Salentino di nascita, calvairatese da più di 20 anni. Cantante e autore, viene da solide basi classiche (ha studiato al Berchet), è tifoso del Lecce e non dimentica mai di dare un occhio alla cucina, con particolare infatuazione per il pesce crudo. Lo si avvista al massimo in Porta Romana perché non riesce ad allontanarsi troppo dalla sua “Calva”. Santifica la domenica col bloody mary e appena può scappa in Giamaica. Lo trovate nei dischi di Ensi, Marra e compagnia bella.
«Camminare a Calva è fare un giro multiculturale in un bazaar istruttivo.»
Partiamo dalle basi: perché il nome Attila?
Attila è un soprannome più che un nome d’arte, il mio primo soprannome è sempre stato Pupiddhru, che sarebbe un pesce da frittura in salentino. Giravo sempre con gente più grande di me e uscì fuori questo nome perché ero quello che faceva sempre danno quando uscivamo in compagnia. Così hanno iniziato a chiamarmi Attila. L’ho fatto mio e mi piace dire che mi chiamo così perchè “distruggo” i palchi che calco (oltre al fatto che ho mille flyer con il nome Pupiddhru scritto in tutti i modi possibili sbagliati e quindi ho colto al balzo l’occasione per cambiare nome).
Come ti sei avvicinato alla musica e ai microfoni?
In famiglia si è sempre respirata tanta musica. Ho due cugini musicisti professionisti e da piccolissimo ho iniziato a suonare la chitarra. Alle superiori avevo la mia band ma facevo le seconde voci, poi ho iniziato a fare freestyle in sala prove con il batterista a cui avevo fatto sentire delle cose dance hall e si prendeva bene a darmi il tempo. Da lì mi sono accorto che la passione per la scrittura e il canto superava quella della chitarra. È stato un percorso lungo, scrivere i propri testi è naturale ma, ad esempio, come nei miei due ultimi dischi in cui canto in patwa giamaicano, comporta un sacco di ricerca e tecnica.
Dove hai comprato i primi dischi/cd?
Il primo cd era masterizzato! Ahah.
A Milano andavo da Zabrinskie point , era un ritrovo di punk e skinhead e trovavo sempre qualcosa nuova da ascoltare, prima i negozi di dischi erano come le librerie, ti dovevi anche fidare di chi ti consigliava, e così era.
Quando ho iniziato a comprare vinili, girando in Isola/Pergola chiaramente ero quasi una “tappezzeria” del JahMekYa, storico negozio reggae italiano, che purtroppo non c’è più.
Primo concerto che hai fatto, dove lo hai fatto?
Il mio primo concerto è stato al C.S Cantiere con la mia prima band punk, ci chiamavamo i Mezzopalo, facevamo principalmente roba che veniva dalla California, mischiandola con un po’ di ska. Avevamo 15 anni e c’era Divi dei Ministri a farci da supporto tecnico e morale, ora è uno degli artisti più forti in circolazione, mi avrà contagiato.
E il prossimo, dove vorresti farlo?
Il prossimo mi basterebbe farlo!
No, scherzo, ci sono tante venue che mi piacerebbe calcare e molte in cui mi piacerebbe ritornare, tipo il Rototom in Spagna, sognando che torni in Italia.
Mi piacerebbe tornare a viaggiare per i festival europei, hanno una vibe difficilmente spiegabile. Vedi intere famiglie girare per il festival come se fossero in un villaggio turistico, la gente assiste ai concerti anche di gente che non conosce e se si prende bene poi approfondisce e ti segue. Mi è capitato quest’estate dopo un live in Slovenia di incrociare due ragazzi svedesi che mi avevano conosciuto nel 2016 proprio in Spagna, è stato magico.
Lo sai che io ti ho conosciuto come “rapper”? Com’è avvenuta la svolta?
Ma in realtà io rapper non lo sono mai stato, ho sempre girato con loro, amici di una vita, e la mia caratteristica è sempre stata quella di mixare il reggae all’hip hop. Sono infatti nei dischi dei rapper più rappresentativi italiani, come Marracash, Ensi o Egreen ma con il mio stile, che poi è quello che mi differenzia dagli altri. Scusa eh.
Torniamo al Quartiere. Una chicca imperdibile?
Una non basta. Camminare a Calva è fare un giro multiculturale in un bazaar istruttivo: c’è lo squillo di Alessandro il barbiere di Piazza Salgari che ti accoglie con un “uaglioooo”, una sorta di campanello per quelli che passano lì vicino.
Poi c’è lo shop di Jafar che ti rincuora anche nelle torride serate estive “È fredda questa birra?”. Non ti permetterebbe mai di andartene dal suo negozio senza una bionda a temperatura umana. E poi il mio punto di riferimento per la pizza: Regina Catarì, che ti rincuora quando hai bisogno di una coccola. Poi, vabbè, chiaramente La Loggia, una realtà che ci voleva, che aggrega persone matte e magiche e che mi accompagna in questa avventura nelle cinque vie di Calva.
Calvairate è la Salento di Milano?
Assolutamente sì, anche se vorrei che, come in Salento, si respirasse più cultura, più musica e si avesse meno paura. Un quartiere vivo e felicemente multiculturale è il miglior antidoto alle strumentalizzazioni di certi personaggi.
La tua ricetta segreta?
La mia ricetta segreta è andare fuori a cena! Ahah!
Scherzo, mi piace moltissimo cucinare, aprire un buon vino, mettere dei classici roots reggae anni ‘70, tipo Tenament Yard di Jacob Miller e, sì, ho dei cavalli di battaglia… Tipo la tartare di tonno con l’erba cipollina e un paio di ingredienti che non vi dico perché, appunto, sono segreti!
Sono un campione degli scampi in busara, un piatto tipico dell’alto adriatico. Viene fuori uno spaghetto che fa sempre colpo. Mi piace cucinare per gli amici, quelli veri, per loro la mia cucina è sempre aperta!
A proposito, quand’è che vieni a cena?