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Inksist

La piattaforma curatoriale del tattoo ai tempi del format e del collettivismo

quartiere Calvairate

Written by Piergiorgio Caserini il 28 October 2021
Aggiornato il 5 November 2021

Foto di Fabrizio Albertini

Che cos’è oggi il tatuaggio? Più o meno tutti lo siamo. Ma molto spesso, non sappiamo perché. Si fa, e morta lì. D’altro canto, possiamo cercare risposte nel passato. Tanto tempo fa, in una montagna poco lontana, il tattoo venne usato con agency taumaturgica. Ötzi, la mummia alpina, s’infilava aghi intrisi di sostanze erbacee. Oggi ad andar bene ci limitiamo a un’estetica personalistica e per molti aspetti legata a un merch sottinteso ai più. Questo non è il caso di Inksist: collettivo e piattaforma indefinibile – artisti, disegnatori, ricercatori, performer… – che s’appresta a riconsiderare le scene del tattoo in altri ambiti, tra format psichedelici e commistioni espressive.

«Il tatuaggio come pratica performativa, come un’esperienza unica e non reiterata e banalizzata dalle classiche dinamiche del negozio.»

Come nasce Inksist?

Inksist nasce nell’ottobre 2018. Sandro era da poco tornato da Lisbona, dove aveva conosciuto diverse scene di tatuatori underground negli squat della città. In quello stesso periodo alcuni tatuatori da varie parti di Europa stavano cercando in Italia degli spazi indipendenti dove poter esprimersi, avanzando richieste a Macao per essere ospitati. Diciamo che erano anni che in Europa si respirava una tendenza nel tattoo, rispetto a scene indipendenti dagli shop. E qui, tra le suggestioni di Lisbona, quest’atmosfera europea e lo spazio di Macao abbiamo innescato il progetto, con l’idea di mettere in piedi un luogo safe, libero da qualsiasi tipo di pregiudizio, e terreno fertile di sperimentazione per questa nuova spinta di espressione nel mondo del tattoo che si stava espandendo in Europa e in primis metterci in gioco noi in questo nuovo campo.

Qual è stato il primo momento in cui avete attivato la rete tra collettivi?

La prima uscita fu durante l’evento di We Insist. Un palinsesto che rispondeva a una pressione di sgombero da parte del comune, in cui Macao organizzò un intero mese di programmazione con tutti i tavoli per dimostrare l’intenzione di rimanere e l’impatto che si aveva. C’eravamo anche noi, con una specie di Tattoo Convention di un giorno (One Day Long Tattoo Convention) con artisti come Pelorosso e Jesicca Rubbish, ragazzi italiani da Londra. In quell’occasione nacque il primo gruppo, con cui ci trovammo immediatamente in sintonia: noi, Lukino Tattoo, Goomotoy, Primitivo e QG Tattoos, e ora siamo rimasti in due, una specie di vecchia coppia. In breve, Inksist comincia lì, con uno spazio dentro Macao, la prospettiva di chiudere tutto da lì a un mese – dato i tempi presupposti per lo sgombero – e l’intenzione di fare quello che ci pare. Ovviamente, da qui arriva anche il nome: Inksist, We Insist.

 

In pratica il legame con Macao vi ha dato una spinta, una possibilità di far accadere degli eventi.

Macao è stata, in fondo, il locus amoenus dove tutto è nato e tutto è mutato. Una realtà che ci ha permesso di fare degli step, di fare dei salti. Pensa che tra noi non c’è nemmeno un professionista. Nel senso che nessuno ha avuto una formazione negli studi di tatuatori, nessuno ha mai praticato professionalmente questa strada. Noi due abbiamo fatto studi di design e architettura. Nessuno appartiene a scuole particolari, e questo anche grazie a Macao e alle partecipazioni ai vari tavoli di organizzazione. E poi non fosse stato Macao, sarebbe stato difficile pensare di invitare tutti i guest dall’Europa. Berlino, Londra, Lisbona… perché noi volevamo partire da lì: dall’idea che per scansare la dimensione del tattoo-shop avremmo dovuto ibridare il tatuaggio con altro. In una parola: eventi, con artisti di tutta Europa, installazioni, musica, insomma pensare il tatuaggio come pratica performativa.

Esistevano già scene simili in Europa?

Nel resto d’Europa è improprio parlare di scene, perché già da anni esistevano gruppi e iniziative, collettivi di quel tipo. Insomma, erano già modi attestati, comuni, di pensare il tattoo. Certo, molte volte si trovavano o nascevano nelle realtà underground, ma quella sorta di “side-b” del tatuaggio era già un dominio comune. Per esempio, a Berlino c’è il Fantasy, ​​che prende una sua posizione importante all’interno del machismo tossico che spesso si può trovare all’interno dei tattoo shop tradizionali, costruendo una proposta artistica includendo prettamente la comunità queer. A Londra scene simili avvenivano nelle warehouses. Pelorosso e Jessica Rubbish, per esempio, arrivavano dal Pleasure. A Lisbona uno studio che ci ha ispirato molto è stato il Fiasco . Solo qua in Italia non c’era, e in fondo l’abbiamo fatta nascere noi.

Insomma, c’è di base la volontà di essere indipendenti dagli studi e un twist sulla concezione del tattoo: da commerciale, reiterato – penso ai classici album di disegno, sfoglia-sfoglia-scegli – e una dimensione più espressiva del tatuaggio. Quasi accidentale. Del tipo: chissà che cosa mi ritrovo dietro la schiena da Mario, amico di Lodi?

Esattamente! Prima di questo twist il tattoo era legato alla solita gavetta, a quei due o tre anni passati a pulire le stazioni degli altri e solo dopo, forse, lo spazio e la disponibilità per tatuare. Ovviamente una situazione così sta stretta. E lì, disegnatori, artisti, insomma persone che sapevano il fatto loro ed erano convinte delle proprie scelte hanno scelto per il DIY. Mi prendo una macchinetta, aghi e inchiostri e provo sugli amici e su me stesso. Lì Instagram svolge una funzione fondamentale, di promozione, che riesce ad accantonare la scelta, una volta obbligata, dello studio e della professionalizzazione. Rispetto all’estetica, parliamo qui di un classico tabù. Si pensava sempre il tatuaggio come qualcosa di raffinato, spesso inscritto in una certa estetica e un certo simbolismo. Quasi non c’era via di fuga. O quello, o merda. E qui ha svolto una funzione il DIY: perché il non aver appreso tecniche particolari o stilistiche precise ha spostato la pratica e le forme del tatuaggio da un’altra parte. Dai disegni ai pattern al modo di realizzarli. Ormai, per esempio, l’errore è praticamente interno a certe concezioni stilistiche.

Un vostro grosso evento fu “Mapping Skins”, che anche qui aveva i presupposti del collettivo esteso, aperto, e presentava il tatuaggio come una pratica variegata, legata all’atto performativo. Come si è sviluppato l’evento?

“Mapping Skins” era una residenza di una settimana per tatuatori, o comunque di gente affine al tatuaggio. Fotografi, artisti, performer, musicisti… L’idea per quell’evento nacque dalla constatazione che tra noi, tra collettivi di tatuatori, ci si conosceva tutti ma soltanto virtualmente. Decidemmo di organizzare questo incontro. Tutti invitati. Una settimana in un posto, a vivere insieme con artisti di tutta Europa; un confronto lungo sulle rispettive tecniche e le rispettive idee, insomma un’equazione che poteva soltanto dare come risultato degli esperimenti folli. Caro Ley per esempio proiettava delle foto di famiglia sulla schiena di Marika e ne tracciava dei pezzi, ciò che ne è risultato è stata una composizione completamente astratta, ripercorrendo una sorta di tracciato emozionale. Servadio da qualche anno porta avanti un progetto chiamato “Body of Reverbs”, un rituale sperimentale di tattoo, dove con dei microfoni a contatto disposti sugli aghi usa la pelle come un tamburo. L’ago è anche collegato a un mixer e a un sound designer, che nel mentre elabora e compone in pratica la traccia sonora. La pelle diventa strumento e spartito. Oppure Mik Boiter lavorava sull’agopuntura, partendo dalla scoperta che Ötzi, la mummia ritrovata vent’anni fa sulle Alpi, recava tracce di tatuaggi operati con erbe mediche. Da lì si può pensare al tatuaggio come pratica taumaturgica, una cosa radicalmente diversa da oggi. Caro Ley ci insegnava anche come fabbricarsi gli aghi, come si faceva tradizionalmente una volta, saldandoli tra loro, ma sperimentando su nuovi pattern, sul segno e il riempimento, o ancora Servadio e Ruco, con “STILLIFE BRÜKE, un progetto che prevede una live tattooing session, nella quale viene rappresentata, spesso sulla schiena del tatuato, ciò che accade in quel momento di fronte ai loro occhi. Oppure durante la performance finale della residenza c’era Jean (Tender Boy), che si tatuava la testa da solo, con uno schermo appoggiato al suolo dal quale si guardava la nuca. Si è tatuato l’hangar di Macao, e poi è venuto a tatuarlo sulla schiena di Sandro, che a sua volta si è fatto tatuare da tutti gli artisti della residenza in una sorta di meta STILL-LIFE BRUKE collettivo. La sua schiena ora è una mappa, su cui è possibile leggere, attraverso i segni impressi su di essa, la storia di questo incontro.

Insomma, fu una mega performance collettiva, di eventi eterogenei e tutti legati al tattoo che avvenivano sotto il nome di Mapping Skins. Diventammo uno strano laboratorio interno a Macao, collaborando con tutti i tavoli. Disegni, stampe, serigrafie, sculture, set, installazioni… Una sorta di annientamento dell’autorialità, una Long Lasting Performance.

Dal tatuaggio al format, attraverso il collettivo. Qual è il punto, per Inksist, di riflettere sulle commistioni di pratiche a partire dalla pelle tatuata?

Mapping Skins è stato un po’ il picco e allo stesso tempo il fulcro di Inksist. Che è quello che vorremmo continuare a fare: senza nessun confine se non la pelle. Sperimentare, giocare con quello che si ha. La cosa figa è che molti, come noi, vogliono portare il tattoo altrove. A Ginevra un amico sta elaborando una tesi sui rapporti tra tatuaggio e arte contemporanea, e Mapping Skins è un riferimento. Ci ha detto che avrebbe potuto essere un lavoro da museo. E avrebbe spaccato. Perché è stato un momento al di là dell’atto performativo, al di là della forma. E forse Mapping Skins valeva per questo, perché era un’ibridazione tra generi e pratiche con un approccio ludico. L’idea per i prossimi tempo è di portare queste esperienze esclusivamente a livello di format, non più su Instagram. Non è questione di farsi i tatuaggi, di fare il lavoro del tatuatore, ma di pensare il tattoo come media, come pratica espressiva. Pensando a Santiago Sierra, e ci si chiediamo cosa porta, socialmente, l’essere tatuati oggi. 

Insomma, qui per Inksist il tattoo è sempre una pratica performativa – quasi che il tatuaggio fosse soltanto l’inizio, il pretesto, per entrare in una dimensione espressiva?

Guarda, ti raccontiamo un altro evento divertente, a Bruxelles. La Feet First Fair, una fiera dell’editoria indipendente organizzata da Filippo Moia e Pietro Fareri la cui prima edizione fu a Londra, poi a Macao e infine lì. C’erano delle persone di Milano e tra queste c’eravamo noi, che per l’occasione avevamo fatto una fanzine. Era il manifesto dello studio, lo vendevamo a 150 euro. Che era un costo simbolico, in verità era il costo dei tatuaggi compresi con essa. E poi Sandro si è rotto la mano. Al secondo giorno, con lo skate. Ci dovevamo inventare qualche cosa, e abbiamo deciso di legarci tutti una mano dietro la schiena, e coinvolgere il pubblico per strecciare la pelle durante le sessioni.

Per Walk-In Studios avete fatto una torta. Cosa si festeggiava?

Spazio Marea ci ha invitato a festeggiare il loro compleanno, e a tutti gli artisti coinvolti ha chiesto un lavoro edibile, casualmente nello stesso periodo cadevano i nostri tre anni di Inksist. Abbiamo deciso di realizzare una fan-art-cake. Con una pelle in pasta di zucchero, decorata con tattoo realizzati da  noi e dai vari guest passati in tutti questi 3 anni. E poi ce la siamo mangiata. Una specie di cannibalismo.