Mariachi, bandiere, astrofisica e OGM. La resistenza partigiana e quella meccanica. Due curatrici dai nomi sovrannaturali: Helga Franza e Silvia Hell, che mi conducono in una passeggiata di iper-osservazione cosmica attraverso sentieri astrali inaspettati. E lo fanno grazie a Cose Cosmiche, piattaforma di ricerca, produzione e collisione di idee che dal 2011 ridefinisce il significato di decrescita felice con un programma di residenze insensate in cui artisti, scienziati e ricercatori provenienti da varie discipline si scontrano e incontrano su tematiche come spazio, tempo, energia, vuoto.
«L’ironia dello spostamento, il creare il gap che ti permette di vedere il vuoto che sta in mezzo.»
Ciao Silvia, ciao Helga. Dove si colloca nello spazio Cose Cosmiche?
Gestiamo uno spazio in via Aleardi 11 ma Cose Cosmiche nasce in realtà come sede nomade che, per adesso, ha sede lì. Abbiamo anche un archivio, l’archivio del sublime, un progetto in perenne divenire che raccoglie quaderni di appunti di autori di diverse discipline. L’archivio è ispirato all’utopia del “Sublime” Parigino del 1870 e a un’attitudine di decrescita, rallentamento e condivisione delle idee.
Vi ho conosciute per caso. Un giorno passeggiando mi sono imbattuta in un microcosmo congelato nel tempo popolato di mariachi e bandiere, la residenza di Cecile Hjelvik Andersen. Perché e come nato il vostro onirico progetto multiforme?
Cose Cosmiche è stato il primo nome che (non) ci siamo date in realtà, in quanto si trattava di un’iniziativa precisa: un workshop che coinvolgeva artisti e astrofisici che svisceravano le loro ricerche. La ricerca artistica non è dissimile da quella scientifica nei processi e nei metodi, quindi ci siamo dette: mettiamoli a dialogare, mettiamo in risonanza le loro indagini. Più di 60 tra artisti, musicisti, astrofisici, fisici delle particelle, filosofi, esperti di geopolitica hanno condiviso le loro scoperte più recenti e riflessioni sull’immaginario condiviso di tempo e spazio.
Ed è anche una citazione di Cosmic Things dei B52 (!) quindi abbiamo scelto questo nome per il workshop che poi abbiamo anche adottato per il collettivo cambiando modalità d’azione.
Vi conoscevate già? Come siete nate come duo?
Ci conoscevamo già, ma da poco. Parlando, abbiamo scoperto di avere interessi comuni ben oltre l’arte, tra cui argomenti e libri relativi alla ricerca, la fisica e l’astrofisica. Comincia quando Silvia vede un disegno di Helga su un muro: da quello abbiamo iniziato questo scambio. Alla domanda “mi piace questo, cos’è?”, Helga rispose: un buco nero.
Mi avete fatto pensare subito alla patafisica di Alfred Jarry, la scienza delle soluzioni immaginarie: trovare soluzioni metafisiche a problemi impossibili.
La fisica è già così! Va oltre… noi siamo molto appassionate e interessate alla fisica e ci siamo fatte una cultura diretta grazie a queste persone che dal 2011 ad oggi hanno contribuito a radicare queste tematiche nel nostro personale tessuto culturale.
Come Cosmic Air per Rubriche d’aria?
Sì, siamo state invitate a prendere parte al podcast Rubriche d’Aria di Carico Massimo, una raccolta di voci, suoni, dissertazioni sull’aria. Abbiamo deciso di non lavorare su materiali ex-novo bensì di pescare nel nostro grande archivio perché spesso capita di produrre tanto materiale e poi riscoprirlo e riscoprirsi tramite esso. Abbiamo messo assieme le voci ritrovate (tratte dalle conferenze-passeggiando, percorsi conferenze collettive e gli “antidoti sul futuro”) individuando un fil rouge tra i concetti di aria come spazio invisibile e come ambiente di indagine, come vuoto abitato.
Abbiamo anche unito alcune parti delle conferenze passeggiando tratte dagli archivi della Resistenza. Una riflessione su tutto quello che è il nostro spazio vitale, l’aria come visione dall’alto dello spazio di cui necessitiamo per vivere ed esistere. La vita come significato oltre a farsi trasportare in una materia, al fluido, al gas: il respiro rispetto alla storia ed al modo in cui vivi. La parola resistenza si usa molto anche in fisica, c’era quindi una ulteriore associazione, parlando di come si guardavano le cose nei momenti di liberazione dei territori.
In che modo influisce e vi sopporta la Fondazione Arthur Cravan?
La Fondazione è un sogno. Dal 1997 aiuta e produce la produzione di progetti che hanno caratteristiche di respiro e apertura oltre all’ambito commerciale. Abbiamo all’attivo due residenze in corso saltate durante la pandemia. A metà settembre, Chthululab, un laboratorio tecnopolitico che si ispira alle tesi di Donna Haraway e Gruppo Ippolita, un gruppo di ricerca e formazione “indisciplinare” presenteranno la restituzione di una prima parte di residenza realizzata lo scorso novembre, incentrata su progetti sulla “indecidibilità che si fa spazio”. Incontri di riflessione su quanto pensavamo fosse la razionalità e la direzione della tecnologia. L’ambito di riflessione è stato quello dell’indefinibilità assolutamente non contemplata e imprevista dei risvolti inaspettati della tecnologia. Una full-immersion di dialoghi e discussioni di quanto emerso e digerito.
La residenza “disOriental dreams” del 2019 toccava tematiche molto attinenti al quartiere. Cosa sono gli OGM?
Nella Chinatown milanese orientalmente orientata, un’artista giapponese e un artista francese hanno deciso di rivisitare l’oriente e alcune delle sue tradizioni che possono affascinare e far sognare un occidentale. DisOriental Dreams è un sogno, e per questo lascia libera l’interpretazione e l’immaginazione, permette di confondersi, di non sapere più né il dove, né il come, né il perché. I due artisti invitati hanno creato un calendario di pratiche, discipline di un giapponese e un francese in un contesto cinese. Hanno invitato una maestra di yoga giapponese, uno scultore coreano con cena in tema e gli OGM, Origami Grandi Molli, enormi origami costruiti attraverso pratiche condivise. E poi la passeggiata lentissima: un’ora e mezza da via Aleardi fino all’angolo con via Rosmini. Da una decina di partecipanti ne è sopravvissuta solo una. Una rivisitazione che ci ha permesso in modo muscolare di indagare in maniera distopica un quartiere che viene visto e percepitoC’è stato un vernissage delle opere create con questa identità indossata dal titolo “Lonely Clouds – Domenico Quaranta” diffusa in vari negozi e attività di Paolo Sarpi attraverso il filtro distorto della nostro nozione occidentale di ciò che è orientale.
Anche la residenza di Stefan Klein, “To be somebody else” era strettamente legata all’identità di quartiere. L’obiettivo, la “visione”, di Klein era quello di assumere un’identità diversa ogni giorno, quindi abbiamo chiamato sette curatori che per sette giorni hanno interferito con la sua identità. Il curatore Domenico Quaranta gli ha assegnato l’identità di pittore di skyporn: in pratica doveva dipingere un tramonto al giorno, e tutti firmati come Domenico Quaranta. . E i dipinti sono tutt’ora lì.
[Rido] Questa ironia complessa e leggera è veramente rara.
Già, l’ironia dello spostamento, il creare il gap che ti permette di vedere il vuoto che sta in mezzo. È come lo spostamento d’aria, è come osservare il pianeta Terra dallo Spazio. Il rapporto con ciò che è al di fuori di noi, il nostro reale e l’identità. Non appena cambi punto d’osservazione tutto cambia, e si creano nuove realtà e dimensioni. Per questo il rapporto tra la scienza e l’arte ci interessa così tanto. La fisica crea schemi che ad un certo punto diventano deliranti, diventano altro: come l’arte.
A tal proposito, George. George è la nostra microzine, e il numero zero parla di armi. Nasce nel 2016, è una fanzine tascabile, micro, da infilare in tasca proprio come l’arma che si imbraccia prima di intraprendere la fuga. Il numero zero nasce da un intervento di Antonio Caronia che ai tempi era mancato da poco e ci aveva lasciato uno dei suoi ultimi interventi in cui affrontava proprio questo argomento, la riflessione tra la separazione tra bene e male: lui diceva che è importante “non fare il minestrone”. Abbiamo chiesto a tutti i contributors, (tra cui Alterazioni Video, Franco Berardi Bifo, Heath Bunting, Michele Capararo, Giampaolo Capisani, Massimo Cappi, Antonio Caronia, Gianluca Codeghini, Claudio Corfone, Danilo Correale, Ermanno Cristini, Carlo Dell’Acqua, Gianluca D’Incà Levis, Marta Fernandez Calvo e molti altri) di dirci quale sarebbe stata la loro arma prescelta.
Perché l’immagine dell’arma?
Perché doveva essere qualcosa di “tascabile”, e noi abbiamo pensato alle armi che ti metti in tasca quando scappi durante la rivoluzione. E ci è venuta in mente questa frase di Deleuze “Il rivoluzionario sa che la fuga è rivoluzionaria.” E poi abbiamo scoperto che la citazione era di George Jackson, “È possibile che fugga, ma nel corso della mia fuga cerco un’arma.”. Ed ecco George.