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Emilio Gola

Lo studio d’artista è il caos da cui tutto nasce, in una comfort zone

Written by Ilaria Sponda il 18 May 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Per Emilio Gola l’arte è un atto relazionale con i soggetti che lo ispirano: i suoi amici nel caos del suo studio. La pittura di Emilio è una narrazione dei vuoti relazionali vissuti dai giovani d’oggi, riempiti però da comunicazioni silenziose e gestuali. Il caos è ciò che non può mancare nel suo studio, una sorta di bolla dove tutto accade, un microcosmo dove la vita personale si intreccia a quella collettiva.

Nelle relazioni manca spesso un approccio fisico e innocente al tempo stesso, che quindi mi interessa indagare tramite la mia pratica artistica.

 

Dicci un po’ di te: da cosa è nato il tuo desiderio di diventare artista pittore?

Ho sempre avuto l’istinto di disegnare, un po’ in segreto. È stato solo dopo i miei studi in architettura e un periodo di lavoro a Londra e Yangon, che ho deciso di tornare a Milano e proseguire l’università virando sulle belle arti. L’incontro in Accademia con Martina Cassatella e Roberto De Pinto – con cui condivido lo studio in via Piero Della Francesca – è stato importante per concretizzare la mia volontà di impegnarmi a tempo pieno nel produrre arte. La sinergia che si è creata con loro è stata essenziale allo scambio e alla crescita. Dal disegno mi sono rivolto verso la pittura, di piccole e grandi dimensioni: questo anche grazie al fatto di avere uno spazio che mi permette di praticare il mio lavoro nel migliore dei modi e delle comodità.

In una città dove dilaga una crisi abitativa e affitti che si alzano parlare di comodità può risultare bizzarro a volte. Spesso le comodità che ci sono frizionano con il contesto più o meno accogliente di un sistema dell’arte poco sostenuto in Italia e a Milano. Ti capita di riscontrare frizioni come artista a Milano?

La realtà artistica milanese è interessante e in crescita, forse il rischio è che, essendo un circuito alla fine piccolo rispetto ad altre realtà, tende a non potersi permettere di dire davvero ciò che pensa del sistema stesso. Non parlerei di frizioni. Il mio è un equilibrio tra accettazione di ciò che potrebbe essere migliore e soddisfazione per quello che già c’è in modo solido, e di cui posso prendere il meglio.

I tuoi quadri sono un silenzioso spaccato sul vivere le relazioni da giovani nella società odierna. Le narrazioni si scorgono seguendo i gesti dei tuoi soggetti: un linguaggio verbale a volte labile altre invece più esplicito. Da cosa è spinta la tua ricerca sulla pittura?

La pittura per me è anche un atto relazionale e di osservazione metaforica del mio contorno più stretto e di più lunga data. Prima di iniziare un quadro mi ritrovo con qualche amico nel mio studio: loro mi forniscono l’ispirazione semplicemente essendo loro stessə, in relazione fisica lə unə con lə altrə. Dipingo scene con riferimenti all’infanzia, sia per gli oggetti presenti che per, in alcuni casi, la varietà delle gestualità messe in atto. Secondo la psicanalisi il tatto è il primo senso a metterci in contatto con il mondo, prima ancora del verbo e, dunque, con l’altro. Eppure nelle relazioni manca spesso questo approccio, fisico e innocente al tempo stesso, che mi interessa indagare tramite la mia pratica artistica. Ovviamente vuol dire anche ragionare sulla pittura stessa.

Cosa non può mancare nel tuo studio? Sembra di far capolino nello studio di Francis Bacon, dove tutto è in equilibrio precario tra oggetti tuoi e di chi passa di qui, visti i soggetti dei tuoi dipinti: i tuoi amici di lunga data appunto.

Sicuramente non può mancare il caos: tutto ciò che porto in studio e che uso come riferimento per i quadri diventa parte di esso. Con il tempo sto diventando un accumulatore seriale di oggetti, in apparenza inutili, ma che prendono senso una volta dipinti nei quadri. Tendo a non buttar via mai niente.

Cosa ti tiene legato alla nostra città e ti fa dire che è qui dove vuoi essere artista oggi? Dopo essere stato in giro come a Londra e Yangon, cosa ti ha fatto tornare qui?

Sicuramente il comfort e la bolla in cui posso vivere come persona, principalmente. Questo comfort è legato al fatto di essere nato qui a Milano e di conoscerne i posti: so muovermi e so già cosa aspettarmi dai vari luoghi che frequento ogni giorno. Ma so che, probabilmente, sarà questo che, un giorno, mi riporterà altrove, come appunto è già successo.

Parlando di Milano e di dove ci troviamo ora: lo studio si trova in una parallela di Corso Sempione in una zona un po’ di confine. Come la descriveresti? Venendo qui ho fatto tutto Corso Sempione in tram, vedendo la sagoma del Castello Sforzesco scolorirsi all’orizzonte.

La trovo una zona liminale a metà tra il confortevole da passeggiata e il confine dove le identità iniziano a trascolorare.

Sì, ho avuto anche io la sensazione che la città trascolorasse in questa zona di confine, in cui arrivo per la prima volta. Quali sono i luoghi intorno allo studio a cui sei più affezionato? Forse luoghi un po’ anonimi e che ancora mantengono uno spirito di quartiere. E’ bello scoprire luoghi non (iper)gentrificati in una città come Milano o molte altre in Europa che stanno venendo mangiate da policy irrispettose del tessuto sociale e culturale autoctono.

Ah, direi da Massimo del gelato, ma quando non c’è fila. Poi c’è il mercato di Via Fauchè: un mercato lineare, dove mi piace guardare più le persone che le bancarelle. Lo stesso vale per i piccoli posti anonimi che scelgo per bere un caffè, fumare una sigaretta, parlare con qualcuno che non conosco. Se ci penso cerco luoghi anonimi, appunto, bar che si chiamano solo come il caffè che servono. Mi perdo a guardare queste persone che abitano da anni sul confine della città ma non ancora in periferia. “Mi scusi signora, come vive questo vicinato?” e io sorseggio il mio caffè. Quando arriva la sera poi mi sposto alla birreria “Stalingrado”, dove spesso bevo una birra riflessiva, forse un po’ confessionale.