È stato quando mi è atterrata sulla guancia destra una goccia d’acqua – risputata fuori da uno dei performer che si esibivano in una sala della periferia di Toronto – il momento in cui mi sono chiesta: “ma esattamente… perché?”. Non vorrei essere fraintesa: reputo sempre interessante assistere a una manifestazione artistica, ma qualche volta mi risulta di difficile interpretazione e nella mia testa si susseguono vari quesiti tra cui: perché ho deciso di vedere ciò che sto vedendo? Chi ha selezionato questa performance? Sono io che non capisco? Siamo ormai tutti dei radical chic?
Le forme espressive sono sempre più sfumate, tanto che coloro che si ritrovano a rivestire il ruolo di direttori artistici hanno davanti una sfida che intreccia cultura, politica, società, talvolta moda (leggete “bandi”) e, infine, budget. Inoltre, la lotta più grande è non solo quella per districarsi nel grande mare delle proposte artistiche, ma anche per dare effettivamente una visione, uno scopo e un’opportunità al grande numero di chi fa arte per vivere e sopravvivere, i cui effetti si riverberano poi nel pubblico. Una responsabilità non da poco. Da dove si comincia a scegliere gli artisti e i loro lavori? Qual è la finalità di coloro che si dedicano professionalmente alla fruizione e alla promozione dell’arte?
Afflitta da questi amletici dubbi, lo scorso novembre ho avuto modo di parlarne con Elena Mattioli, Federica Amatuccio e Andrea Gianessi del direttivo del DAS – Dispositivo Arti Sperimentali – ex deposito comunale di bare, ora spazio polifunzionale, centro di ricerca e produzione artistica nel cuore di Bologna, “gestito da un’unica associazione che riunisce operatorə culturali e professionistə di vari ambiti artistici e formativi” – e membri del team curatoriale della rassegna Collagene, alla sua quarta edizione, che ricerca i nuovi linguaggi contemporanei tramite un percorso di residenze artistiche.
La seconda parte della quarta edizione della rassegna Collagene si svolgerà dal 14 febbraio al 17 maggio 2025. Le serate di restituzione al pubblico sono previste: il 14 e il 28 febbraio, il 14 e il 28 marzo, l’11 aprile, il 2 e il 17 maggio. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito del DAS.
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Partiamo con un breve excursus sulla nascita del DAS e di Collagene.
Elena: Il DAS ci è stato assegnato nel 2018, attraverso una call pubblica rivolta ad associazioni culturali e artistiche del territorio. Abbiamo dato il via a un percorso di riqualificazione, immaginandoci un luogo dove poter svolgere attività appartenenti alle diverse discipline artistiche di cui ciascun membro del direttivo si occupa. Ad esempio, Federica e Andrea sono anche i direttori artistici di Diade, che prima era il Teatro dei Servi Disobbedienti. Insieme a Flavio Perazzini faccio parte di Lele Marcojanni e ci occupiamo di narrazione audiovisiva. Ci sono altri membri del direttivo che hanno a che fare con arti decorative come Roberta Cacciatore e Laure Jeandet, ceramiste; Eugenia Galli del collettivo di poesia performativa e multimediale zoopalco; il fotografo Carlo Sgarzi; Fabio Leonetti che si occupa della parte socioculturale e di formazione. Il direttivo è il risultato di un processo che si è innescato nel 2018, per poi confluire all’interno di un’unica associazione. La nostra attività principale, in questo momento, è Collagene, con cui cerchiamo di essere il collettore di diverse comunità artistiche della città. Allo stesso tempo, cerchiamo di mettere insieme diversi segmenti di pubblico e di creare relazioni dentro e fuori il territorio cittadino. Cerchiamo di fare anche raccolta e raccordo di ciò che intercettiamo e pensiamo puntuale rispetto al panorama del contemporaneo.
Federica: Collagene è una rassegna multidisciplinare che si svolge nell’arco di tutta la stagione. È divisa in due momenti con due call pubbliche. Quindi gli artisti e le artiste vengono selezionati attraverso una call pubblica con due uscite: una in estate e una in autunno. Nella prima call selezioniamo gli artisti di dell’autunno-inverno, nella seconda selezioniamo quelli dell’inverno-primavera. Collagene nasce da una necessità molto grande: quella di poter sperimentare il proprio percorso creativo. L’obiettivo è quello di concedere agli artisti uno spazio come il nostro, che sicuramente è uno spazio molto particolare, essendo molto grande e attrezzato. Lo abbiamo ristrutturato proprio perché potesse essere uno strumento utile a chi viene da noi a realizzare i propri lavori.
Collagene si svolge a settimane alterne, in cui noi offriamo agli artisti una residenza di cinque giorni, che diventano un periodo di condivisione con gli altri gruppi selezionati. Durante la settimana ci sono più artisti nello spazio, a seconda degli accostamenti che sentiamo di fare. Il venerdì ci sono le aperture pubbliche e gli artisti possono presentare il loro lavoro nella forma decisa da loro. Noi non mettiamo paletti. Le serate di restituzione si svolgono quasi come un micro-festival, in cui accadono più cose contemporaneamente: si può assistere a performance, installazioni di arte visiva e multimediali, concerti…
Gli artisti si ritrovano a provare nello stesso spazio contemporaneamente?
F: Non esattamente. Il DAS è molto grande, quindi noi tendenzialmente assegniamo un’area a un artista, però alcune volte è capitato che durante la rassegna alcuni la condividessero. Di solito si tratta dell’open-space, lo spazio più grande che dedichiamo al performativo, quindi a tutti i lavori di danza, di teatro o multidisciplinari, che poi prevedono una restituzione pubblica dal vivo. È difficile incasellare i progetti che selezioniamo in delle discipline così restrittive, perché noi stiamo lavorando per fare in modo che queste definizioni vengano un po’ oltrepassate e si possa veramente parlare di contaminazione, di ibridazione, multidisciplinarietà. Per noi sono parole che hanno un peso.
Andrea: Vorrei aggiungere una cosa: come DAS ci vorremmo porre come da asse, come collagene, appunto, e anello di congiunzione tra quello che è l’inizio di una ricerca embrionale e quello che poi sarà lo sviluppo professionale di quella ricerca. Vorremmo essere quello spazio dove l’incubazione possa avvenire. Uno dei nostri obiettivi è portare i lavori verso un mondo magari più istituzionale, che però non è quello nostro. Noi siamo una fase di transizione e ci piace l’idea che questa cosa sia una facilitazione che noi diamo agli artisti, mettendo in pratica delle cose, con la possibilità anche di sbagliare, di fare delle ricerche e di presentarle al pubblico e agli operatori.
Quanto era urgente uno spazio così? Esistono tanti vani di residenza e può diventare stressante per un artista o una compagnia dover prendere parte a così tanti bandi.
A: Chiaramente ci sono molti ambiti diversi e quindi le esigenze sono diverse. Federica e io intercettiamo quelle più performative, però, essendo il DAS composto da tante realtà e tanti artisti che provengono da campi diversi, recepiamo le difficoltà che tutti gli artisti hanno in questo momento e cerchiamo di abbattere parte di questi limiti e di facilitarli. Non mettiamo limiti di età, per esempio. Non mettiamo neanche limiti di definizione di genere in nessun senso: artistico, umano, esistenziale… Queste sono tutte barriere che cerchiamo di abbattere.
E: Oltre al tema dell’urgenza, c’è anche il tema della solitudine. C’è un fortissimo bisogno di comunità e di collettività. A causa di questioni strutturali, anche economiche si è portati a una competitività che sicuramente non è nutriente per lo sviluppo dei lavori. La cosa che noi facciamo a DAS, che ci piace anche molto, è mettere in collegamento artisti e artiste tra di loro. Durante la settimana sono seguiti dal direttivo di DAS, composto per la maggior parte di artiste, artisti, operatori e operatrici culturali. Cerchiamo di esserci il più possibile, compatibilmente con i nostri impegni. Non vogliamo essere semplicemente uno spazio di passaggio, ma uno spazio dove in un futuro si può stare, si può tornare, si può proporre qualcos’altro, si può far partire un dialogo.
Questo spazio di collettività, che voi state creando, si sta in qualche modo configurando anche come un network tra i vari artisti?
E: Il tema del network è stato spesso declinato come una sorta di marketing di sé stessi: devi fare sempre con lo scopo di arrivare a un contatto, a una possibilità o qualcosa di questo tipo. Quindi è come se fosse stato depotenziato della sua necessità primaria: quella anche solo di confrontarsi rispetto a ciò che si vede, ciò che si fa e sulla progressione dei propri lavori. Come diceva Andrea, vorremmo creare una rete un po’ più indipendente, che aiuti e faciliti i lavori di Collagene.
F: Vorrei aggiungere una cosa, rispetto proprio a questa solitudine. Io, in questi anni di gestione del DAS e di curatela di Collagene, insieme a tutto il direttivo, mi sono resa conto che molto spesso le artiste e gli artisti che vogliono partecipare sono in difficoltà perché non riescono a trovare dei collaboratori che possano arricchire il loro progetto, o semplicemente aiutarli per farlo diventare tridimensionale, reale e farlo emergere. Questa cosa è dovuta, credo, proprio perché stiamo vivendo un momento artistico in cui l’individualità è messa al centro. Non tanto perché ci si senta il più figo la più figa dell’universo, ma perché siamo costretti a questo. Le risorse sono pochissime, gli spazi non sono adeguati a ospitare più di una o due persone. Soprattutto si cerca sempre di dividerli e secondo me la divisione, paradossalmente, viene creata dal fatto che la maggior parte dei bandi ha delle tematiche fisse, delle indicazioni che rendono sterile il lavoro degli artisti e delle artiste che invece hanno delle urgenze tutte diverse, anche se poi, chiaramente, vivendo nel contemporaneo, nella vita vera si accomunano, si creano delle linee di pensiero, degli archi tematici che noi accogliamo con grandissimo piacere, ma che non imponiamo. Da noi la riflessione avviene una volta che abbiamo selezionato le proposte, accorgendoci di queste linee tematiche ricorrenti. Il fatto di non stare dentro dei parametri molto rigidi non rende gli artisti avversari, ma li rende dei colleghi, che quando vengono qui da noi hanno la possibilità di scambiarsi idee in maniera sana, tant’è che sono anche nate delle comunioni felici che hanno permesso la realizzazione di altre opere dopo la tappa al DAS.
E: A marzo 2024 abbiamo ospitato l’assemblea aperta di Vogliamo tutt’altro dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, in cui è emerso quante persone soffrissero, soprattutto tra i giovani. Si è condiviso il fatto che c’è tantissima solitudine proprio per questa competizione per accaparrarsi quelle poche risorse. Tantissimi giovani artisti sentono la difficoltà nel rapportarsi ai colleghi e alle colleghe per questo, perché hanno anche il timore che qualcuno possa rubare loro l’idea. Per questo Collagene non ha un tema, andando contro a questo funzionalismo dei bandi per cui tutto quello che viene chiesto ad artisti e artiste deve essere diretto a una visione che arriva dall’alto, quasi una specie di marketing elettorale delle istituzioni pubbliche.
Personalmente mi capita di percepire i bandi come il desiderio di mettere una divisa a una cosa che nasce invece proprio per sradicarle. È giusto che lo Stato aiuti l'arte o l'arte deve essere indipendente?
A: Il nostro orientamento è andare più verso la funzione pubblica. Il fatto di essere legata a istituzioni è sempre una cosa da trattare con i guanti, da un punto di vista della libertà artistica. Devo dire che noi non stiamo subendo pressioni per le scelte artistiche. Magari abbiamo pressioni di tipo burocratico, confinati in categorie obsolete, come le categorie ministeriali – teatro, danza, performance, arti visive, arti multimediali – divise secondo parametri che noi in qualche maniera stiamo scardinando. Noi non la non la vediamo neanche questa divisione nella realtà pratica degli artisti contemporanei. Quindi la difficoltà del rapportarsi con le istituzioni è più legata a questioni burocratiche e il fatto che ci sia un finanziamento pubblico all’arte, che è controverso, in questo momento mi sembra l’unica via praticabile. Se noi dovessimo affrontare sovvenzioni commerciali da privati, oppure sponsorizzazioni, rischieremmo pressioni molto più utilitaristiche di quelle della politica.
F: Abbiamo il vantaggio in questo momento che il DAS non è incasellabile dentro un blocco già prestabilito. L’ibridazione non l’abbiamo certo inventata noi, ma la gente quando viene da noi non sa mai cosa aspettarsi e si ritrova a stretto contatto con noi e con gli artisti.
In quanto membri del team curatoriale di Collagene, cosa vi ha colpito delle proposte che avete selezionato?
E: È complicato rispondere a questa domanda. Nella pratica andiamo a fare una prima scrematura di tutte le proposte tramite un file Excel, in cui ciascun membro del direttivo scrive un proprio commento. Spesso e volentieri ci arrivano proposte che sono molto simili l’una con l’altra. Piano piano individuiamo ciò che ci interessa di più, confrontandoci sui progetti più controversi, che smuovono di più. Così riusciamo a tirare fuori quelle che poi sono caratteristiche e le visioni molto differenti del direttivo. Ad esempio, io a volte non vedo le potenzialità di un lavoro performativo teatrale, ma grazie al punto di vista di Federica e Andrea arrivo a nuove interpretazioni. Abbiamo numerosi scambi e confronti che ci permettono di conoscere i linguaggi reciproci. Una delle difficoltà che abbiamo avuto anche come associazione, proprio perché proveniamo da discipline molto diverse, è stata quella di riuscire a parlare la stessa lingua. Perciò, trovare una sorta di armonia comunicativa, attraverso una pratica fattuale di selezione di progetti, diventa molto arricchente. A ogni selezione capiamo anche quali sono i progetti che magari per noi rispondono a questioni più stringenti. Ad esempio, quest’anno sono: la crisi climatica, il tema della casa e dell’abitare; le questioni di genere; la solitudine del nostro tempo; gli studi sulla neuro divergenza, l’incontro-scontro tra uomo e nuove tecnologie digitali e informatiche.
F: Noi scegliamo i lavori senza avere già a monte un’idea prefissata di quello che vorremmo vedere al DAS, però sicuramente sono lavori che rischiano moltissimo con i linguaggi, con l’estetica. Contemporaneamente anche noi ci prendiamo dei rischi perché molto spesso scegliamo progetti di artisti che non hanno mai fatto un’apertura pubblica, che non si sono mai presentati, ma che hanno un’idea fortissima e quindi, in un certo senso, ci prendiamo anche una responsabilità. Il fatto che ogni membro del direttivo arrivi da ambiti diversi ci rende molto più fluidi, aprendoci a delle prospettive artistiche che magari non avevamo ancora pensato potessero esistere.
A: A me dà anche la sensazione che nel tempo si sia creato un dialogo bidirezionale tra DAS, come realtà culturale, e gli artisti che in qualche maniera hanno cominciato a definirci. Molti arrivano e fanno esplodere la loro opera. È capitato che musicisti elettronici che volevano fare un’installazione sonora, poi decidessero di trasformarla in performance, oppure artisti visivi che volevano fare una performance, l’abbiano trasformata in un’installazione e così via.
C'è ancora un senso nel fare tutto questo? A cosa serve?
F: Per me questa è l’unica strada. Tutti coloro che chiamiamo sono artiste e artisti che a modo loro, anche se non lo sanno neanche certe volte, scrivono dei progetti che si sente che loro hanno bisogno di far emergere e di far uscire. Io in questi anni di visione, di progetti e di realizzazione mi sono accorta che, grazie proprio a all’osservazione, aumenta la sensibilità e si ampliano i ragionamenti sul mondo attuale.
E: Non ci sarà mai una risposta esaustiva, credo. Diciamo che DAS è uno spazio di relazione dove si intersecano tantissime cose ed è una possibilità di prendere parola in un luogo pubblico, con una temporalità dilatata e attraverso degli strumenti espressivi. Non è l’opinione spiattellata sui social. Si ha il tempo di coltivare una presa di parola e di posizione attraverso esperienze artistiche e culturali. C’è anche un aspetto formativo all’interno di DAS, grazie a Collagene Young, dove mettiamo in relazione le arti e la cultura con degli studenti delle superiori. Vorremmo stimolare la curiosità e formare i nostri pubblici. Abbiamo delle responsabilità in quanto presidio culturale, tra cui coltivare il nostro intorno, provando a immaginare anche nuovi modi di stare assieme. Tutto ciò è legato alla funzione pubblica di cui parlava Andrea. Quindi sì, ne vale la pena.
A: Se l’alternativa deve essere il silenzio acquiescente a quello che succede, io preferisco subire un’ora di tortura performativa. Resta un modo per creare una mia relazione con l’artista e dell’artista col mondo. Noi dobbiamo assumerci la responsabilità di cercare di entrare in relazione con gli altri come individui. Vorremmo indurre questa consapevolezza nelle persone che ci attraversano e che prendono parte alle nostre attività. Anche solo porre una questione, fare una domanda, mettere in crisi qualcosa è una necessità. Non penso che se ne possa farne a meno.
Da un punto di vista artistico - e da membri di un gruppo curatoriale - avrebbe senso ospitare uno spettacolo totalmente contrario a qualunque sia il vostro credo politico e sociale, aprendo un dibattito?
F: Io credo nella libertà di parola totale: è un diritto. Però, faccio un paradosso assurdo: se in una realtà culturale come la nostra venisse qualcuno di CasaPound a fare uno spettacolo sarebbe molto grave. Non perché questo individuo deve essere privato della propria libertà di parola, ma perché se noi gli dessimo questa possibilità, lo metteremmo allo stesso livello di artisti e artiste che si occupano di tematiche dotate di valori molto più alti. E questa è una cosa che non ci possiamo permettere dal mio punto di vista. Quella persona può dire ciò che vuole, ma non lo può dire in tutti i contesti. Inoltre, credo che questo in questo momento non possiamo permetterci di dare segnali di un certo tipo. Pensiamo alla manifestazione a Bologna che c’è stata di CasaPound: è stata bloccata e i fascisti sono stati mandati via nonostante avessero avuto un schifosissimo permesso per farla.
Ho fatto questa domanda non per provocare, ma per ragionare su quanto sia importante lasciare spazio di parola a tutti, in un luogo che non siano i social, anche a costo di far scaturire una forte contraddizione…
E: Mi trovo abbastanza d’accordo con quello che dice Fede, però a me resta sempre un dubbio… Io temo l’effetto bolla. La polarizzazione è quello che secondo me ci ha portato a questa situazione, dove è scomparsa l’abitudine al dialogo, al provare a capire l’altro quando è molto distante da noi. È scomparsa anche l’abilità di saper a gestire un conflitto, cosa che dipende anche dalla narrazione pubblica. Tutto si è polarizzato, tutto è diventato o bianco o nero, non c’è tempo né voglia di un approfondimento. A volte sento che mi manca un confronto con chi invece è molto differente da me sui valori morali, etici eccetera. Io non riesco a capire alcune cose. Sentendomi solida nelle mie posizioni, a volte non riesco a mettermi nei panni nell’altro per capire tipo cosa lo spinge ad applicare certe scelte politiche così distanti da quella che per me è una logica di buon senso comune. A me manca questo genere di dialogo, che non sia uno scontro o qualcosa che viene reso semplicistico con uno slogan. Io sono d’accordo sul fatto che proteggere il proprio pubblico abbia un senso, ma dall’altra parte mi chiedo: che cosa mi sto perdendo? Ho il terrore che si scivoli sempre di più in posizione cristallizzate che non permettono una mutua comprensione o di cercare un linguaggio per comunicare.
La questione del linguaggio è molto interessante. Come comunicano gente con idee opposte? Come si allena il pensiero critico? Se ci sono delle istituzioni che dovrebbero farlo, perché falliscono? Sto facendo riflessioni a voce alta…
A: Forse quello che ci sfugge in questa riflessione è la concretezza. Nella realtà non ci sono arrivate proposte di questo tipo che noi abbiamo rifiutato. Nella realtà non è vero che tutto quello che è passato per DAS, a livello di temi e di mondi artistici, lo condividessimo al cento per cento. Quindi, nella pratica che noi viviamo, possiamo rispondere solo con quello che è la nostra esperienza. Non abbiamo di fatto censurato nessuno, ma abbiamo fatto delle scelte soprattutto legate alla qualità artistica. L’arte non è mai così diretta come messaggio, non è mai un comizio politico. È un insieme di cose, un ecosistema di riflessioni, no? E questo ecosistema può entrare in risonanza, può entrare in conflitto e moltiplicarsi. Però, il suono puro di un’idea politica diventa un comizio e smette di avere la capacità di entrare in relazione con uno spazio così complesso come il nostro. Un altro discorso, invece, è quello di portare all’interno della propria opera delle contraddizioni, cosa che per noi avviene regolarmente.
F: Tengo a dire anche un’ultima cosa che secondo me è importante per il DAS. Non ci siamo mai schierati e schierate con un partito, ma con delle istanze politiche. Noi vorremmo che questo sia uno spazio di prossimità.