Buongiorno, mi chiamo Emilio e ho 40 anni. Qualcuno in più, a dire il vero.
E insomma, ho qualcosa più di 40 anni e campo scrivendo di videogiochi. Ok, lo so; quando mi capita di dirlo a una cena – su richiesta, sia chiaro -, o mentre chiacchiero sorseggiando un vodkamartini fatto come si deve, la reazione è sempre la stessa: «Ma dai, che bello. Però no, intendevo, che lavoro fai, cioè quello per cui ti pagano». Appunto, mi pagano quando e perché scrivo di videogiochi, caro il mio interlocutore.
Perché sia chiaro, i “giochini”, come dice qualcuno, oggi fatturano cifre che il tuo cinema, la tua musica, il tuo dj preferito e pure il tuo design di seggiole e pentolame, amico mio, si sognano. Ma non è solo né tanto per ‘sta caterva di petroldollari che mi interessano i mondi virtuali. E non è nemmeno perché sua santa Maria Vergine del MoMA, al secolo Paola Antonelli, qualche anno fa si è accorta che niente, come un videogioco, rappresenta al meglio l’interaction design. Tanto da far accomodare in via permanente i «40 giochi migliori di sempre» a pochi metri dai Pollock, dai Basquiat e altri tossicomani.
Per dirla semplice, il gaming è ai giorni nostri la lente migliore per osservare il mondo. E capirlo. È il filtro interpretativo più scaltro, profetico e sensibile per orientarsi dentro quel che accade più in là del nostro naso. E, per di più, facci caso: oggi tutto è un gioco e il gioco è ovunque. Soprattutto, il gioco è oltre se stesso. C’è qualche studioso che da anni si spertica per convincerci che il ludus – sì, ok, l’ho scritto – ha addirittura sostituito l’eros, la smania di scopare del secolo scorso. Se prima tutto era sesso, oggi meglio farsi una bella partita. Anche in un orgiastico multiplayer massivo, alla faccia di malattie veneree assortite e pure delle piattole. «Sigmund Freud, analyze this!», canterebbe la Madonna.
I videogame, occhioni miei belli, testimoniano come dividere il digitale dalla realtà sia roba d’altri tempi, sia un atteggiamento incomprensibile e insensato per chi abbia meno di 20 anni. Vaglielo a spiegare tu, a uno nato nel 2002, che la piazza digitale dove si espone, dove pubblica tutto quanto lo riguardi, dove chiacchiera con gli amici, li incontra e se ne fa di nuovi, dove si innamora e talvolta ci lascia pure le penne, ecco, vaglielo a dire tu che quella, la sua, non è la realtà vera. Tu, dall’alto della tua seggiola di design che a tutto serve fuorché ad appoggiarci comodamente il culo. E magari spiegaglielo via social, o con un twit bello ficcante («Sigmund Freud, analyze this!»).
Ancora scettico? Eccoti qualche esempio rapido e sappi che ce n’è di ogni risma e per tutti gusti, da quelli che testimoniano come anche la guerra – quella coi morti – oggi si giochi con un pad in mano a curiose applicazioni che divertendo, il mondo, contribuiscono a migliorarlo (e senza manco scomodare quella furbastra di Jane McGonigal, che previa pingue fattura va in giro a raccontare come e quanto i videogiocatori e videogiochi salveranno il mondo).
Ebbene, qualche esempio, si diceva. E coi piedi per terra, sia chiaro, non è necessario interpellare i colossi che a suon di Pikachu e comandanti Shepard fatturano tre volte la Fiat – o la FCA, giusto per rimanere in tema. Ebbene, nel 2012 un poco più che ventenne inglese, tale James Vaughan, nel tempo libero si inventa un “giochino” che battezza Plague Inc.. L’idea è semplice: trattasi di un gioco strategico in cui, profilato un virus, un fungo o un batterio, si deve semplicemente estinguere il genere umano prima che la sanità internazionale lo impedisca. Vaughan spedisce il gioco, progettato inizialmente per iOs e iPad. Fissa il prezzo a meno di un dollaro. Quando esce, manco lo avvertono. A lui poco importa, tanto è al mare.
Cinque giorni dopo i download sono 210mila. Per due settimane Plague Inc. è la app più scaricata del mondo. Diventa il gioco dell’anno. Oggi, a un lustro di distanza, milioni di giocatori ancora si baloccano migliorando ebola, aviaria e altre prelibatezze con cui sterminare i propri simili. Per finta. Nel frattempo, per davvero, Vaughan ha un’azienda con decine di dipendenti e conta i soldi. Ma non solo: nel 2013 viene invitato ai Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta – per farla facile, il corrispettivo del nostro Ministero della Salute ma senza gli opuscoli contro i neri che si fumano le canne – ebbene, Vaughan va ai Cdc perché il modello matematico che nel suo gioco presiede alla diffusione virale è, dicono i medici, «altamente verosimile». Una volta là, si capisce come Plague Inc. sia stato e possa essere cruciale nell’informare i giocatori circa profilassi e atteggiamenti corretti in casi di pandemie anche solo minacciate, puta caso come l’ebola di cui in quei mesi si registra un picco terribile. Non solo: il gennaio successivo, agli utenti di Plague Inc. viene data la possibilità, nel gioco, di potenziare i propri patogeni con micro transazioni tutte devolute alla Croce Rossa Internazionale. D’un tratto, un gioco – finto? – per distruggere l’Umanità diventa un modo dall’efficacia strepitosa per contribuire a salvarla. E davvero, cara la mia seggiola sfonda chiappe.
Ma i videogame aumentano anche la violenza nelle strade – mi dirai, seggioloide di design – e ogni volta, appena un mentecatto decide di sterminare la propria famiglia o tutta la sua scuola, salta fuori trascorresse un sacco di tempo con i videogiochi sanguinolenti. Vero: e con le scarpe – ti risponderei – tanto che ne aveva due addosso e altre paia a casa.
Nonostante gli studi più recenti dimostrino proprio il contrario di questo luogo comune – che, giusto per dire, negli Usa ha fra i suoi più grandi sostenitori quei buontemponi della National Rifle Association – ebbene, nonostante rilievi recenti dimostrino come nelle zone a maggior diffusione di videogame vietati i delitti violenti si abbassino vertiginosamente nella popolazione sotto i 30 anni, un po’ ti darò ragione. Ma per altri motivi, amico mio, vale a dire per l’evidente sovrapposizione fra l’industria militare e i mondi in pixel. Sia chiaro, un po’ è una bega di famiglia: i videogame sono fratelli, letteralmente, della bomba atomica. Il loro papà, William Higinbotham, inventò Tennis for Two 15 anni dopo aver ultimato il timer del primo ordigno nucleare.
Un po’, invece, è perché l’esercito, negli anni, si è accorto che avrebbe addestrato alla grande i suoi soldati distribuendo videogiochi a tutti e senza investire in esosissimi simulatori. Quelle migliori, di simulazioni, costavano pochi spiccioli, funzionavano su console casalinghe e sembravano incantare urbi et orbi.
Così fu: dopo il lancio di America’s Army – uno “sparatutto” gratuito sviluppato per stimolare il reclutamento e finanziato con banconote militari – venne fuori che il 42 percento delle nuove reclute ci aveva giocato. Addirittura un attore, tale Ronald Reagan, guardando la massa di assi del joystick crescere giorno dopo giorno, previde grandi cose per il futuro dell’aeronautica dello zio Sam. E, per una volta, ci azzeccò.
Dura poi stupirsi di come, anche contro l’ideologia statunitense, i videogame siano usati per diffondere visioni del mondo opposte. Ma poco importa, ora. Quel che conta adesso è come il gioco digitale sia dentro il mondo. Tanto da costituirne una parte ormai inscindibile.
Un videogame polacco di pochi anni fa, lo strepitoso This War of Mine, raccontò addirittura l’esperienza di essere vittime di uno scontro bellico, più che suoi protagonisti. Il gioco, uno strategico gestionale, imponeva di far sopravvivere alcuni civili in un caseggiato semi distrutto durante un bombardamento, con tanto di rastrellamenti e sciacallaggi notturni. Qualche mese dopo l’uscita, grazie all’iniziativa War Child dlc, fu possibile agghindare il proprio rifugio acquistando con soldi veri le opere realizzate ad hoc da alcuni street artist di fama internazionale. Spendendo pochi euro si potevano far comparire sulle strade e sui muri della propria città digitale graffiti e disegni d’autore. I proventi dell’iniziativa finanziarono War Child, l’organizzazione non governativa che si occupa di intervenire nelle zone di guerra e assisterne i bambini.
Fra pochi giorni sarà pubblicato Antura and the Letters, la app sviluppata da Francesco Cavallari per la sua associazione Videogames Without Borders, un gruppo di game designer veterani che punta a realizzare «ottimi giochi per un’ottima causa» (Jane McGonigal, analyze this!). Trionfatore al concorso internazionale EduApp4Syria – indetto dal governo norvegese -, il gioco per telefoni e tablet insegna l’arabo ai bimbi nei campi profughi. E funziona che non hai idea, visto che nelle zone di guerra pare scarseggi tutto, ma non gli smartphone. Inteso, seggiola che fai pure il caffè ma mi violenti l’osso sacro?
Inteso, blasonato “distretto” milanese chissà perché definito tale che, svegliatosi stamattina in un mondo improvvisamente andato avanti, credi che infilare nel titolo di una rassegna la parola “gioco” equivalga a non essersi addormentati – e senza più aprire occhio – negli anni 70? Quando futuri miliardari erano ancora “i pittori squattrinati del bar Giamaica”. Peraltro oggi sostituiti da tizi il cui taglio della barba costa quanto Xbox e Playstation messe assieme.
Non capire quale immensa risorsa espressiva sia un mezzo che può dire tutto e il suo contrario è, credo, peccare di una miopia grave. Non riconoscere come quel mezzo sia ormai tanto diffuso e potente da annichilire ogni suo predecessore, è altrettanto ingenuo. Ma sottovalutare l’urgenza di una critica e uno studio serio di una parte di realtà sempre più consistente può essere pericoloso.
Per questo, a qualcosa più di 40 anni, scrivo di videogiochi. Un altro vodkamartini, grazie.
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