loro retrogusto contemporaneo. Da una parte quella corrente del monumentalismo che si distingue per dimensioni nell’edilizia. Da una parte la basale dall’altra la monumentale. E questo fa sì che il “monumento” occupi sempre un posto speciale nei cuori della toponomastica locale. In Zona Monumentale, per dire. Avessimo un obelisco sarebbe quello. Dall’altro, invece, quei toni scuri del neogotico mescolato al classicheggiante sono decisamente odierni, insomma, si respira un’aria di estinzione.
Anche da morti la lotta di classe procede verso il sogno della rivoluzione celeste.
Il cielo serale del “tempio dei famosi” inizia a diventare claustrofobico in poco tempo. Fuori splende il sole, e a star fermi si rischia una trance delirante. L’unica via per sfuggire è procedere per l’arcata e dirigersi verso il camposanto vero e proprio. Pensando di esser sfuggiti alla prima riflessione sulla morte, ci ritroviamo invece davanti a una visione troppo chiara per essere ignorata: anche da morti la lotta di classe procede verso il sogno della rivoluzione celeste. Esistono tombe più belle, alte, raffinate ed eleganti di altre, lapidi che si ergono con l’arroganza di uno stile neoclassico ed edicole che sembrano palazzi costruiti assecondando quella megalomania che solo le religioni sanno piazzare a un personaggio ben costruito. Eppure, la sensazione subisce un paradosso: l’afflato rivoluzionario è ferito dal sentore che la vita sia bella, sublime, che pure la cupezza del neogotico in fondo segua un fototropismo essenziale in questo trip funereo, come un viaggio di Gaspar Noè ma sulla pellicola sbagliata, scaduta.
Non a caso possiamo dire, assieme ai Baustelle, “di realtà e d’irreale, vieni a fartene un’idea”; è la canzone omonima al Cimitero, che magari non è dedicata propriamente a questo luogo ma che a nostro parere lo descrive bene, un bell’accrocchio.
Insomma, quale ambiente migliore del camposanto spinge a ragionare sulla vita? Come a dire che si pensa per negazione. Tipo, quale luogo più adatto di una camera anecoica – quelle stanze talmente insonorizzate che il battito del cuore fa tanto rumore da provocarti un infarto – per addestrare i sensi a percepire ogni segnale di vita? Clamorosa la vicenda di George Foy che in 45 minuti di silenzio abbacinante era divenuto capace di percepire il movimento dei suoi bulbi oculari.
Essere sotterrati a Monumentale comporta delle cose, come una tanatofilia pudica. Con tanto di marmo, ghirigori e spiegoni.
Dicevamo: il fascino del paradosso. Il cimitero che dovrebbe essere un luogo di accoglienza dei defunti, questa volta si estranea dalla morte. Ed è vero nella misura in cui monumentale può essere considerato un museo aperto composto effettivamente da monumenti di grandissimo valore artistico. Pensiamo ad esempio all’Edicola Campari – che non vendendo l’alcolico omonimo non può perciò curare l’eventuale sconforto subito nel trip dall’ambiente funerario –, una scultura impressionante. Potrebbe essere un bad trip, invece, farsi cogliere di sorpresa dalla tomba di Isabella Casati, che già pensare che sia morta ventenne fa prendere male, ma in più il feretro, che fu il lavoro di Enrico Butti – rappresentante della scapigliatura Milanese –, è proprio del simbolismo più tetro: una schiera di angeli rapitori, accompagnatori, traghettatori, scafisti delle anime, chiamateli come volete voi. Grandiosità e magniloquenza urgono a questo punto, e per ripigliarsi ci vengono incontro due delle edicole più belle: la prima è la cappella Feltrilenni che con uno stile eclettico che potremmo a tutti gli effetti, retroattivamente, definire con buone ragion cringe, ci ricorda ancora una volta che se per la vita hai viaggiato in prima classe forse non è poi così malaccio tirare le cuoia. A seguire, c’è Antonio Bernocchi, la mia preferita: una sorta di obelisco statuario che rappresenta in ordine ascensionale la Via Crucis, uno dei più grandi climax narrativi della vicenda biblica e giustamente recuperato appena possibile in pressoché ogni pannello iconografico relativo al percorso della vita e al suo inevitabile traino verso l’oblio, un po’ tipo le fatiche di Ercole. E il paradosso continua quando realizzi che se la morte è artistica, e in fondo lo è da sempre stata (tutti da sempre a cercar di far meglio dei Faraoni), inevitabilmente fa profitto. Eccita le masse, incuriosisce i singoli, pianta i primi semi di una tanatofilia pudica, coperta di marmo e ghirigori, con storici che disegnano i programmi di diversi tour alla scoperta dei monumenti più belli del cimitero.
Ma nei trip è anche giusto sperimentare, a volte perdersi, e nulla dunque impedisce – e anzi, ogni tanto, suggerisce – di lasciarsi guidare dal caso. Dalla curiosità. Da una strana passione per le cose morte o per i nomi che non conosci. Col rischio di perdersi nei 250.000 chilometri quadrati del cimitero, finire col riconoscere nome per nome e a occhio le lapidi, le edicole, le tombe e le statue. Finendo per sapere meglio di tutti cosa è successo e come si è svolta una certa vicenda. È il viaggio del trip. La scoperta, la conoscenza. Il trip nel tour di Monumentale.