Tra gli artisti passati dal bell’esperimento del Nuovo Forno del Pane c’era anche Francis Offman, classe 1987, di origini ruandesi. L’arte di Francis è un’astrazione della sua stessa vita e di tutto ciò che ha vissuto: l’Africa e il genocidio le fonti di ispirazione primarie, le persone e tutto ciò che gli sta attorno gli stimoli per raccontare il proprio tempo. Francis vive al Pratello ed è soprattutto lì che il suo lavoro intreccia la comunità e trova fondamento nello scambio, permettendogli di utilizzare nelle sue opere quasi esclusivamente materiali donati. Materiali che hanno una propria storia, fatta di soprattutto di relazioni; materiali che trasportano in un viaggio epico. Come il cemento e il gesso di Bologna che raccontano del suo rapporto con il paesaggio che lo ha accolto così diverso da quello di origine. O il caffè, che prima di arrivare a noi attraversa decine di mani diverse.
“Ogni materiale che passa tra le mani del pittore – come nota Simone Frangi – ci mette di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta, alla sua trasformazione e consumazione”.
Per vedere più da vicino la sua arte, la galleria P420 ha ospitato nel 2022 alcune delle sue opere. Noi, con l’occasione, ne abbiamo approfittato per incontrarlo.
Da quant’è che sei a Bologna?
Dal 2017. Ci sono arrivato sotto consiglio di mio fratello, che me ne aveva parlato bene. All’epoca lavoravo ancora a Milano. Sono venuto a vedere com’era la situazione nel 2016 e mi sorprese tantissimo, quindi decisi che l’anno successivo mi sarei iscritto all’Accademia.
Ho letto che a Milano studiavi Scienze dell’Amministrazione. Un bel salto…
Studiavo Scienze dell’Amministrazione per la motivazione che “l’arte non ti dà da mangiare”. Già lavoravo con la pittura e con l’arte, ma mi ero sempre tenuto a distanza. Perché, figuriamoci, è già difficile lavorare con l’arte per i miei colleghi italiani, immagina per gli stranieri come me che dopo i 18 anni devono rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno dimostrando di avere un’entrata costante. Quindi sì, studiavo amministrazione e lavoravo.
Ma perché Amministrazione?
Perché mio padre lavorava per l’Onu, si occupava di emergenze umanitarie, e da ragazzo lo aiutavo a sistemare alcuni report. Ero, quindi, già molto indirizzato in quel campo. E poi era una materia che mi interessava molto, soprattutto per i suoi intrecci con la politica. Mi stavo chiedendo all’epoca se c’era un modo di sistemare la situazione in Africa ed essendo tutto collegato alle lobby e al management pensai che la strada potesse essere quella giusta.
Ho poi imparato un sacco di cose che mi sono utili anche ora, avendo comunque a che fare, anche nell’arte, con un prodotto. E tuttora continuo a studiare cose che non c’entrano apparentemente nulla con quello che faccio.
Poi cos’è che ti ha fatto prendere la decisione di svoltare?
Sicuramente la situazione a Bologna mi ha stimolato molto. Quando venni a fare un sopralluogo capii che era molto semplice avere un dialogo con i professori, non solo quelli dell’Accademia, ma anche altri prof che si occupano di chimica, biologia, ecc. Era un fattore importante per le mie ricerche sui materiali. Tutta quella disponibilità mi convinse a intraprendere questa “nuova” strada. E poi c’è la questione dell’offerta culturale che qui è molto elevata.
Torniamo un attimo indietro: perché vi trasferiste in Italia?
Siamo arrivati in Italia perché mio padre aveva dei disaccordi con il governo che c’è adesso ed è per questo che non possiamo ancora tornare e che siamo qui da vent’anni. Era intorno al 1998. Io studiavo in Uganda in una scuola privata, lui lavorava per l’Onu ed era sempre in giro, mia madre era l’unica che si trovava in Ruanda, nella nostra città, Kigali. Quando si è capito che lui rischiava la vita in modo serio si è trasferito in Italia. Sperava che le cose cambiassero, ma così non è stato quindi l’abbiamo raggiunto.
Tutti questi spostamenti ti hanno fatto maturare qualche tipo di convinzione?
Sì. Oltre al fatto che non credo molto ai confini, ho capito che la mia vera casa è il mio corpo. È un’idea che forse è stata più una necessità derivante dalla mia storia personale, alle prese con un genocidio, la migrazione, ecc. Ho trovato, diciamo, un’altra unità di misura, la mia unità di misura, che mi potesse permettere di non impazzire.
La tua “seconda” casa a Bologna invece qual è?
Abito al Pratello. L’ho proprio scelto prima di venire qui. Avevo letto cose molto interessanti compreso un libro sui pazzi di Bologna che molto spesso lo citava. Le radio libere, la tv di quartiere…Mi piaceva il fatto fosse a misura d’uomo e che si respirava un’atmosfera più libera rispetto a certe situazioni di Milano. Per il momento dormo in corridoio, perché la mia stanza è diventata il mio studio e non c’è più spazio per nulla.
Qual è il tuo posto preferito del Pratello?
Ho legato molto con il Mutenye, anche per il fatto che il bar all’interno è fatto di un albero particolare che viene dalla mia stessa zona, che è la regione dei grandi laghi in Ruanda. Il nome stesso, Mutenye, è il nome dell’albero. Abito lì di fronte, quindi è stata un’occasione per attaccare bottone con il proprietario. Quando ci siamo messi a parlare di questa cosa lui era entusiasta e mi ha chiesto di portargli la pianta. Prima o poi quando riuscirò a tornare gli ho promesso che lo farò.
Non credi nei confini, però si direbbe, da quello che racconti, che la dimensione ristretta non ti dispiace…
Effettivamente sì, perché mi piace molto la relazione con le persone e poi guardando bene c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. È così anche per l’arte, dove una stessa opera puoi vederla in tanti modi differenti a seconda della luce, del tuo mood, ecc. Tipo quell’opera total black appesa lì…se la guardi bene ci vedrai sempre sfumature diverse in base alla quantità di luce che riceve. È un peccato che spesso questa cosa non succeda con le persone. Ad esempio un africano connotato per il suo colore della pelle o è un pappone o uno spacciatore o un afroamericano perché magari si veste bene.
Ogni cosa è fatta da molti “layers”, solo che spesso comodamente ci calibriamo su un singolo layer e scegliamo di vedere solo quello.
Un po’ come i tuoi collage pieni di “layers”…
Esatto, il collage è una trasposizione dei layer che trovo nella realtà. Quando arrivai in Italia mi dissero “andiamo al parco”. Dopo aver camminato per 15 minuti mi resi conto di aver camminato senza mai toccare la terra, una cosa quasi impossibile in Africa. Mi scioccò la quantità di cemento che ci permette di camminare senza mai sporcare il bordino delle scarpe. Rifletto spesso sulla battuta che si dice qui “bisogna tenere i piedi per terra”: ma quale terra, cosiderato che c’è sempre questo layer che ci separa? È un distacco che probabilmente influisce sul nostro modo di vedere le cose e la Terra stessa. Ed è per questo che la carta che avvolge le scarpe è uno dei materiali che utilizzo spesso. È un modo per raccontare quello che vivo e ho vissuto.
È vero che non acquisti nulla per realizzare le tue opere e che tutto ti viene donato?
Qualcosa acquisto in verità. La colla per esempio la devo acquistare, ma la maggior parte degli altri materiali mi vengono donati e in più devono avere un significato, come la carta delle scarpe appunto. Utilizzare gli scarti, andarli a prendere da chi decide di regalarmeli, mi consente di uscire dal mio studio, di avere uno scambio con i donatori. È una cosa che mi permette di non rimanere nella mia bolla. E poi è un modo per rendere le persone che mi donano delle cose partecipi di quello che faccio. E di condividere conoscenza. Al Mutenye, per dire, ho conosciuto un capo cantiere che mi ha introdotto alcune caratteristiche del cemento e da quel momento ho iniziato a utilizzarlo.
Poi c’è il caffè, altro materiale che ritorna spesso nelle tue opere…
Sì perché ha una storia. L’Italia è famosa per avere inventato una miscela di caffè e il caffè che compriamo al supermercato è un mix di caffè da tutto il mondo. Una specie di mappamondo. Mettere da parte e utilizzare i fondi del caffè mi permette di instaurare una sorta di dialogo con tutte le persone che l’hanno coltivato e lavorato, assaggiato, trasportato, ecc. Il caffè che uso ha già una storia, un lungo viaggio epico.
Ragionando su tutto questo, ho cercato di studiarlo meglio: l’ho guardato al microscopio ed è un po’ come la pietra pomice, pieno di buchi in grado di assorbire bene. Da lì, aiutandomi con la chimica e i consigli di alcuni professori, ne ho perfezionato l’uso.
Chi sono gli artisti che ti ispirano maggiormente?
Mi piace molto Mark Bradford, un artista americano. Mi piace il suo modo di lavorare, fatto di relazione con le persone. È un artista che crea nel suo studio, ma allo stesso tempo è legato al resto della comunità.
Un altro è David Hammons, che è sempre stato molto costante nel suo lavoro fregandosene dell’hype e di quello che magari poteva richiedere il sistema dell’arte. Lui dice “sono i musei che hanno bisogno di me, non io di loro”. Prende sul serio la questione dell’essere un artista.
Di entrambi mi piacciono chiaramente i lavori, ma soprattutto il loro modo di essere, come vivono, il loro carattere, ciò che li ha portati a fare quello che fanno.
C’è qualcos’altro che ti ispira?
Come ho già detto, soprattutto le persone. E poi guardo un sacco di film, soprattutto in streaming. Sono avido di film, anche se non vado al cinema da tanto tempo e so che è sbagliato. Guardo anche un sacco di roba su instagram, lì c’è davvero pane per i miei denti. E lavoro molto con il jazz, ascoltando le radio, tipo Life Gate International, SOMA FM, dove la musica gira a ruota.
Ci sono delle tue opere alle quali sei particolarmente affezionato?
Sì. La cosa bella è che ogni tanto tiro fuori qualcosa che magari era rimasta sepolta e mi dico “wow, bella questa!”. Succede sicuramente qualcosa nel mio subconscio, dove dopo aver creato un’opera, quella poi si stratifica e crea nuovi significati anche dentro di me. Se dovessi indicartene ora una ti direi un paio di lavori che ho completato durante la nascita del Black Lives Matter. Lì ho usato il cemento, dopo aver visto la faccia di George Floyd a contatto con il cemento stesso. È il mio modo per raccontare il tempo in cui viviamo.