Giacomo Sarasso è il gestore del chiosco in piazzale Corvetto. Quando siamo arrivati, sul tetto del chioschetto all’incrocio con via Polesine, mancava l’insegna “Al Chiosco da Giacomo. Birre artigianali”, che di solito guida lo sguardo degli avventori. Nell’ora di chiacchiere, sono passati un po’ di amici, abbiamo parlato di fratture, di ferite e del prendersi cura. Prima di salutarci Giacomo ci ha promesso che l’insegna tornerà presto al suo posto.
Cominciamo dal perché un piemontese di Vercelli ha deciso di aprire un chiosco nella periferia di Milano?
Avevo a lungo lavorato in ambito commerciale e da diverso tempo riflettevo sulla possibilità di cambiare vita. Poi tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 ho maturato sempre più l’idea di farlo realmente. Per un anno e mezzo sono venuto a Milano quasi tutti i giorni, avevo in mente di aprire un chiosco e nel mio immaginario doveva essere al centro di un’area pubblica spaziosa, dove le persone potessero incontrarsi all’aria aperta. Ho attraversato Milano in lungo e in largo, l’ho toccata con mano, sono stato testimone dei suoi cambiamenti, ho visto la Milano dei turisti e quella delle periferie. Quando sono arrivato qui ho capito che era esattamente quello che stavo cercando: ero in un momento della vita in cui sentivo la necessità di prendermi cura di certe mie antiche ferite, trascurate nel corso degli anni e qui, allo stesso modo, serviva qualcuno avesse voglia di prendersi cura del luogo, anche lui ferito e abbandonato da troppo tempo. Lo spazio esterno in qualche modo mostrava le stesse difficoltà ed esigenze che io percepivo nel mio spazio interno.
E com’è stata l’accoglienza del quartiere?
Nei mesi precedenti l’acquisto avevo partecipato a diverse riunioni di associazioni del terzo settore che operano qui a Corvetto, come il Laboratorio di Quartiere Mazzini o Rete Corvetto e mi ero sentito a casa. È stata quell’atmosfera accogliente a convincermi che, dopo mesi di affannosa ricerca, tra caldo estivo e gelo invernale, avevo trovato finalmente il posto giusto. Una volta arrivato, la reazione degli abitanti è stata piuttosto sorpresa, non tanto quella delle persone comuni, quanto quella degli operatori sociali e dei volontari, che da tempo cercavano modi per portare un po’ di bellezza nel quartiere.
Questo chiosco in effetti è già di per sé molto bello, in quali altri modi hai cercato di cambiare un po’ il volto di questa piazza?
Siccome questa per me non aveva per nulla l’aria di una piazza, ho pensato a cosa avrebbe potuto renderla tale e dopo circa un anno, sono riuscito a stringere un patto formale col comune di Milano. Abbiamo chiamato il progetto Azzaip. Questa non è una piazza e con l’aiuto dell’amministrazione abbiamo piantato un albero e dipinto foglie colorate per terra, elementi che rendevano questo spazio adatto all’incontro. Quell’albero è stato senz’altro di buon auspicio: il 2019 è stato un anno incredibile, ogni due giorni il chiosco si riempiva di persone per leggere poesie, racconti per bambini, dipingere, fare lezioni di Tai-Chi, scambiarsi libri, tutto grazie all’apporto volontario delle persone. Questo è quello che credo dovrebbe verificarsi in una piazza.
Secondo tante delle persone culturalmente attive nel quartiere, qui è più facile portare gente da fuori che trattenere gli abitanti della zona, tu cosa ne pensi?
Quando sono arrivato, non conoscevo praticamente nessuno a Milano, quindi era più facile suscitare un po’ di curiosità in chi passava qui davanti tutti i giorni, piuttosto che attrarre persone da altre zone e in ogni caso, non avendo in mente le facce, non avrei nemmeno saputo distinguere local e non. Oggi, dopo cinque anni però, posso dire che sono d’accordo. Corvetto è un quartiere che soffre una profonda frattura: da un lato c’è una percentuale molto alta di persone afflitte da problemi realmente di natura esistenziale, che sono di fatto le assegnatarie del grosso lotto di case popolari, oltre 2.300 unità; e poi ci sono gli abitanti storici del quartiere, quelli che qui sono nati e cresciuti e che hanno alle spalle decenni di vita in questa zona. Il punto è che la vita pubblica del quartiere è fortemente connotata dalla prima delle due categorie, che per varie ragioni costituisce un disincentivo per l’altra fetta di cittadini a restare e vivere attivamene il quartiere.
Il Chiosco da Giacomo come si inserisce in questa frattura?
generazione degli abitanti del quartiere e questo ci permette di sperare ancora di poter migliorare questo luogo. Comprendo la rassegnazione di chi abita qui da tempo e ha vissuto situazioni spiacevoli, dovendo subire i soprusi di una microcriminalità che porta all’esasperazione. E questo posto, che non soffre il logoramento di chi è qui da anni, si pone un po’ come avamposto per costruire il futuro e pur senza avere direttamente la pretesa di ricucire le ferite di lunga data, vorrebbe dare un contributo, anche piccolo, per provare a sanare le fratture fra abitanti e fra abitanti e territorio. Proviamo allora a farlo insieme, con Marco, che vedi ora qui appoggiato al bancone, Paolo, Emanuele, Rosa e tanti altri che con la loro presenza dimostrano che può esserci un altro modo di vivere il quartiere, per noi che ci abitiamo, ci lavoriamo, lo attraversiamo tutti i giorni.
Uno dei tuoi ultimi progetti si chiama Rosa Urbano, che cos’é?
È il progetto co-finanziato grazie ai fondi stanziati dall’Unione Europea per rispondere agli effetti della pandemia, che mi ha permesso di rinnovare la struttura del chiosco. Sono molto affezionato al nome che ho scelto per il progetto: Rosa è il nome di una persona che per me ha fatto molto da quando ho iniziato l’avventura del chiosco e che ho cercato così di ringraziare. E poi il termine urbano, che oltre a riferirsi generalmente alla città, rimanda a un comportamento gentile e cortese, proprio dei rapporti umani e sociali per come dovrebbero svilupparsi nel contesto cittadino, più o meno l’idea che ho rispetto a quello che dovrebbe accadere qui.