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Carlos Amorales

In mostra alla Fondazione Adolfo Pini per Art Week 2019

Written by Marco Scotti il 4 April 2019
Aggiornato il 10 June 2019

Place of residence

Città del Messico

Attività

Artista

Gli spazi ottocenteschi della Fondazione Adolfo Pini sembrano completamente trasfigurati quando incontriamo Carlos Amorales all’interno della sua mostra appena inaugurata, L’ORA DANNATA, a cura di Gabi Scardi. Tra pareti coperte di nere farfalle di carta ed elementi del progetto Life in the folds – dal video alla maquette, passando per un alfabeto di ocarine – disposti tra teche, stanze e pareti, la ricerca di Amorales sembra arrivare a una dimensione decisamente universale e contemporanea, cambiando al tempo stesso la percezione del visitatore attraverso una grande, spettacolare e drammatica narrazione. Abbiamo voluto chiedergli alcune cose sui suoi progetti e sulle sue esperienze, dal Messico alla Biennale di Venezia, passando per l’Olanda.

Come prima domanda vorrei chiederti come hai pensato e progettato questa mostra alla Fondazione Adolfo Pini, come hai lavorato insieme al tuo studio.

Il luogo ha un’identità molto forte, era la casa di un pittore, penso che si possa ancora sentire la sua presenza. La sfida più grande quindi è stata quella di integrare il mio lavoro nella casa, vivendola e cercando di fare in modo che si fondano. Questo non è un luogo dove si possano inserire cose in modo astratto, separate da tutto il resto, dai quadri, dall’arredamento.
Così la prima idea è stata quella di proporre l’installazione Black Cloud, perché è un lavoro che si adatta a qualsiasi architettura, a ogni spazio. Era un ottimo modo di prendersi lo spazio e al tempo stesso di creare un’atmosfera. Da qui abbiamo iniziato a pensare di integrare una proposta della curatrice, Gabi Scardi: esporre il lavoro che avevamo presentato due anni fa a Venezia, per il padiglione del Messico all’ultima Biennale. Questo è stato un modo interessante di articolare il discorso e di riflettere al tempo stesso sull’Italia, sull’Europa e su quello che sta succedendo…

Certamente, penso che il tuo lavoro Life in the folds sia oggi profondamente attuale.

Basta pensare al soggetto, una famiglia che lascia il suo villaggio per uno nuovo e viene linciata.
Quello che rende questo lavoro più forte poi sono i suoi diversi significati: l’immigrazione, l’invasione, tutti questi temi sono connessi.

Anche Black Cloud, la nuvola di farfalle nere di carta che ha invaso le pareti della Fondazione Pini, era già stata esposta altre volte, giusto? Aveva assunto anche differenti significati a seconda del contesto?

Sì, se la installi in un classico spazio espositivo si adatta al white cube, così come se posta in una chiesa segue lo spazio. Cambia molto, ad esempio l’avevo portata anche a Roma nel 2010 a Palazzo delle Esposizioni…

Ti segue come uno sciame insomma… Tornando alla mostra, mi piacerebbe chiederti anche come hai lavorato per realizzare segni, alfabeti e soluzione grafiche. Immagino sia anche un lavoro che porti avanti quotidianamente all’interno del tuo studio e con un team di persone.

Sì certamente, è una riflessione che muove dalla scrittura, da come si racconta una storia, da come si “scrive” in arte o da come combini le arti visive – pittura, disegni – con dei testi.
Inoltre io lavoro in un modo molto “grafico”: per molto tempo sono stato interessato alla realizzazione di linguaggi illeggibili, qualcosa che sembri un testo ma che tu non puoi leggere. Qui puoi vedere che manca qualcosa, puoi vederne la struttura e pensare che magari contiene qualcosa di politico, o forse no, puoi pensare che sia un quotidiano oppure una poesia. È così che ho iniziato a sviluppare il lavoro per la Biennale veneziana, ho iniziato con forme molto semplici ricavate tagliando la carta e le ho trasformate in questa sorta di alfabeto astratto e illeggibile. A partire da questo poi ho realizzato degli strumenti musicali, in modo che l’alfabeto avesse un suono.

Questi strumenti sono le ocarine in mostra anche qui alla Fondazione Pini, giusto?

Esattamente, e dopo queste poi sono venuti i personaggi per la maquette. È stato uno sviluppo molto formale, come un esercizio di trasfigurazione, ma la cosa interessante è come si possa partire da qualcosa di molto astratto e arrivare a qualcosa di figurativo, costruire una narrativa e raccontare una storia, anche se non è leggibile. Riguarda lo spingere le forme a significare qualcosa, il dargli un significato.
È faticoso, le persone spesso pensano che l’arte astratta non abbia nessun messaggio politico, che sia solo pura forma. Ma penso sia molto interessante portare queste forme fino al limite per raccontare una storia che riguarda le migrazioni, che parla di xenofobia.

È interessante, penso che tu abbia fatto qualcosa di simile nel tuo lavoro con le strutture dell’arte concettuale, intesa in senso storico. Non credo sia possibile definire la tua produzione strettamente concettuale, ma al tempo stesso ti sei appropriato e hai lavorato su precise strategie. Immagino ci sia molto studio dietro a tutto questo.

Certo, sono interessato alla ricerca, e da quando ho iniziato a essere interessato ai linguaggi illeggibili ho scoperto molti artisti e molti lavori. Ovviamente molto viene dall’antichità, come delle tracce.

Quali sono per te i modelli e i riferimenti?

Sono tanti! Sicuramente alcuni vengono dal cinema, ad esempio Il nastro bianco di Michael Haneke. Ho trovato quel film particolarmente interessante: ovviamente parla della Germania negli anni Trenta, prima della guerra, ma anche di come questo piccolo segnale nella società inizi a diventare lentamente un problema.
Ho in testa tanti film, Il gabinetto del dottor Caligari ad esempio. Mi piace molto il cinema, e la mia ispirazione spesso viene da li. Qui nelle farfalle ad esempio potresti vedere Gli uccelli di Hitchcock…

Perché no?

Raccontare una storia, narrare, mi interessa molto.

Vorrei chederti anche come hai vissuto l’idea di rappresentare il tuo paese con un padiglione alla Biennale.

Penso che a Venezia fosse la sfida principale: anche se pensi “vado e faccio semplicemente il mio lavoro” ovviamente hai tanta pressione addosso. Ma in un certo senso non puoi rimanere solo critico: in Messico abbiamo una situazione difficile e complessa e si deve trovare un modo per comprenderla, o per astrarla. Non volevo essere ovvio, e ovviamente quando progetti un padiglione devi avere a che fare con il governo. Così è stata messa in atto anche questa strategia: partire da qualcosa si astratto che lentamente cambia, cambia, cambia e diventa una storia.
La storia che avevo scelto era quella di un linciaggio, un dramma in se stesso di cui abbiamo diversi casi nella storia, ma anche un momento in cui lo stato non è più attivo ed è il paese, o la gente che si fa “giustizia”. E giustizia lo dico volutamente tra virgolette.
È esattamente il momento in cui lo stato non funziona, e per me la cosa interessante era mostrare esattamente quella storia in un padiglione nazionale. Sono dovuto stare molto attento, valutare le strategie, doveva essere un’operazione sottile: non solo rappresentare il mio paese ma trovare il modo di fare critica.

Vivi ancora in Messico, giusto? C’è una relazione profonda con il tuo paese?

Sì, esatto. Sono stato diversi anni in Olanda e ho lasciato il mio paese per circa quindici anni, ma vivo ancora li.

Nel tuo lavoro affronti spesso anche i mezzi e i sistemi della comunicazione. Sei interessato a modelli contemporanei come i social network?

Sì, molto. Rifletto molto su quello che vedo, su come comprendo il mondo contemporaneo, e una delle cose che vedo succedere è questa overdose di notizie, storie, spiegazioni, confusione e opinioni. Così tante cose che alla fine diventano quasi silenziose, non comunicano.
Quando faccio cose come astrarre un linguaggio, rendere un linguaggio illeggibile, quello è il momento in cui inizi a pensarci, a trovare forse spazi vuoti.

Ci sono altri tuoi lavori dove hai lavorato in questo modo?

Tre anni fa ho deciso di portare la mia tipografia astratta in un’istituzione, per tre mesi. Dovevano sostituire qualunque cosa fosse scritta – le spiegazioni, i segnali di uscita, i cartelli per il wi-fi – in modo che ogni forma di comunicazione fosse astratta. È stato molto divertente, abbiamo dovuto procedere gradualmente, ma in due settimane tutto era completamente illeggibile e tutto comunque funzionava!
Le persone arrivavano, a volte facevano domande, ma quello che mi interessava era creare questi spazi di illegibilità o di non-comunicazione, senza messaggi ma che comunque continuavano a funzionare.
Penso sia interessante anche rispetto a quanto sta succedendo ora, con Twitter ad esempio e tutte le informazioni che riceviamo.

Quando lavori come studio artist, quali sono le tue modalità? Hai uno studio abbastanza grande oggi.

Non è così grande poi, non ci sono centinaia di persone che ci lavorano…

Grande in effetti è un concetto relativo.

Ci sono due cose che mi piacciono molto fare: scrivere e disegnare. È un qualcosa che faccio più privatamente e per cui ogni giorno cerco di ritagliarmi del tempo, rimanendo molto concentrato.
Un’altra modalità per me è il parlare, tenere conversazioni, sia con le persone del mio studio che con gli ospiti. Mi piace particolarmente quando sono persone diverse, non solo artisti o curatori: ad esempio l’anno scorso ho invitato spesso giornalisti, per parlare di politica, di quello che sta succedendo. La cosa interessante è che inizi ad aprirti, a capire pensando oltre l’arte. E per un artista è importante, noi viviamo spesso all’interno del nostro mondo.
Mi piace questa idea dello studio, ho un tavolo apposta per le conversazioni.

E per quanto riguarda la realizzazione dei tuoi lavori?

Ovviamente c’è tutta una parte del lavoro legata alle produzioni, quando c’è una mostra ad esempio. Ma lo studio per me non è più un luogo di produzione, preferisco lavorare in altri luoghi.

Un altro tema che mi interessa molto nel tuo lavoro è l’archivio. Mi piacerebbe indagare con te la relazione tra il tuo archivio personale e come l’archivio entra nel tuo lavoro, come strumento.

Ho due archivi nel mio studio. Uno contiene tutte le pubblicazioni, gli inviti alle mostre, è l’archivio storico. Provo a conservare tutto quello che riesco. Poi c’è un archivio di immagini, principalmente digitale, che non è time-based e possiamo usare quotidianamente. Ad esempio i file digitali per realizzare le farfalle sono in questo archivio: funziona più come una biblioteca, puoi consultare i materiali ma anche fare qualcosa di nuovo, condividerli.
La cosa interessante per entrambi è che in un certo senso rappresentano una storia del lavoro, di cosa è stato fatto e di come si è sviluppato, e quindi portano con se un significato, e al tempo stesso sono anche risorse. Ad esempio quando non hai immaginazione e non so cosa fare… Posso sempre guardare qualcosa!

Ci sono anche diversi tuoi lavori che sono connessi all’idea stessa di archivio, di conservare una memoria.

Prima di diventare un artista volevo essere studiare storia! Forse è questo, inconsciamente mi interessa lasciare tracce.
Inoltre penso molto all’archivio, al digitale, a come si condividono le informazioni, al concetto di open source. L’immagine non ti appartiene, può essere copiata e modificata, ad esempio come succede con i meme. A volte si può pensare sia solo una cosa teorica, ma poi un’immagine viene ripetuta, riportata sui vestiti, diventa in qualche modo parte della cultura popolare. Solo archiviando puoi seguire tutto questo, ricostruire le storie. Quella delle farfalle presenti in questa mostra ad esempio.

Gli strumenti del graphic design poi sono parte del tuo lavoro.

Penso derivi dall’aver studiato in Olanda. Il modo di costruire un’immagine, oppure l’idea stessa di rendere un’immagine più semplice, di pensare a come comunichi con questa immagine, penso sia stata molto influenzata da questo.
Inoltre l’approccio quando ho costituito il mio studio non è stato quello classico da artista, ma piuttosto legato al graphic design. A quel tempo lavoravo per alcune etichette discografiche per realizzare copertine di dischi, flyer, poster, quindi potevo usare la grafica senza vergognarmi! Perché a volte in arte graphic design sembra quasi un insulto…

Per me è esattamente l’opposto!

Anche per me. Poi è un ottimo modo di socializzare un’immagine, e penso sia molto importante.
Nel mio caso le immagini non riguardano la mia identità, il mio stile, la riconoscibilità. Anche se poi forse uno stile piano piano inizia ad apparire.
Mi piace particolarmente come un’immagine possa diventare parte della società e avere una vita propria.
Gli strumenti poi sono importanti per pensare in modo più grafico. Io non penso come un pittore, o uno scultore.

Come ultima domanda, vorrei chiederti se hai un progetto mai realizzato.

È strano, non ho un’idea di solito di come un lavoro debba essere a priori, tendo ad adeguarmi alla situazione. Non c’è un’idea in senso modernista. Poi ovviamente mi capita di lavorare su dei film, e produrli è davvero complesso. Sono arrivato a produrre un mediometraggio, ma ancora non un lungometraggio. Spero di riuscirci, è una sfida.

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2019-04-16