Giuseppe Della Monica è stilista e grande conoscitore di Porta Venezia. Campano dentro, dalla costiera amalfitana e agile viveurs della comunità lgbt+ del quartiere. In questi termini si legge il suo modo d’intendere la moda, che mescola la convivialità della zizzuna, la grondante mozzarella, e quel libertinaggio che gli è proprio. DELLAMONICA è il brand, e ci vedrete tanto le suggestioni del Bel Paese quanto l’attenzione ai locals, sia quelli di Porta Venezia che quelli della costiera.
Parliamo di te, Giuseppe, che cosa ci dici dei tuoi capi e rispetto a Porta Venezia?
Perché voglio fare Miss Italia, dici? Magari mi trovo un fidanzato. [Ride.] No, cambiamo registro: sono arrivato alla conclusione che tu non puoi fare più niente. Se hai un’aspirazione alta, questa deve per certi versi coincidere con un’aspirazione alla fama, e a me molto sinceramente manca. Nel senso che a me piace semplicemente fare il mio lavoro, e vorrei che questo fosse apprezzato indipendentemente dal posizionamento che ho con un pubblico. Da me si dice “fai bene e non lo dire”. Ecco, questa è la motivazione per cui voglio o non voglio fare Miss Italia, piuttosto mi sento, come tutti, una ragazza di Porta Venezia, che è una cosa che il me bambino, dal paesello sulla costiera amalfitana, non avrebbe mai immaginato di essere.
Chi è la ragazza di porta Venezia?
Tutti, pure mio padre è una ragazza di Porta Venezia. Perché alle notti al Rainbow viene anche lui, conosce gente, chiacchiera con l’Elinor… passo al kebabbaro e mi chiamano “Angelo”, e non so dirti se lo faccia perché sanno che sono gay e mi prendono in giro, o perché mi vogliono bene. Però è questo: sentirsi parte del quartiere, del palazzo, una parte dell’asfalto. Ci si gode il quartiere con una buona dose di empatia.
Raccontaci il quartiere allora, che ruolo ha avuto per te? Come ce lo descrivi? Vai a braccio.
Porta Venezia è libertà e indipendenza, e in fondo per me Porta Venezia è Milano e Milano è Porta Venezia. Anche quando vivevo altrove, a Porta Romana o a Tortona, casa mia era qui. Non c’è mai stato altro che Porta Venezia. Il Picchio, la Trape, Aurelio e il gruppo di Drag, il Toilet, La Boum, tornare alle cinque di notte e trovare puntualmente il McDonald di Loreto pieno di gente. E poi lo Spazio Maiocchi, uno dei miei posti preferiti, l’appuntamento fisso, soprattutto durante la settimana della moda. Per non parlare poi delle sfilate che avvengono qui, in giro per il quartiere, tra le case, con le vie che si riempiono di paparazzi, il Metropol che diventa come lo stadio di San Siro, dove magari ti trovi davvero Cristiano Ronaldo, per dire. O il PAC, o al palazzo Serbelloni, dove sfila Camera Moda, insomma bisogna dire che anche al di fuori dei momenti del Fuorisalone Porta Venezia è sempre così, perché questo in fondo è Porta Venezia. Oppure pensa al Pride: quando vedi le signore sui terrazzi, le vecchiette sui balconcini a guardare la parata, non è bellissimo? Poi, per quanto mi riguarda, è stato un posto importantissimo. L’ultima cosa e ti chiudo i discorsi lugubri, promesso. Io ho fatto coming out con i miei genitori il primo anno che ero a Milano, otto anni fa. Nessuno dei due l’aveva presa bene, ma mio padre si convertì vivendo un poco il clima di Porta Venezia. Accadde in una delle tante cene a base di mozzarella che facevamo a casa mia, quando mio padre arrivava da giù. C’era questa ragazza, un’amica, che si sfogò rispetto alle difficoltà dei suoi genitori di avvicinarsi alla sua sessualità. Mio padre ascoltò tutto, si mise a riflettere, forse si riflesse nelle sue storie, e cambiò completamente idea. Per me anche questo evento è Porta Venezia. E infatti, ho invitato sia mia madre che mio padre al prossimo pride.
Ci hanno raccontato diverse storie, infatti, della centralità del distretto lgbt, soprattutto rispetto alla provincia. Storie di ragazzine e ragazzi che prendono il passante e vengono qui, perché qui è dove possono sperimentarsi ed esprimersi.
Guarda, è quello che dico sempre a Zaini, o a Deb. Che loro non hanno idea delle opportunità che danno, delle libertà che creano con i loro locali. È grazie a loro che ragazzine e ragazzini di quindici anni della provincia trovano una certa indipendenza, il venerdì sera, andando a bersi un drink in via Lecco al Red, da LeccoMilano, al Rainbow e via dicendo. Lo so perché la stessa cosa è successa a me: capire che qui puoi prenderti piccole libertà, espressioni che non avrei potuto permettermi nel paesino in costiera amalfitana. Banalmente, posso sentirmi libero di dirti che quel tizio di fianco a noi è bono, e vivermi comunque la mia vita serenamente, con una certa facilità. Questo secondo me è quello che sente chi vive in porta Venezia.
Torniamo a te con una domanda mirata. Ricordo l’evento per una tua collezione nel 2019 dal nome memorabile: Vrenzola.
Vrenzola fu nel febbraio 2019, lo stesso giorno che è morto Karl Lagerfeld, lo ricordo perché la mia coinquilina mi mandò un messaggio scrivendomi “è morto il re viva il re”. L’idea della collezione era fissare una mia pseudoidentità, trovarle un nodo estetico e tematico che mi appartenesse. Da qui il nome, vrenzola. Io ho fatto le scuole superiori in un professionale perché c’era l’indirizzo di moda. Ma si sa, le persone che frequentano questi istituti tendenzialmente non hanno voglia di fare un cazzo nella vita. C’erano gli indirizzi di meccanica, odontotecnica, ed erano tutti maschi a parte il mio indirizzo, e nell’indirizzo io ero ovviamente l’unico maschio. Non ti voglio fare immaginare l’omofobia e il bullismo [ride]. Venivano tutti da brutte periferie, e le ragazze erano tutte vrenzole: che si mangiavano un panino con le patatine fritte alle 10:30, fumavano nei corridoi, in classe con le professoresse… bellissimo. Non persone acculturate ma sicuramente intelligenti, le prime con cui ho fatto coming out. E sono stato felice di dedicargli questo progetto. Alla presentazione in Palestro, con le mozzarelle portate da papà e i pomodori, una situazione da condivisione come a casa mia, c’era Andrea con la gonna, una foto di sesso esplicita, Giulia con dei seni giganteschi, insomma, figure ed elementi che m’appartengono. E Vrenzola era quell’unione tra la borghesia e l’eccentrico di paese. Che è quello che sono io, anche rispetto alle provenienze dei miei genitori. Mia madre borghese, con mia nonna che aveva la sala da pranzo, i pianoforti, i set di posate, tovaglie e tovaglioli di stoffa. E mio padre, con cinque fratelli, tutti a mangiare in cucina con decine di persone, amici, parenti, zii, cugini, tutti con orari diversi e pranzi che duravano un pomeriggio intero.
Nel frattempo, è passato un anno di pandemia. Che hai fatto, come l’hai vissuta? Male come (quasi) tutti?
Peggio, ero in costiera! Mi ha un po’ devastato, soprattutto perché sono dovuto rimanere fermo dopo un anno bellissimo. Nel 2019 avevo trovato un mio showroom a Parigi e un altro a Tokyo, dove avevo portato la collezione Immigrant o I’m migrant, che nasceva da tutto il razzismo che si leggeva e sentiva ovunque. Era il momento di Carola Rakete, e mi feci tutta una ricerca sugli italiani che emigravano nel Novecento, mettendoli a confronto con i migranti di oggi. Non cambia un cazzo di niente. Anzi, mi sono trovato delle cose in Canada, in francese, davanti ai bar o ai negozi: Vietato ai cani e agli italiani. Oppure manifesti di Lincoln che spara, di italiani che escono dai reflussi delle barche, assassini, e quindi ho provato a fare questo esperimento, ed è finito a Parigi e a Tokyo. Erano le mie prime cose, e la mia autostima stava salendo vertiginosamente, devo dirlo. E poi la pandemia mi ha fatto saltare una stagione, quella di settembre. Ora sono su questa piattaforma, AltaRoma Showcase, e sto lavorando a un’uscita per l’autunno.
Cos’hai in programma?
Oggi mi sto concentrando sulle mie radici, che sono da sempre dentro alle mie collezioni, tenendo sempre ben presente il mio essere queer, abitante della comunità lgbt a Porta Venezia. Pensa che la mia tesi era sul pranzo della domenica, ispirata alle mie nonne. Così come la collezione dell’anno scorso, che era intitolata 25.04.1993, che è la data del matrimonio dei miei genitori. Volevo fare questa festa al Sud, tutta basata su un’idea di condivisione con cui sono cresciuto, che mi ha insegnato la mia famiglia, il territorio, un certo modo di vivere in comunità, assieme. Un esempio a caso, è che io e l’Elinor ci consideriamo quasi fratello e sorella, se arrivo con tre buste di mozzarella gliene porto una subito a lei, e lei mi regala sempre il berberè per mia madre.
Ci sono le vrenzole a Porta Venezia?
Tantissime. La M¥SS è una vrenzola, e non è mai messa la mia maglietta. Che poi, ora, se vai da una napoletana e le dai della vrenzola quella si offende, ma capiscimi: qua s’intende un’immagine di donna menefreghista che fa quello che vuole, si comporta come desidera. Un po’ una ragazza di Porta Venezia.