Qualche mese fa ha aperto il DOPOlavoro a Corvetto. Che poi è diventato DOPO space, e più comunemente è noto come DOPO?. Perché non si sa bene cosa verrà poi. Dopo il lavoro, dopo Milano, dopo tutto. Parliamo di uno spazio che ha quasi le sembianze del collettivo o del falansterio (con buona pace dell’utopismo puro e crudo), dove si sono raccolti tutta una serie di studi, figure e professionisti attivi da anni nei milieu dell’architettura e del design meneghino. Per fare dei nomi, ci sono Carlotta Franco, Salvatore Peluso, Bianca Felicori, Parasite 2.0, PLSTCT, Fosbury Architecture come fronte iniziale, e poi tanti altri assieme e accanto a loro che sono arrivati nel tempo a occupare gli spazi condivisi del coworking. Se mai ci si dovesse chiedere del perché qui piuttosto che da un’altra parte, la risposta è netta: si ricerca lo sbaraglio di quell’attitudine competitiva e individualista che governa la FOMO meneghina, rivolgendo il pensiero e le intenzioni ai momenti di confronto, e qui sta l’idea di “dopolavoro”. Insomma, a essere importante nella logica che presidia tanto gli spazi quanto la programmazione e i metodi operativi di DOPO? è l’idea che le forme del lavoro debbano essere riviste in termini di collettività. Non è un caso che nella chiacchierata che abbiamo fatto con Carlotta Franco sulla storia e gli intenti di DOPO? a emergere subito sia stata l’idea di “istituzioni radicali”. Un’idea di organizzazione parlatissima e ragionatissima eppure difficilissima da mettere in pratica nelle tempeste del cardiolavoro milanese. Tra un co-working dal sapore amicale, una nascente programmazione culturale, di feste e di pranzi collettivi, DOPO? si appresta a essere considerato un presidio territoriale e socioculturale inteso a cambiare qualche consuetudine generale.
«È molto importante crearsi delle isole di tempo libero, di relazione, nell’arcipelago del lavoro. Questo ti permette di sopravvivere, ed in parte è quello che facciamo qui, anzi: è una delle funzioni primarie di questo spazio.»
Come nasce DOPOlavoro, DOPOspace, e poi DOPO?
DOPO? nasce da un cantiere di idee condiviso tra persone che gravitano attorno al mondo dell’architettura e del design a Milano da molti anni. Inizialmente era un gruppo molto più largo di quello che è oggi, che si estendeva in diverse città d’Italia. L’input che diede inizio a tutto fu lanciato da Salvatore Peluso e PLSTCT, a seguito di un lavoro di call e di chat, compresa una scrittura condivisa su documenti online. Diciamo che la scintilla “generativa” fu proprio il bando de “La Scuola dei Quartieri”: in quel momento prendemmo l’iniziativa per costruire un mega raggruppamento di tutte queste realtà e individui e farne uscire un progetto comune. La prima formazione erano Bianca Felicori, Salvatore Peluso, io, Parasite 2.0, PLSTCT, Fosbury (e questi siamo noi oggi), ma allora c’erano anche Orizzontale, Sofia Pia Belenky, c’era Luigi Savio di Abnormal… insomma un gruppo foltissimo e molto unito.
Su quali basi, formati o modelli avevate iniziato a riflettere?
Nei nostri primi incontri, che erano poi degli aperitivi alcolici, parlavamo di istituzioni radicali. In particolare, di cosa ci fosse in quell’ampio ventaglio che va da Macao a Triennale, di quali fossero le istituzioni (formali e non) che in qualche modo ospitavano le iniziative che a nostro parere sapevano raccontare la contemporaneità a cui noi ci rivolgevamo. Avevamo una sola certezza: qualcosa mancava tra questi due poli. Così, quando siamo partiti con questo lavoro di scrittura, abbiamo inquadrato pressoché da subito la strada da prendere nell’idea di istituzione radicale. Abbiamo riflettuto su diversi tipi di formati, dall’edicola allo spazio vetrina fino al laboratorio condiviso e addirittura a un progetto privo di un luogo, ma che si manifestasse nello spazio pubblico.
Quali sono invece i presupposti attorno a cui si articola la forma attuale, quasi da collettivo o quasi da “famiglia allargata” in fondo, di DOPO?, e soprattutto: perché DOPOLAVORO?
Per farti capire, all’inizio ci eravamo affezionati molto all’idea di fare una sorta di cucina sociale che ospitasse tutta una serie di avvenimenti. Soltanto più tardi è uscito il tema del Dopolavoro (nome che poi abbiamo dovuto dismettere). Ci ritrovavamo nelle istanze legate sia alla vita privata che al lavoro, suggestioni che raccontavamo di come tutti noi fossimo legati a doppio filo non soltanto per questioni professionali, ma soprattutto da un rapporto di amicizia e di visioni, “dopolavorista”. A posteriori, la cosa fortissima di questo spazio è proprio che ha rotto un po’ le vetrine di quell’individualità competitiva che è una caratteristica di chi abita e vive questa città, di tutti noi. Una Milano che, per quanto stimolante, fa sì che tutti s’incontrino in situazioni sempre performanti. È giusto dire che DOPO? ha rotto quantomeno le nostre vetrine individuali. Perché è un progetto comune in cui bisogna gestire assieme tutto, dai rifiuti alle tasse, cosa che concorre a far assumere a tutti delle responsabilità verso gli altri. È così che DOPO?, come spazio, riesce a rimanere in piedi. C’è sempre qualcuno di noi a occuparsi di ciò che accade. Insomma, c’è una grande condivisione nello sforzo collettivo che sollecita il confronto e lo stare assieme. Potremmo dire che DOPO? ha fatto famiglia. Un discorso di mutualità, quasi di mutuo soccorso! Siamo tutti persone generose, e questo spazio ha sicuramente rispolverato e fomentato questa generosità. Penso che questa sia la cosa più preziosa che abbiamo creato.
Ci racconti invece la storia dello spazio fisico in cui vi trovate?
Seppur all’inizio dubitavamo dello spazio fisico, ci siamo resi conto presto che avevamo bisogno di una messa a terra. Abbiamo scelto Corvetto perché c’era già della confidenza con il quartiere, molti di noi ci avevamo vissuto. Come tutti ci siamo dovuti da subito confrontare con il buco nero dell’immobiliare meneghino. Affitti alti e spazi poco disponibili, e abbiamo deciso che saremmo andati un po’ all’antica: facendo un giro a piedi. Ci siamo orientati con @postisinceri e abbiamo trovato per primo il Bar Lucio, che ci ha affascinato subito. Siamo andati a pranzo, ci siamo bevuti un paio di amari e abbiamo scritto un annuncio in Comics Sans, appendendolo dentro al bar e in una lavanderia a gettoni. Avevamo scritto i nostri numeri, e abbiamo ricevuto diverse chiamate per richieste di soccorso alla lavanderia – da chi era rimasto chiuso dentro o non riusciva a far funzionare la lavatrice.
Ma in quel momento avevamo già trovato lo spazio ricercandolo a piedi. Lo stesso giorno, partendo dal Bar Lucio ci siamo ritrovati di fronte al cortile che ospita la Galleria Zero. Ci siamo confrontati con due professioniste che lavorano lì, avevamo anche trovato interessante quel luogo, e appena fuori siamo entrati in una via privata, lungo cui abbiamo incrociato due operai intenti a lavorare in un altro cortile. Gli abbiamo chiesto: “Senti un po’, ma qua c’è qualcuno che affitta qualche spazio interessante?”. Era difficile spiegare a cosa ci servisse allora. Uno di loro ci dice di aspettare un attimo che va a chiamare la signora, e poco dopo esce lei: una classica sciura milanese con un filo di perle al collo e un cane, Cody. Ci racconta delle proprietà sue e del fratello, dei nipoti che sono a studiare all’estero e che non hanno idea del valore di questi immobili ma che magari un giorno lo avrebbero capito, e insomma: la signora conservava quegli spazi per loro. In quest’ottica si può anche vedere questa situazione come una specie di resistenza a questo grosso movimento di speculazione immobiliare in cui Corvetto è già più che avviata. Comunque, la signora ci porta a vedere questo spazio avvisandoci che molto probabilmente non era adatto a quello che cercavamo noi. Fa scorrere un cancello: la porta delle meraviglie. Siamo andati in visibilio. Era pienissimo di zanzare, la vite americana era rossa e ci siamo innamorati. Eravamo proprio qui dove siamo ora. C’è da dire che le aspettative e i programmi che avevamo sono cambiati completamente una volta scelto lo spazio. Ci fece anche un prezzo di una Milano d’altri tempi, cosa che ci ha permesso di essere qua dove siamo – anche perché il bando finanzia le attività, non l’affitto dello spazio.
Come vi posizionate quindi rispetto al quartiere di Corvetto? Cosa vuole diventare DOPO? rispetto al territorio?
Un punto di riferimento innanzitutto per il quartiere di Corvetto ma anche per la città di Milano e non solo. Siamo consapevoli di navigare un po’ sulla cresta della gentrificazione del quartiere, che oggi è un grande tumulto. Proprio per questo (e non soltanto, siamo comunque persone che hanno velleità autoriali e sociali) per noi è importante creare degli appuntamenti culturalmente seducenti ma anche fare tessuto nel territorio. Da questo punto di vista Lucio è il nostro osservatorio: ci ha nutrito e ci ha introdotto, è una persona con un cuore gigantesco.
Tra pochissimo ci sarà il primo Fuorisalone di DOPO?. Avete programmi? (È un pretesto per chiedervi anche della vostra programmazione.)
Il programma si sta sviluppando nel tempo, per ora rimane difficile da spiegare, perché abbiamo una programmazione nostra, eventi di terzi e di privati. Se penso alla presentazione di Arts of the Working Class – che è stato il primo evento che abbiamo fatto di quel tipo – e anche qui per una visione condivisa (anche se i nostri temi ancora vanno sviscerati al meglio), lì abbiamo fatto riferimento all’hyperemployment e ad alcuni riferimenti teorici che stanno prendendo forma più nel palinsesto dei contenuti, delle presentazioni e dei vari progetti, piuttosto che nella restituzione di una ricerca tematica. Per esempio durante il Fuorisalone ci sarà la compresenza di format completamente diversi, ma tutti per certi versi “filtrati”, mediati, da quello che siamo noi. Avremo ospite un brand che ci renderà possibile avere una cucina, e si presenterà da noi durante la Design Week. Ci sarà anche un’azienda che produce marmi, e condividerà il suo spazio espositivo qui da noi con un contenuto proposto da DOPO?. Insomma, tanto nei modi in cui viviamo qua dentro quanto nel modo in cui interagiamo nelle collaborazioni, stiamo materializzando una specie di modello operativo “ibrido”, che riguarda specialmente le dinamiche tra pubblico e privato, aziende e autori o professionisti di settore.
Detto questo, come definiresti ora DOPO?, rispetto a quella scala di istituzioni, più o meno formali, più o meno riconosciute, di cui parlavamo su? Recentemente è molto sentito anche il dibattito sugli “spazi ibridi” che mi sembra riguardare da vicino le modalità in cui immaginate lo spazio e che sollevano anche la necessità di distinguere tra cos’è un presidio territoriale (uno spazio socioculturale) e una location. Su quale scala si può situare DOPO?
Sicuramente non sulla stessa scala di Macao e della Triennale, ma su qualche altra che ancora non abbiamo circoscritto. Di certo DOPO? è uno spazio permeabile, come lo è stato Macao in un certo periodo, e abbiamo una freschezza di cui Triennale in fondo manca. Per questo siamo fuori da una scala canonica. DOPO? è uno spazio poco cifrato, se non territorialmente. Per quanto riguarda invece gli spazi ibridi, credo che prima di tutto ci sia un’identità, e quindi una comunità. È questo a far sì che uno spazio ibrido stia in piedi, in fondo. Noi ci siamo confrontati soprattutto su quel tema del dopolavoro, partendo dall’assunto che oggi il lavoro vada ripensato in termini di collettività. Per condividere momenti della giornata, per chiederci cosa ci sia dopo, oltre il lavoro. Pensa soprattutto ai mestieri creativi, che hanno un tempo di sedimentazione molto lungo e quindi richiedono momenti di digestione che proseguono necessariamente in tempi che non sono inscritti in quelli del lavoro. Penso sia molto importante crearsi delle isole di tempo libero, di relazione, nell’arcipelago del lavoro. Questo ti permette di sopravvivere, ed in parte è quello che facciamo qui, è una delle funzioni primarie e personali di questo spazio. Ci piaceva poi l’idea del DOPO a Milano, qui, che tutto è sempre un’urgenza –per cui chiamarci DOPO? è anche in qualche modo consolante.
Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2022-06-01