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Cosa ne sarà della gentrificazione nel post Covid?

Intervista a Giovanni Semi, docente di Sociologia delle culture urbane e autore di Gentrification (Il Mulino, 2015)

Written by Salvatore Papa il 16 April 2020
Aggiornato il 22 April 2020

Tutte le città come Disneyland? Era questo il sottotitolo a Gentrification di Giovanni Semi che nel 2015 faceva tra i primi in Italia il punto di un fenomeno che ancora non avevamo ben compreso eppure aveva già profondamente cambiato le nostre città e i nostri quartieri.
“La città – scriveva Sharon Zukin nella prefazione – è cambiata così tanto e così velocemente che ha perso la propria anima”.
Oggi la gentrificazione fa parte del linguaggio comune, anche se spesso viene utilizzata impropriamente come contenitore di fenomeni che non la riguardano. Per intenderci, utilizzeremo, quindi, due definizioni: “un insieme di trasformazioni che rendono alcune aree più costose e più esclusive” (Semi) e “la produzione dello spazio urbano per utenti progressivamente più ricchi” (Jason Hackworth).
Parliamo, quindi di gentrificazione, per riferirci a quel modello di sviluppo delle città che si impone in determinate aree urbane attraverso progetti di riqualificazione, marketing turistico, pratiche culturali e di consumo che si traducono in investimenti immobiliari e/o commerciali e, infine, nella mutazione della natura sociale di quelle aree.
Per comprendere quali saranno gli effetti del Coronavirus sulla gentrificazione, abbiamo raggiunto al telefono Giovanni Semi, che è anche docente di Sociologia delle culture urbane all’Università di Torino e autore di Casa dolce casa? Italia, un paese di proprietari (Il Mulino, 2020) insieme a Manuela Olagnero e Marianna Filandri.

 

Quali sono gli effetti del Covid sulle città?

Chiaramente quel modello di sviluppo legato a eventi, turismo, ingresso in città di grandi masse di utilizzatori temporanei è collassato, uno stallo che rimarrà fino a quando non arriverà un vaccino, probabilmente. Parliamo di un anno in cui avremo assenza umana nelle strade, chiusura selettiva di alcune attività e questo avrà un impatto violentissimo su un settore economico che era già fragile di suo; un’economia “leggera” che si è dissolta in paio di settimane e lascia una scia di disoccupazione e spazi vuoti, un autentico disastro economico e sociale. E una scelta, quella di destinare intere aree della città a quella determinata coltura economica, che in queste settimane si è rivelata un disastro. Certo non fa piacere fare la parte di Cassandra, ma era una questione che avevamo sollevato in tanti. Pensiamo anche a tutto quello che gira attorno ad Airbnbn che ha perso i 90% dei suoi introiti. Non che mi importi quello che ha perso la piattaforma, ma il problema riguarda chi di quella roba ci viveva, piccoli proprietari che contavano di poter incrementare o generare reddito con quello strumento e ora sono in serie difficoltà. 
Non è certo il problema dei fondi di investimento che hanno comprato dei palazzi per farne appartamenti per turisti o ostelli: quelli hanno le spalle grosse per riconvertirli a lungo termine e non perderci eccessivamente. 
Il problema è per il singolo proprietario che magari aveva investito sull’alloggetto o la mansarda, magari spendendo migliaia di euro per metterlo a posto e ora si trova con lo spazio vuoto. Potrebbe affittarlo a lungo termine ma a chi? In questo momento non ci sarà un ingresso in città di nuovi abitanti, quindi a chi lo affitti? Potresti affittarlo agli studenti, ma non siamo nemmeno sicuri che a settembre prossimo arriveranno così tanti studenti come l’anno scorso. Residenti che non avevano trovato affitto in città? Sì però erano stati sbalzati fuori dal mercato dell’affitto regolare perché molti di loro avevano problemi di reddito; e se avevano problemi di reddito fino a tre mesi fa cosa ne sarà di loro tra un mese? Quindi il proprietario che non voleva affittare a lungo termine tre mesi fa perché aveva paura di trovarsi un inquilino moroso, lo affitterà adesso che la probabilità di avere un inquilino moroso è ancora più elevata?
 Naturalmente se avessimo uno Stato saggio immetterebbe immediatamente liquidità più nelle famiglie che nelle imprese, ma mi sembra che non ne stiamo ancora seriamente parlando a livello europeo.

E che ne sarà di tutti quei progetti di investimento o rigenerazione avviati?

Pesava prima e peserà ancora più dopo la differenza tra città. Città come Firenze, Venezia, Roma o Milano che hanno delle economie molto differenziate e molto potenti continueranno a mantenere attrattività in un’epoca Covid o post-Covid; per città come Bologna o Torino invece questa situazione significa il fallimento di quel tipo di investimenti. Lo si vede già ora. A Torino, ad esempio, molte iniziative commerciali importanti che dovevano aprire in città sono scappate. Lo stesso mercato centrale che aveva aperto un anno fa ha chiuso a inizio marzo e forse non aprirà mai più.
 In molte aree vedremo, quindi, una grande produzione di vuoto e di spazi abbandonati.
 Pensiamo anche a quei nuovi grandi studentati che stavano per fare ingresso nelle nostre città: chi ce lo dice che l’economia dell’istruzione elevata continuerà a crescere come negli scorsi anni? Guardando alla scorsa crisi, potremmo pensare anzi che le famiglie decideranno di congelare l’iscrizione alle università dei propri figli per un anno o due. Questo vorrà dire meno mobilità interna di studenti e meno bisogno di posti letto, quindi il fallimento anche di quegli studentati lì.
 Ammenoché lo Stato non decidesse di fare come ha fatto la Germania nel 2008 che annullò tutte le tasse universitarie per evitare che ci fossero diminuzioni del flusso studentesco.
 Su molti progetti di rigenerazione la questione è esattamente la stessa. Dove è possibile fermare la macchina, tutti si fermeranno.

Ci sarà qualcosa che potrebbe cambiare in meglio?

Io non credo che le élite economiche e politiche attuali abbiano alcuna intenzione di rivedere il modello di sviluppo adottato fin qui. La soluzione classista che si fa strada per il settore culturale è emblematica: non potendo garantire assembramenti si procede per sfoltimento di pubblico; non potendo sbigliettare per mille persone, lo si fa per 100 facendo pagare quel biglietto molto di più, mentre altri gli si garantisce la diretta streaming a basso prezzo; l’aristocrazia che torna a prendere possesso dei teatri e della cultura e il popolo che se lo guarda in streaming nella smart city.
Penso anche alla ristorazione. Il ristorantino con tavoli attaccati è praticamente morto se non si converte al delivery. Rimarranno i ristoranti con grandi superfici, di alta gamma, che ridurranno i numeri dei tavoli e aumenteranno i prezzi. Ci sarà, quindi, una selezione molto violenta.

Che fine faranno i nostri quartieri pieni di bar e ristoranti?

Verrano de-densificati velocemente. Sta già avvenendo. E alla fine del lockdown ci sarà un crollo delle riaperture. Quindi per almeno un anno la movida sarà annullata. Al di là del vaccino e di quando arriverà, è evidente che una parte di quel comparto non potrà sopravvivere. Avremo un ritorno alla normalità pre-movida, arrivato però con lo shock di una pandemia e con migliaia di posti di lavoro andati in fumo e non con una politica consapevole. Non era quello a cui pensavamo noi quando suggerivamo ai nostri amministratori di andarci piano.

Alcuni ipotizzano per il futuro una vita molto più di vicinato con la scomparsa dei distretti/zone e una redistribuzione delle attività nei vari quartieri. Che ne pensi?

Le nostre città non sono New York. Non hanno quella grande quantità di capitali per i quali riescono a reagire rapidamente e rimodellarsi in base ai cambiamenti. Il fatto che una città possa assorbire uno shock come quello attuale e ridistribuire le attività sullo spazio urbano implica che ci sia una grande capacità di spesa degli attori economici. Pensiamo a tutti quei localini che avevano aperto da poco: quei bassi lì che fine fanno e come vengono occupati? E anche in un quartiere meno denso, chi ci va a stare lì?
 È bella l’idea del vicinato che rifiorisce, ma con quali soldi e per fare cosa?
 In molti di questi discorsi che fanno gli architetti, c’è un piccolo elefante nella stanza che si basa sull’idea di qualche forma di crescita costante. Lo scenario che invece abbiamo avanti è lo scenario di una recessione che durerà parecchio tempo e quella distruzione di reddito e di capitale avrà le sue gravi conseguenze. Anche con un reddito universale potremmo permetterci l’essenziale e ci sarà una contrazione di consumi molto importante.
 Ovviamente la recessione non avrà per tutti lo stesso effetto: i quartieri centrali la subiranno in maniera diversa dalle periferie. Ma a quelli che abitano nelle mille periferie italiane che vita di comunità gli si prospetta?

Cosa ne pensi, invece, dell'idea secondo la quale a causa del telelavoro molti sceglieranno di andare a vivere fuori dai grandi centri abitati, con una conseguente riduzione della densità di popolazione e un ritorno alla suburbanizzazione?

È uno scenario troppo veloce rispetto alla realtà. Quello che sta succedendo adesso, e che in parte avevamo visto con la crisi del 2008, è un crollo del mercato immobiliare legato a un sostanziale congelamento delle compravendite. L’Italia ha una grande fetta di popolazione proprietaria e davanti a un abbassamento dei prezzi saranno in pochi a potersi permettere di vendere la casa. Chi ha più case potrà ovviamente scegliere di spostarsi (parliamo di un 15% della popolazione italiana), ma tutti gli altri per farlo avrebbero bisogno di vendere e non riusciranno a farlo a breve.
 Mi sembra invece più realistico immaginare un’immobilità urbana e spaziale che segue l’immobilità di movimento che stiamo sperimentando. Poi come usciremo da quest’immobilità è una cosa aperta ed è azzardato fare previsioni.

Quali i rischi e le opportunità per le città, quindi?

Una cosa chiara a tutti è il nesso tra ecologia, economia e società. Cosa ce ne faremo di questa consapevolezza non lo so. Ma a tutti gli abitanti dell’area padana dovrebbe, ad esempio, essere arrivato il messaggio che l’esposizione al particolato atmosferico aumenta la possibilità di ammalarsi gravemente di patologie respiratorie. Questa cosa in teoria dovrebbe avere un impatto enorme, come anche gli animali per le strade, l’aria respirabile, la ricomparsa dei suoni nelle città…
Ma dobbiamo fare i conti con una parte molto importante del nostro paese che ragiona ancora con lo schema precedente.
 Sembra un po’ il finale del primo Matrix: il virus alza la cornetta e rivela la verità. Sta alle persone per capire il messaggio. Nel film non va tanto bene, e Matrix 2 ci dice che la lezione non è servita.

La gentrificazione è, quindi, bloccata o continuerà?

Bisogna innanzitutto cosa si intende per gentrificazione. Tenendo per buona quella che ora tutti chiamano gentrificazione, ovvero quella parte legata al turismo e agli eventi, per uno o due anni è morta. E se anche dovesse ripartire, il turismo ripartirebbe solo per un segmento alto con un ritorno un po’ all’800: i ricchi al lago o nel grande museo e il resto della popolazione che sta a casa e se è fortunato lavora davanti alla tv. 
Però la continua creazione di periferie e di ghetti, con i quartieri più ricchi blindati al centro, quella non viene messa in discussione. La crisi acuisce le disuguaglianze: chi era già povero sarà molto più povero, chi era ricco sarà comunque più ricco degli altri, chi era in mezzo scivolerà verso il basso. Da questo punto di vista non vedo un miglioramento sul piano residenziale abitativo della gentrification, anzi.