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Cult of Magic

Collettivo di ricerca interdisciplinare, progetto multiforme, live set analog techno e tutte queste cose insieme

Written by Pietro Leonardi il 15 January 2024

RE PENELOPE AT HYPERLOCAL@Marco Valli

Ho scoperto i Cult of Magic alla performance che hanno fatto a Corvetto in occasione dell’ultimo HYPERLOCAL Festival a settembre, dove sono stati ospiti entrambi i giorni con due lavori diversi: quello a cui ho assistito, Re Penelope, è uno spettacolo che parte dalle premesse teoriche della manifestazione Cilena del 2019 del collettivo LASTESIS, per poi estendersi a livello musicale-coreografico, e l’altro, Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia), dove di Ofelia viene analizzata la questione del possesso del corpo, sempre destinato a qualcun altro, paragonando il personaggio alla figura di Cristo per via di questa trappola della predestinazione. Mi ricordo di essere rimasto stupito dalla capacità della performance di inserirsi coerentemente, nonostante i linguaggi molto diversi, dentro il live dei Carl Gari prima e il dj-set di Loefah poi, entrambi musicalmente dissimili.

I membri di questo collettivo atipico sono Francesco Sacco, Samira Cogliandro, Giada Vailati e Luca Pasquino, e nel tempo hanno dato vita a una pratica caleidoscopica in grado di attivare luoghi diversi, adattandosi a contesti molto distanti tra loro. Nati a Milano nel 2017, partono da spunti variegati con riferimenti all’occulto e alla cultura esoterica ma anche al teatro moderno. Tra Shakespeare, suggestioni medievali e psicoanalisi, traducono in musica e performance delle istanze creative eterogenee, che convergono all’interno di esibizioni dal vivo imprevedibili.
Li ho incontrati in un insolitamente tranquillo lunedì mattina milanese per farmi raccontare la loro storia, le ispirazioni e per cercare di capire qualcosa di più dietro al progetto Cult of Magic.

«Succede in quei momenti che consideriamo magici, in cui si allineano le esigenze comuni senza che questo sia premeditato.»



Vorrei partire proprio dall’inizio. Come nasce il progetto Cult of Magic?

Francesco: Io e Luca ci conosciamo da quando eravamo ragazzini e da sempre ci unisce la musica: avevamo una band insieme, che non era legata a Cult of Magic. Dopo vari progetti, ancora prima di approcciare la danza e le arti performative, abbiamo iniziato a immaginare qualcosa di più snello della forma band. Sentivamo il bisogno di collaborare con altre persone provenienti da discipline diverse dalla nostra. Quindi ci siamo buttati sulle prime idee che hanno poi dato vita a Cult of Magic e, il primo lavoro nello specifico, è stato un disco, libero da dinamiche discografiche. È stato un processo molto lento, registrato solo su nastro, che partiva da delle nostre vecchie demo. Io nel frattempo avevo fatto la mia prima direzione musicale per la danza con Susanna Beltrami, una persona che mi ha aperto un mondo. In quell’occasione ho conosciuto Samira, che era nel cast dello spettacolo, e così abbiamo deciso di fare un primo lavoro insieme come Cult of Magic, dal titolo Le Serpent Rouge.

Quali sono state le vostre influenze e come le trasportate all’interno del lavoro collettivo?

Samira: Luca e Francesco, come raccontava prima, vengono dalla musica, mentre io e Giada siamo la parte più legata alla danza. Ogni produzione nasce da un’esigenza creativa che può essere del singolo o di tutti e, a seconda di come poi vorremmo trasporla scenicamente, prende forma il lavoro. Quindi può vedere coinvolti tutti noi, oppure solo una persona o due. L’espressione singola di ciascuno può venire fuori in modi diversi e mutevoli a seconda dei bisogni individuati.

 

Giada: Io pratico la danza da quando sono piccola. Ho frequentato la stessa Accademia che ha frequentato Samira. Da quell’esperienza non mi ero mai immaginata di creare, non pensavo di dare il via a un percorso mio come coreografa e creativa. Dopo aver fatto un master in Biennale con Marie Chouinard, l’esperienza mi ha acceso il desiderio di dare un nuovo input e un nuovo punto di vista sulla mia pratica.

L’impressione che ho avuto è che la vostra sia una pratica che muta spesso forma comprendendo diversi generi, quasi corale. Vorrei capire come nasce questa attitudine. Come gli avete dato forma nel tempo?

Francesco: Capitano dei momenti in cui cogliamo dei flussi comuni. Per me e Luca è stata un certo tipo di elettronica, anche se nessuno di noi viene dalla techno.

 

Luca: A noi piace molto improvvisare: mettiamo una base o un loop, che definiamo techno semplicemente per la presenza della cassa, e ci giochiamo sopra. Abbiamo “ufficializzato” questa pratica durante una performance a Palermo in un decadente palazzo storico, conosciuto in città come sede di grandi feste, promossa tramite una finta carta di Magic raffigurante Santa Rosalia. Era nata come una residenza personale, per stare un po’ tra di noi e vedere cosa ne sarebbe uscito. Alla fine abbiamo affittato un impianto e l’ultimo giorno abbiamo fatto questa festa aspettandoci una decina di persone. Ne sono poi arrivate trecento, e poi è arrivata la polizia (ridono, NdR). Quella è stata la prima volta in cui abbiamo improvvisato una live session analog techno, che adesso è quella che portiamo al Plastic. Le persone sono impazzite perché non c’era un filtro: si era percepita questa cosa per cui i giri armonici e di cassa venivano improvvisati in base a quello che stava succedendo intorno a noi.

Samira: Questo succede in quei momenti che consideriamo magici, in cui si allineano le esigenze comuni senza che questo sia premeditato. Ad esempio, questa sperimentazione sonora è stata perfetta per quello che avevo immaginato per Re Penelope.

Unendo performance e suono si mescolano diversi registri, così come diversi linguaggi e diversi tipi di pubblico. Che rapporto avete con esso in questo senso?

Francesco: In generale sul pubblico riflettiamo molto. Nelle nostre intenzioni iniziali c’è sempre stata la volontà di dialogare con situazioni diverse, proprio come facciamo tra di noi e le nostre discipline, ma siamo consapevoli che non è facile riuscire a restare comprensibili per il pubblico senza rientrare in nessuna categoria riconoscibile. Mi sono ritrovato spesso a riflettere su questa esperienza personale: nel settore della danza contemporanea si lamentano spesso per l’assenza di pubblico. Io, non avendo avuto una formazione legata a quell’ambito, non ho mai frequentato quel genere di eventi, non perché non mi piacesse, ma proprio perché non sapevo dove andare a vedere le cose. Quando in realtà, ibridando i linguaggi, ho scoperto che mi appassiona. L’obiettivo quindi è quello di invertire percorsi già scritti. Entrare in contatto con un pubblico eliminando delle barriere.

 

Luca: Chiaramente hai delle responsabilità in più a fare questo, perché potresti svezzare persone che non hanno mai visto danza contemporanea. E quindi se piace viene accolto bene, ma se magari non piace potresti creare un’ulteriore barriera oltre a quella che già c’è.

 

Francesco: Diversi contesti hanno diversi scopi. È molto importante, ad esempio, da artisti, avere il feedback del club, perché se alle persone non piace escono a fumare, e te ne accorgi subito quando qualcosa non funziona. Il contesto diventa una sorta di test.

Sono d’accordo che sia un lavoro che richiede un certo tipo di responsabilità. È stato qualcosa che c’era già nelle intenzioni iniziali?

Samira: Direi di sì, da subito ci siamo chiesti come attirare il pubblico verso la pratica della performance: come possiamo noi andare dal pubblico e far vedere che c’è anche questo? Era un’idea e per molti lavori trovare la mediazione è stata una cosa immediata e naturale.

 

Francesco: Inoltre dipende tantissimo dal contesto: è stato più facile portare la performance nei club piuttosto che la techno nei teatri. Però ci proviamo. Per me parte dalle domande che mi facevo all’inizio, ovvero perché si fa una determinata cosa. E per farlo bisogna rischiare, bisogna esporsi, e quindi scegliere, nel nostro caso, di portare i linguaggi performativi davanti a un pubblico che non è abituato a viverli e a vederli. Solo così riusciamo a mettere in discussione e capire la direzione del nostro lavoro.

Per voi è molto importante quindi l’esperienza che raccogliete dal vivo e portate poi in fase di creazione?

Francesco: Certo, da ogni esperienza di questo tipo ti porti poi a casa una riflessione e un discorso intorno.

 

Giada: Chiaramente non è che ogni volta rimodelliamo tutto, sicuramente l’esigenza primaria è quella di comunicare quindi è importante che al pubblico arrivi qualcosa quando siamo in scena: quello che temiamo è la sospensione totale verso ciò che si sta guardando e, soprattutto, l’assenza di partecipazione.

Come avviene il confronto dopo?

Samira: A cena. Ci piace sederci insieme a casa bevendo vino, in un contesto molto intimo. Delle “riunioni Cult of Magic” in cui buttiamo sul piatto le idee da cui nascono delle riflessioni.

 

Francesco: Non l’abbiamo detto e non è scontato, ma c’è una forte amicizia tra di noi.

Quali sono degli spazi e contesti che vi piacerebbe approcciare e che fino a ora non avete toccato?

Luca: Mi piace immaginare di portare il nostro lavoro in ville antiche o castelli, magari in luoghi solitamente inaccessibili al pubblico e che vengono aperti apposta per l’evento.

Francesco: Ci piacerebbe creare un filo rosso che connette tutti gli spazi con un grande potenziale ma dimenticati o usati male. Ad esempio per Le Serpent Rouge abbiamo fatto un crowdfunding per attivare il Teatro Burri, che viene aperto solo per Piano City. Ed è un peccato perché è uno spazio incredibile ma fortemente trascurato.

Come progetto siete nati a Milano, però siete andati anche in altre città: come cambia il feedback del pubblico a seconda del luogo?

Francesco: Più che dalla città dipende dai contesti. Ci sono delle regioni d’Italia che hanno circuiti teatrali più sani della Lombardia. Penso ad esempio all’Emilia-Romagna. Oppure le Marche, ad esempio abbiamo portato la performance Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia) a Pesaro. A Milano si arranca un po’ di più su queste cose. Ci sono delle regioni particolarmente virtuose per quanto riguarda le performance teatrali.

E il contesto a Milano in cui avete fatto la performance meglio riuscita?

Samira: Sicuramente quello del Teatro Burri: è stata una soddisfazione perché è stato il nostro primo macro progetto dove è uscito in modo potente l’ibridazione tra performance live e suono.