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Augusto Maurandi

In occasione della collettiva Belmondo, un dialogo su genesi e sviluppo di Spazio Punch in Giudecca con il suo fondatore

quartiere Giudecca

Written by Tommaso Zanini il 25 March 2022

È nato in Mar del Plata, Argentina, da famiglia italiana e spagnola, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti con indirizzo fotografia e grafica, da Buenos Aires nel 1994 avrebbe dovuto trasferirsi a New York ma il destino lo ha portato a Venezia.  «Mio nonno mi regalò dei biglietti per l’Italia e nel ’96 sono arrivato qui» racconta Augusto Maurandi «e qui mi sono innamorato della Giudecca». Nell’isola che si affaccia davanti alle Zattere e dove scorrono carsici alcuni dei flussi creativi più interessanti del contesto veneziano, Maurandi nel 2011, insieme a Lucia Veronesi, fonda Spazio Punch. Tutto il resto? È storia.

  Raccontaci cosa è successo a Spazio Punch nell’ultimo periodo, come siete arrivati a Belmondo?
«A partire dall’acqua alta del novembre 2019, come Spazio Punch abbiamo messo in pratica delle strategie di “soppravvivenza”. È stato un periodo molto travagliato, in cui a quella catastrofe naturale, che si è verificata localmente, è seguita l’emergenza internazionale della pandemia.  Se torno con la memoria a quel periodo, sento di aver quasi perso il senso del tempo che è trascorso da quei giorni! Come per tanti, non era possibile proseguire la nostra attività normale e dunque si dovevano immaginare altre modalità per continuare ad operare e progettare l’attività futura. In quei mesi difficili la riflessione ha coinvolto inevitabilmente il nostro percorso dalla fondazione dello spazio ad oggi; quando in quei mesi abbiamo realizzato “Punch TV”, una produzione multimediale impostata insieme a Extragarbo e Axel Eye, facendo una sorta di “slalom giuridico” tra le varie limitazioni per poterci comunque incontrare fisicamente, lavorando insieme a performer, musicisti e videomaker. La risposta che abbiamo ricevuto è stata entusiasmante e grazie a tutto il lavoro fatto abbiamo percepito una “spinta benevola”, che ci è stata trasmessa dalle tante persone che negli anni questo spazio l’hanno attraversato e che non potendo essere presenti, ci scrivevano o interagivano sulle nostre pagine social».

Belmondo

  E una volta usciti dai lockdown del 2020, in cosa si è tradotta questa spinta?
«In mostre; abbiamo deciso di tornare alla città di Venezia coniugando parte delle nostre collaborazioni artistiche passate con chi era attivo in una città in quel momento sostanzialmente svuotata. La prima mostra che abbiamo ospitato è stata Pesi Massimi di Fondazione Maluta, un gruppo di pittori che lavora a Venezia da molti anni. Dopo l’acqua alta del 2019 tanti di loro hanno avuto dei danni nei loro studio e dunque Spazio Punch ha deciso di ospitarli, creando una residenza non programmata, che nelle intenzioni originarie doveva durare 2 mesi ma alla fine è durata 6 con la restituzione finale al pubblico della mostra Pesi Massimi. Nel frattempo, mentre intorno a noi succedeva di tutto, avevo notato che durante il lockdown diverse persone avevano realizzato dei manufatti, degli oggetti autoprodotti di design che presentavano su Instagram, e altri autori si erano uniti in gruppi virtuali per creare dei progetti; così è nato Emporio, un progetto che ho seguito insieme a Tommaso Speretta. Successivamente, Penisola ha ripreso e celebrato la nostra area di ricerca principale in questi anni 10 anni di attività, cioè la fotografia e l’editoria indipendente; Penisola ha esposto sette progetti editoriali realizzati da fotografi italiani prodotti nel 2020, nonostante l’incertezza dei tempi. La mostra è stata curata insieme a Giulia Morucchio, l’allestimento è stato realizzato da Zaven e il catalogo da Metodo Studio.  Queste due iniziative, insieme alla mostra The Forbidden Garden realizzata da Studio Wild che abbiamo ospitato durante la Biennale del 2021 (ndr: Spazio Punch ogni anno collabora e ospita un Padiglione Nazionale durante la Biennale di Venezia – in questo 2022 ospiteranno il Padiglione Nazionale della Georgia, e inoltre cureranno un bookshop permanente dedicato a progetti editoriali indipendenti) ci hanno condotto alla nostra ultima mostra: Belmondo».

  Cosa è Belmondo?
«È una mostra finalizzata ad esplorare l’idea di sviluppare una galleria d’artisti di Spazio Punch. Il nostro percorso ci ha permesso di conoscere molti autori, alcuni affermati altri invece all’inzio della loro carriera: negli anni molti di loro di sono affermati sulla scena contemporanea nazionale e internazionale e, per nostra fortuna, hanno mantenuto un rapporto con Spazio Punch e con la città di Venezia. Belmondo in questo senso risponde ad una nostra domanda: come saremmo se fossimo una galleria convenzionale e non uno spazio indipendente no-profit?«»

Che risposta vi siete dati?
«Innanzitutto nessuno degli artisti partecipanti ci ha portato dei “fondi di magazzino”, e questo attivarsi da parte degli artisti ha avuto come risultato che quasi tutte le opere sono state concepite esplicitamente per questa mostra. Direi quindi che la risposta più importante è stata questo attivarsi, che ci ha permesso di lavorare insieme; un “Belmondo” insomma».

Padiglione Islanda – Biennale 2019 – Chromo Sapiens

Quindi, maturato il decennale di Spazio Punch, vi siete trasformati una galleria tradizionale?
«Non proprio, anche se in un certo senso questo sviluppo ci ha permesso di immaginare una piattaforma con cui rappresentare degli artisti che ci sono cari come “Spazio Punch”, come appunto lo farebbe una galleria. Ma il punto per noi dopo dieci anni di attività è quello di poter rispondere, per esempio, agli inviti che le fiere d’arte contemporanea o alcune istituzioni negli anni ci hanno riservato, partecipare con dei creativi alle proposte e ai progetti. Belmondo nelle nostre intenzioni è una piattaforma con cui progettare e sviluppare delle idee parallele, mantenendo il nostro approccio indipendente in contesti diversi dal nostro spazio. Questo progetto lo ho seguito con Giulia Morucchio con il set up di Zaven».

Cruising Pavilion -Biennale Architettura 2018

Effettivamente negli ultimi anni i circuiti fieristici hanno spesso tentato di includere progetti indipendenti ed eterodossi per ampliare sia la loro offerta che il loro pubblico. Dopo 2 anni di pandemia questa tendenza condurrà ad una trasformazione del circuito fieristico italiano dell’arte?
«Visitando le fiere mi sono spesso reso conto di come la maggior parte delle gallerie italiane sia rimasta legata ad un linguaggio molto vecchio, anche a livello commerciale. Questo si è tradotto in una fossilizzazione del pubblico, perché non c’è stato un rinnovamento dell’offerta e non ci sono molti nuovi attori e proposte. Certo, i tempi sono molto difficili, ed è sicuramente più facile vendere un quadro di un autore affermato rispetto ad un lavoro multimediale di un giovane artista, ma mi chiedo se questa strategia conservativa non sia di cortissimo respiro, tanto più che due anni di pandemia ci hanno obbligati a fruire dell’arte e delle cultura attraverso strumenti digitali e modalità virtuali, e dunque mi domando se abbia senso insistere sulle stesse proposte. Sono stati tutti molto coraggiosi ad andare avanti, ma è possibile pensare di riproporre lo stesso format di fiera, la stessa Artissima del 2000 dopo questi ultimi due anni? e pensiamo davvero che i collezionisti di oggi abbiano gli stessi gusti della generazione precedente e continueranno ad acquistare sempre gli stessi autori, le stesse opere? io non credo».

   Come nascono quindi le vostre scelte artistiche in questo contesto?
«Vorremmo “ribaltare” il modo con cui normalmente una galleria si relaziona agli artisti e al loro lavoro. Perciò, fare delle scelte in questo contesto per noi vuol dire partire dalle persone, dalle loro idee, desideri e aspirazioni invece che dai loro oggetti o opere. Come dicevo prima, sarebbe certamente più semplice presentarsi ad una fiera proponendo una serie di multipli di artisti consacrati invece di organizzare la presentazione dei nuovi lavori di un gruppo di giovani artisti, ma per noi ha senso lavorare solo così…»

Christoph Ruckhaeberle 
& Lubok Verlag

   Ti stai trasformando in un curatore?
«Non proprio: credo che la figura del curatore sia una figura sorpassata, specialmente per quanto riguarda il nostro contesto perché nella maggior parte dei casi la sua posizione non fa altro che trasformare il lavoro degli artisti in maniera formale e intellettuale, cercando a volte delle giustificazioni o delle teorizzazioni superflue rispetto alle opere, che dovrebbero parlare da sé. Voglio parlare direttamente con lo sciamano, non voglio filtri o intermediari. Se dovessi considerarmi un curatore, direi che lo sono nel senso che mi preoccupo di stimolare, scambiare idee, aiutare gli artisti con cui scegliamo di lavorare insieme. Ma non è la mia figura che deve emergere, anzi: molte volte in passato mi sono sottratto per lasciare apparire ciò che era in mostra, nascondendomi dietro il nome di Spazio Punch per evitare una personalizzazione che per me non aveva senso…se quindi dovessi dare dei riferimenti per quella che vorrebbe essere la mia pratica direi piuttosto che vorrei muovermi come un produttore discografico: cercare talenti, farli suonare bene, darli un contesto come George Martin, Brian Wilson, Phil Spector. Riferimenti molto alti, probabilmente irragiungibili, però non riesco proprio ad immaginare qualcosa di diverso rispetto a quello che è stato il percorso di Punch».

   Ok, siamo arrivati al momento del gusto: dove andare a pranzo, a fare un aperitivo o a cena a Venezia?
«Pranzo: in piedi alla Rosticceria Gislon. L’aperitivo invece lo preferisco all’ Experimental Cocktail Club; il bartender Lorenzo di Cola mi ha dato molti consigli pensando a dei Cocktail con i distillati che si producevano anni fa in Giudecca . A cena invece, per cambiare città, a Mestre al Ristorante Indiano Bombay Spice».

 Qual’è il tuo cocktail preferito?
«Il mio Cocktail preferito è composto al 60 % da Vermouth Carpano, 40% Soda o Seltz, abbondante ghiaccio e una fetta d’arancia, servito un bicchiere Tumbler alto».