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La storia dell’indie a Bologna nei 20 anni di Polaroid, il blog alla radio di Enzo Baruffaldi

quartiere Santo Stefano

Written by Salvatore Papa il 7 March 2022
Aggiornato il 8 March 2022

Come a un certo punto ci raccontiamo, parlare di blog e indie nel 2022 può suonare un po’ cringe, e chi se ne frega. A dispetto di tutto ciò che deve necessariamente stare al passo coi tempi e le tendenze, c’è invece una vasta comunità di persone legata ancora a un’attitudine “indie” che è peraltro la matrice stilistica di un pezzo di cultura cittadina odierna, non solo musicale.
Forse è ancora presto per fare una storicizzazione del fenomeno a livello locale, ma se c’è qualcuno che andrebbe interpellato, in tal caso, quello è Enzo Baruffaldi. Dal 2001 il suo blog e programma radiofonico Polaroid è un punto di riferimento per gli appassionati del genere (sopratutto indiepop), una bussola sicura per chi vuole ancora oggi orientarsi tra le nuove uscite internazionali.

Ecco la nostra chiacchierata.

 

Enzo, partiamo da te: chi sei, dove vai, cosa fai?

Sono un appassionato di musica dilettante, ho un programma alla radio dal 2001 e curo un blog musicale. Nella vita reale faccio l’impiegato.

Da dove arriva la tua passione - incredibile direi - per la musica?

Sono nato nel 1974 e quindi la mia formazione musicale è stata analogica, dettata dalla scarsità, tra cassette e Videomusic. In più, vengo dalla provincia, dove non trovavo molti punti di riferimento o una scena ben definita. C’erano riviste come Rumore o Blow Up, o programmi come Planet Rock e Suoni&Ultrasioni, e un paio di negozi di dischi che frequentavo più del bar. Sono arrivato a Bologna nel 1993 e sono stato travolto dai suoni delle radio indipendenti che all’epoca riempivano l’etere cittadino: Radio Città 103, Radio Città del Capo, Radio K Centrale erano libere e sfrenate, e ribollivano di creatività e sperimentazione. In parte, erano capsule del tempo rimaste intatte dal 1977, con i poster delle manifestazioni e gli studi perennemente immersi in una nuvola di fumo; e in parte erano già proiettate nel futuro, tra playlist alternative e visionarie, Internet già in embrione, l’onnipresente estetica cyberpunk e un certo situazionismo amatoriale. Mi sono innamorato della radio in quegli anni da fuorisede, fatti di ascolti e scoperte.

Polaroid come nasce?

Il programma alla radio nasce un po’ per gioco e un po’ per caso. A forza di andare in giro per concerti e serate, soprattutto quelle del Covo, imparammo a conoscere i dj e i giornalisti musicali, gli stessi che poi ascoltavamo alla radio, principalmente su Città 103. Nomi come Alberto Simoni, Arturo Compagnoni, Giancarlo Fantazzini, Linda Spadolini, Fabio Merighi, Massimiliano Bucchieri, Giovanni Gandolfi sono stati assolutamente formativi per me. Laura Govoni e io cominciammo a prendere l’abitudine di andare a trovarli durante le trasmissioni. Quando qualcuno era in onda, dall’altra parte del vetro c’era sempre un gran viavai, e lo storico scantinato di Via Masi 2, soprattutto nella fascia dei programmi musicali serali, era un bel luogo di ritrovo dove parlare di dischi, di quello che succedeva in città, o anche solo per leggere riviste e ascoltare le trasmissioni “dal vivo”.
A un certo punto, si liberò un’ora nel palinsesto e ci trovammo dall’altra parte del microfono, con i nostri quattro cd masterizzati e le idee confuse. Lì nacque anche il blog. Volevamo un piccolo sito da affiancare al programma radio, e non è che nel 2001 fosse così scontato e diffuso. Su suggerimento di Leonardo Tondelli (quello che oggi leggete anche su Il Post) provammo la piattaforma Blogspot.com, nata da poco: era gratuita, non richiedeva competenze di programmazione né grafica, e non era ancora stata comprata da Google. Parole come blog o post non erano ancora diffuse nella lingua italiana, ed era buffo, per esempio, dover spiegare agli altri della radio che il sito si aggiornava “al contrario”, con le cose più recenti scritte in alto, e così via.
Dopo qualche stagione, passai su Radio Città del Capo, che all’epoca era in grande crescita, tra serate, concerti e una notevole presenza in città, sia sul fronte cultura che su quello dell’informazione. Rimasi a RCDC fino a quando fu possibile, poi nel 2018 feci parte del gruppo di DJ e giornalisti che ne uscì per fondare NEU Radio. Dopo più di tre anni, mi sembra si possa dire che quel gruppo ci aveva visto giusto e che il nuovo esperimento stia avendo un meritato successo.

In qualche modo il tuo è stato un lavoro di scouting in un periodo in cui era molto più complicato di oggi scoprire nuove cose. Eppure, forse oggi ce n’è ancora più bisogno. Come riesci a orientarti ora nell’iper-abbondanza generata dagli attuali mezzi?

Non ho mai percepito lo scouting, se vogliamo chiamarlo così, come un’attività complicata. Del resto, ho cominciato a trasmettere quando già esisteva il peer-to-peer, i masterizzatori erano diventati più economici, e in Rete trovavi NME o il primissimo Pitchfork, giusto per fare due esempi. Le informazioni erano già molto più disponibili rispetto anche solo a cinque anni prima. Esistevano i newsgroup e le message board per le nicchie, dal punk hardcore di “Fastidiis” a “Sinister”, la stupenda mailing list dei Belle And Sebastian. Quelle che fino a poco tempo prima erano fanzine fotocopiate da richiedere per posta, o da trovare fortuitamente a qualche festival, ormai viaggiavano in HTML. Insomma, anche un amante di un genere tutto sommato secondario e anacronistico come l’indiepop, quale sono io, poteva già trovare tutto quello che desiderava e selezionare gli ascolti in base alla propria curiosità.
Rispetto all’era dell’abbondanza attuale mi sento un po’ sfasato. Non sono abbonato a Spotify o simili: queste piattaforme non mi piacciono come interfaccia e approccio, per non parlare di cosa rappresentano politicamente, economicamente e anche concettualmente. L’opera di svilimento della musica che è stata permessa a Spotify non era stata nemmeno immaginata all’epoca della prima pirateria. Perché?
Sono invece abbastanza fan di Bandcamp che, proponendosi come piattaforma e strumento per gli artisti, ribalta le priorità e prova a dare maggiore valore alla musica e a chi la produce. O almeno così si è comportata fino a oggi.

Parlare di blog oggi pare una roba da boomer: siamo boomer o nostalgici?

Parlare di blog oggi è assolutamente da boomer, non nascondiamocelo. Basta guardare al fenomeno delle recensioni musicali su Tiktok, che già fa sembrare gli YouTuber dei dinosauri. Io appartengo alla Generazione X, sono ancora legato a una certa deferenza verso la parola scritta che ha sempre meno senso e utilità.

Se vogliamo anche l’indie stesso è un genere che nasce dalla nostalgia…che ne pensi?

Non so se è corretto dire che “nasce”. Di sicuro, ci vive, almeno in parte. Ma non è detto che sia un male. Per quanto riguarda l’indiepop, storicamente il recupero delle chitarre scintillanti alla Byrds (per semplificare) operato dalle band inglesi nella prima metà degli Ottanta non era affatto nostalgico. Si trattava di una reazione e di una rottura verso una certa sterilità del punk e della new wave. Poi, ovvio, anche in questo movimento si è assistito alla atrofizzazione della spinta iniziale, la nostalgia è un comodo ripiego per tutti, e l’indiepop è un genere che ha sempre vissuto anche del recupero continuo del passato, della fedeltà ai modelli, della puntigliosa selezione.

Ha ancora senso, invece, parlare secondo te di indie? Ed esiste ancora una scena indie?

Forse qui è la parola “scena” a passarsela peggio. In un vita iper-connessa, il significato di comunità, intesa come appartenenza, aggregazione e scambio, subisce un assedio ancora più forte rispetto al significato di “indipendente”. E la “fatica” sta proprio nel continuare a definire e recuperare i propri riferimenti, quello in cui credevamo. Ma per darti una risposta secca: secondo me sì, ha ancora senso parlare di “indie”, deve averlo, dobbiamo trovarlo.

Se c’è una cosa che mi stupisce più di tutto del tuo blog è la costanza…come fai dovendo fare anche tutto il resto? Mi sembra quasi una missione la tua.

Ma no, c’è chi ha il calcetto il mercoledì sera, chi guarda tutte le serie tv che escono, io invece sento il bisogno di condividere il 45 giri di una nuova band di ragazzini di Stoccolma o Melbourne. È un hobby come un altro.

Sei anche un grande frequentatore di concerti. Quali sono stati i tuoi più memorabili in città?

Probabilmente negli ultimi venticinque anni o giù di lì, almeno per quanto riguarda la scena indie rock, molti risponderebbero citando le leggendarie bolge che si scatenarono per le date dei Libertines e dei Franz Ferdinand al Covo, due gruppi che stavano diventando troppo grossi per il club di Viale Zagabria. Sempre in quelle stagioni, sorrido ancora se ripenso alla celebrazione del centesimo concerto dei Settlefish, o a un solitario Nikki Sudden davanti a una ventina di persone commosse. Per restare in tema, quella dei Fanfarlo portati dai nostri A Classic Education al Locomotiv fu una festa perfetta, con invasione di palco finale. Credo di non avere mai perso una data delle Black Candy, dei Tunas o degli Altro! all’Atlantide o in qualunque altro posto suonassero. In anni più recenti, i Low al Teatro Antoniano sono stati un evento da levare il fiato. Poco prima della pandemia, fu abbastanza sconvolgente la data dei Viagra Boys al Freakout, in cui sudavano anche i muri. Ma personalmente ricordo con molto affetto un paio di date: un immenso concerto dei Mogwai nel 1998 al Covo, in cui sembrava di essere davvero sommersi dalla loro musica, e la prima data italiana dei Radio Dept., il primo maggio del 2004, messa in piedi proprio da una maldestra ma appassionata coalizione di blog DIY.

Com’è cambiata musicalmente la città in questi anni? Quali sono le cose che segui più volentieri o meritevoli secondo te di essere supportate?

Nonostante tutto, Bologna può ancora contare su un’agenda molto vivace. Sono io quello invecchiato e sempre meno in sintonia con molti live che animano la città: per esempio, non sono proprio il target dei tanti concerti di nuovi gruppi italiani che fanno giustamente sold-out. Preferisco l’intraprendenza e l’immaginazione della Maple Death Records, per fare un esempio, che negli ultimi anni si è inventata eventi molto belli in luoghi diversi, come il TPO o la Montagnola. Mi piacciono i posti “a misura d’uomo”, come il Freakout o il DEV, e il Covo resta il posto imprescindibile per vedere quei non tanti gruppi indie rock che ancora si degnano di visitare l’Italia. Come disse una volta Francesco Bianconi dal palco, “è il nostro CBGB”.

Veniamo al tuo quartiere, Santo Stefano, quartiere che per un periodo ha saputo tenere insieme istanze molto diverse, soprattutto grazie alla presenza di Atlantide o del primo Labas. Che ne pensi? E oggi come lo vedi?

Non lo vedo, nel senso che mi sembra sia rimasto poco da vedere. Si è scelto di chiudere, spingere a improbabili delocalizzazioni, sfiancare le iniziative. Difficile non pensare a quella foto della porta dell’Atlantide sigillata da un muro di mattoni come a un simbolo dell’atteggiamento di Bologna verso la vita del suo stesso centro. Negli ultimi tempi, noto che il Teatro del Baraccano sta ospitando eventi diversi e originali: da tenere d’occhio. E sono sicuro che prima o poi qualcos’altro di nuovo nascerà dove meno ce lo aspettiamo e ci sorprenderà.

Quali sono i tuoi luoghi preferiti del quartiere?

I giardinetti di Via del Piombo, colazione tardi da ZOO, un aperitivo all’Infedele o da Marcello in Via Farini, sedersi in Piazza Santo Stefano alle tre di notte d’estate, quando tutti quei bar sono finalmente chiusi.

Come suona Santo Stefano secondo te?

La prima gestione del Lestofante di Via San Petronio Vecchio organizzava concerti e dj set improbabili per un locale così piccolo, ed era una situazione davvero molto divertente. Ricordo dei giovanissimi Clever Square unplugged, tra amici e brindisi. Ecco il disco: https://cleversquare.bandcamp.com/album/ask-the-oracle