Gabi Scardi inaugura nei giorni di miart il progetto Jimmie Durham Labyrinth alla Fondazione Pini. In questa intervista abbiamo parlato non solo di questa esposizione, ma di quelle passate e della sua idea sul fare mostre. Oltre ad essere una curatrice Gabi Scardi è libera docente all’Università Cattolica di Milano e in questa chiacchierata si parla anche di formazione artistica.
ZERO: Da cosa nasce Labyrinth che inaugurerà durante i giorni di Miart 2018?Da un invito della Fondazione Pini e dal grande valore che attribuisco a Jimmie Durham come artista.
Una delle prime riflessioni è stata quindi legata allo spazio molto connotato della Fondazione Pini? Lo spazio, e l’architettura, è inoltre per lei una chiave di studio per molti progetti. In che modo si evidenzia in questa mostra?
Si, l’architettura e spazio dell’abitare sono sempre stati elementi significativi per me, sia come oggetto di ricerca in se stessi, sia in termini di modalità nell’approccio curatoriale.
Pensandoli come oggetto di ricerca, già nel 2005 avevo curato al PAC una mostra dal titolo Less, Strategie Alternative per l’Abitare. Partecipavano artisti come Vito Acconci, Siah Armajani, Krzysztof Wodiczko, Andrea Zittel, Luca Vitone, Atelier van Lieshout. C’erano i lavori di Michael Rakowitz, di Mircea Cantor, un’ampia installazione di Wurmkos e altre grandi opere. Ognuno degli artisti interpretava questo ambito di ricerca diversamente. Anche Jimmie Durham faceva parte della mostra, con alcune opere, tra le quali il suo Arco di Trionfo ad Uso Individuale: un’opera fatta di quasi nulla, ma ricca di significato; antiretorica, anticelebrativa, demistificante; che, con grande poesia, restituiva centralità all’individuo per quello che è, con la sua forza e con le sue fragilità, e costituiva una critica a ogni forma di arroganza.
Il motivo per cui l’attenzione allo spazio mi pare imprescindibile è che, in qualsiasi ambiente ci si inserisca, è interessante tenere conto del carattere e della storia del luogo. Ne possono derivare grandi stimoli; soprattutto quando lo spazio è molto connotato. In particolare per quanto riguarda la Fondazione Pini, il contesto espositivo conserva l’aspetto originario e un forte carattere di abitazione. Sia con questa mostra sia con quella precedente, di Nasan Tur, si è cercato di innestare il lavoro degli artisti su questa realtà, facendone emergere alcune specificità.
Nasan Tur si era focalizzato sul tema della memoria, del ruolo dell’individuo in seno alla società e del suo lascito. Ne è nato un lavoro nuovo, dal titolo Memory as Resistance.
Ora invece, con Jimmie Durham, la riflessione riguarda più propriamente l’architettura e lo spazio dell’abitare: temi ricorrenti nel suo lavoro.
Durham infatti, nell’arco del suo percorso, ha ampiamente articolato l’idea del “costruito”. Si è spesso confrontato con l’idea della costruzione sociale e delle strutture, delle convenzioni e delle categorie che la accompagnano, e decostruendo il concetto di architettura ha voluto smontare ogni affermazione forte e ogni punto di vista prestabilito. Proprio come nel suo Arco di Trionfo.
In cosa consiste il progetto site specific? In che modo Durham “porta all’esterno ciò che normalmente è dentro il corpo dell’architettura”?
Il progetto è stato concepito per la Fondazione Pini. L’artista ha lavorato sulla situazione esistente e sulle strutture. Nelle vetrine dello spazio si vedranno assemblages di materiali, per lo più di scarto e di recupero; materiali da costruzione di diversa origine, che sono presenti in qualsiasi edificio, ma normalmente non sono visibili. Durham rivela, dell’architettura, l’aspetto precedente la rifinitura di superficie.
Questa scelta nasce da una sorta di riguardo per i margini, per le energie e per le potenzialità latenti delle cose e delle persone; per il rimosso della società. Equivale al rifiuto di simulazioni ed effetti speciali; ed evoca la possibilità di sottrarsi all’infingimento e alla messinscena.
Come è stata la collaborazione con un artista “nomade” come Jimmie Durham?
Ci siamo incontrati più volte. L’ho rincorso, rendendogli visita nei luoghi in cui vive e lavora. È stato un piacere. D’altra parte, alcuni mesi fa lui ha fatto un sopralluogo nello spazio, a Milano.
Credi ci sia un legame tra Adrian Paci nel Comitato Scientifico della Fondazione e Jimmie Durham?
Paci e Durham sono artisti che stimo e che seguo da molto tempo. Pur nella loro grande diversità, sono accomunati da un sguardo sensibile, attento, e da una forma di rispetto in nome del quale trasformano il quotidiano in espressione e conferiscono rilevanza e dignità all’ordinario e al residuale. Un atteggiamento che mi pare di grande valore.
Per quanto riguarda la sua pratica espositiva, a quale mostra è maggiormente legata?
Ogni mostra è un’avventura a se stante, ma anche un passo in più all’interno di un percorso molto organico, fatto di continuità e di rimandi. La correlazione che esiste tra la mostra Less che ho citato poche righe più sopra e il progetto di Durham che sta per inaugurare mi sembra esemplificativa.
Inerente alla sua formazione ha un “maestro” di riferimento, sia questo uno storico dell’arte, un docente o un artista? ne ho molti; sono storici dell’arte, docenti, artisti, e anche curatori e direttori di musei. In qualche caso conosciuti personalmente, in altri attraverso lo studio, le mostre, le visite a musei. Per lo più si tratta di persone che sanno coniugare intuito, rigore e passione.
C’è un artista con cui attualmente vorrebbe collaborare?
Sono molto molto felice di collaborare con Jimmie Durham.
E nel passato invece esiste un artista con cui avrebbe voluto lavorare?
Moltissimi. Ma sono anche molti coloro con cui ho felicemente lavorato. Mi sono sempre riservata la libertà di accompagnarmi con artisti che stimo. È un grande privilegio.
Considerando l’attuale studio e dibattito sulla storia delle mostre, c’è una esposizione del passato che avrebbe voluto curare?
C’è un grande numero di mostre che considero rilevanti, e i cui curatori stimo molto. Ma se le avessi curate io non sarebbero le stesse. L’attività curatoriale ha una notevole componente autoriale, non credo che il curatore sia intercambiabile.
Secondo lei a Milano c’è una realtà che può essere considerata “internazionale”? A livello culturale cosa funziona, e cosa invece non funziona, nel capoluogo lombardo?
A Milano in questo momento la scena è variegata, internazionale e piuttosto vibrante. Ci sono spazi privati d’indiscutibile livello, spazi no profit di grande indipendenza e un ottimo collezionismo privato. Accademie e case editrici contribuiscono alla vivacità della città.
Anche tra le realtà istituzionali alcune sono consolidate e propongono eventi rilevanti; ma in altri casi gli spazi pubblici potrebbero fare di più, in termini di caratterizzazione, di coerenza della programmazione, di attenzione nei confronti del pubblico. I fattori penalizzanti sono diversi; e vanno da un difetto di visione a una compressione dei fondi davvero incresciosa, per una città che si racconta come punto di riferimento culturale del paese.
Lei è anche una libera docente all’Università Cattolica di Milano, come crede sia oggi l’istruzione delle pratiche artistiche ed espositive? A Milano che realtà ci sono che a suo parere possono essere considerate ottime dal punto di vista della formazione e della didattica?
L’Università Cattolica propone un’offerta formativa di alto livello, comprensiva di una serie di master articolati e variegati. Se si considerano anche le altre università, sia pubbliche che private, le Accademie, tra le quali Brera e NABA, e altri istituti come lo IED, il panorama complessivo risulta notevole. Ritengo però che ci sia ancora spazio per corsi di serio approfondimento negli ambiti della riflessione critica, e della teoria e della pratica curatoriale.
Passando al suo tempo libero, ci suggerisce qualche posto a Milano a cui è particolarmente affezionata? Qualche spazio no profit che è solita frequentare? qualche bar in cui le piace passare il tempo?
Dedico buona parte della vita all’arte; nel tempo libero cerco di occuparmi d’altro; credo che avere stimoli diversi sia fondamentale per potersi sottrarre al rischio dell’autoreferenzialità. Ma ricerca e sperimentazione mi attraggono sempre; amo alcuni spazi davvero alternativi e indipendenti, in cui ci si reca solo perché lo si desidera; uno per tutti: FarmaciaWurmkos; e frequento piuttosto assiduamente il teatro, di cui Milano è ricca: Teatro della Triennale, Zona K, Elfo Puccini, Filodrammatici, solo per citarne qualcuno.