In occasione della X edizione di La Terra Trema, appuntamento dedicato a vini e vignaioli autentici e indipendenti, agricolture periurbane, cibo e poesia dalla terra, abbiamo fatto una chiacchierata con alcuni tra gli espositori, scelti con gli organizzatori, dell’evento novembrino al Leoncavallo perché tra i più rappresentativi della manifestazione: oggi è la volta di Daniela Quaresima (Cupramontana – 25/6/69), dell’Azienda Agricola La Marca di San Michele a Cupramontana (AN), Marche.
Zero – Hai un ricordo d’infanzia legato al vino?
Daniela Qauresima – Diciamo pure che ho un’infanzia legata al vino. Entrambi i miei nonni facevano il vino, attività comune per chi abitava in un piccolo centro rurale come Cupramontana. Uno in particolare, mio nonno Lello, il nonno paterno: lui viveva per il suo vigneto, la sua cantina, il suo nettare e la sua fisarmonica. Era un maestro nell’arte di fare il vino e in tempi di vendemmia, con l’acqua fino alle caviglie, mi faceva stare con lui in questa cantina illuminata solo con una lucina e io ero felice perché potevo tirar tardi anche durante i giorni di scuola. Ero con il nonno e non mi poteva succedere nulla e voleva dire che sarei andata a letto prima dopo la scuola.
Con lui credo di avere cominciato ad assaggiare il vino ancora prima di essere sui banchi. Non era peccato, non era grave, si faceva e basta. Con serenità. Poi il mio babbo con la mia mamma e gli altri nonni avevano una trattoria e osteria, imprenscindibili dal vino e dall’olio. E siccome mio padre non era contento di mandarmi all’asilo dalle suore, mi portava sempre con lui a comprare capponi, conigli e dell’altro vino dagli amici del nonno. Quello era il mio momento con il babbo. Solo mio e il mio babbo. Mi faceva assaggiare il vino prima di acquistarlo e mi faceva credere che avessi un buon palato e buon naso e che dalla mia opinione dipendesse l’acquisto del vino in questione. Mi piaceva tanto. Mi faceva sentire bravissima.
Puoi presentare la tua azienda e la sua filosofia? Come hai iniziato a produrre vino?
Se nasci a Cupramontana, anche se poi te ne vai a vivere sulla Luna, il Verdicchio ti segue ovunque. Quindi siamo cresciuti facendo vino e con il terrore della grandine (anche se tanto a San Michele non grandina mai), il pensiero delle rese, i traffici notturni… insomma tutto questo fa parte di noi. Alessandro, Beatrice e io abbiamo avuto la possibilità di cominciare a lavorare nei terreni di famiglia frutto di una delle tante separazioni familiari. Tutti e tre capitammo a una fiera di Vignerons Indépendants a Lione e ci prendemmo una cartella in faccia meravigliosa e qualcosa cominciò a muoversi. Con Alessandro vivevamo tra Dublino e Parigi quando a lui, stanco di fare quattro lavori per continuare a fare il fotoreporter, venne l’idea di estendere le radici verso quell’angolo di mondo a lui, a noi, tanto caro: San Michele. Volevamo solo la nostra casetta, un vigneto, cani, amici, pargoli e tanta tanta musica. Ci capitò la fortuna di ricevere questi sei ettari già vitati – non proprio un vignetino – tirammo dentro Beatrice in questo sogno (la quale ci ha creduto fortemente con tutto il suo entusiasmo e inesauribile energia e dedizione) e siamo partiti. Siamo stati dei privilegiati a far crescere il nostro sogno: il vigneto non solo esisteva già, ma era nostro. Dobbiamo tanto a nonno Fernando e a nonno Lello per essere stati lungimiranti e attenti custodi di quella meravigliosa terra.
La nostra filosofia? Ma perché ne abbiamo una? Vorremmo custodire la nostra terra, farla esprimere, restando lontano da tutto ciò che non le fa bene e non ci fa bene, concetto questo da estendere a tutto; dalla chimica alla sfruttamento intensivo di risorse e persone, delle sopraffazioni, alle ingiustizie, al fascismo celato e non, alla musica che ci intossica.
Quali sono i vini che producete e da che uve vengono prodotti? Ce ne è uno di cui vai particolarmente fiera?
Noi produciamo Verdicchio in primis. I vigneti ci sono stati lasciati così, con un’assoluta prevalenza di Verdicchio e noi questo lavoriamo. Il lato femminile va fiero del NumeroZero, il nostro metodo classico, mentre mi sento di poter dire che Alessandro è molto soddisfatto del Passolento, la nostra riserva che strizza l’occhio alla Francia, o almeno quella è l’impronta di Alessandro, ancora con la Francia nel cuore.
Dal 2011 produciamo anche il BastianContrario, un Montepulciano in purezza, ma non si può scrivere, un rosso sulle colline dei bianchi.
Quante persone lavorano da voi? Accogliete richieste di giovani che vorrebbero lavorare in un’azienda vinicola?
Siamo noi 3 più altri tre amici che abbiamo assunto. Certo che le accogliamo e anche molto volentieri.
Come descriveresti La Terra Trema? Hai già partecipato? Cosa ti ha spinto a prendere parte a questo tipo di evento?
Una delle poche certezze rimaste, e non parlo di vino, insieme a Enotica al Forte Prenestino di Roma. È la vita che dovrebbe esserci in una comunità sana, lontana dal marcio e dai social costantemente presenti. È il modo giusto di assaggiare vini, formaggi, biscotti, cian di castagne, marmellate, olio, spremute d’arancia, spalmarsi creme e unguenti naturali, sporcarsi col miele. Per me è casa, condivisione, convivialità, apprendimento, stimolo, ispirazione, il modo in cui abbiamo sempre cercate di vivere, la convinzione che il nostro modo di fare politica a Bologna a inizio anni Novanta, ai tempi dell’Università, non era fuffa come ci volevano fare credere. La Terra Trema riassume quello che di più importante per noi c’è nella vita: vino sincero, prodotti dalla terra e dalla fatica di tante persone sorridenti e pulite, musica che spacca, Paolo che urla al microfono le sue emozioni, dall’entusiasmo alla rabbia, e i ragazzi del Folletto capitanati da Laura e Gabriele che ci credono e e ci credono pure tanto.
Conosci la città di Milano? Quando sei qui dove vai a bere o a mangiare di solito? Dove possiamo comprare il tuo vino?
Sì, conosco Milano. Abbiamo tanti amici e spesso andiamo a mangiare soprattutto a casa loro, ma c’è un posto che mi piace molto ed è Vino al Vino, dove potete anche trovare il nostro.
Naturale, biologico, biodinamico, artigianale… Le definizioni sui vini si sprecano, e il consumatore è sempre più confuso. Voi come definireste il vostro vino?
Ma che ne so, mi fanno una confusione! Non faccio in tempo a capire la differenza tra il nostro modo di fare biologico e l’artigianale che track mi arriva un’altra definizione, quella di naturale. Non saprei… naturalmente artigianali? Risposta poco schierata? Ma che ne so… facciamo vino nel modo più trasparente possibile, siamo piccoli, abbiamo i calli nelle mani che hanno sempre usato la penna o il computer o avvolto cavi ai festival, non usiamo chimica né in vigna né in cantina, entro con i miei piedini a pigiar l’uva nella mastella, facciamo attenzione a che il vino viva in un ambiente pulito, che respiri se in affanno et voila. Ci piace fare il vino che ci piace e soprattutto ci piace che i nostri amici lo bevano come se non ci fosse un domani.
Naturale come definizione non mi convince, perché mi sembra una definizione imposta, demagogica. Dai facciamo vini che ci piacciono e in maniera naturalmente artigianale e sana. Ti basta?
Ma un vino artigianale è migliore a prescindere da uno industriale? O è solo più sano? È possibile avere un vino più sano per l’organismo intervenendo già in vigna?
Un vino artigianale è il vino del non ritorno. Mi spiego: se cominci a bere vini di un certo tipo, appunto non industriali, ma fatti da artigiani che ascoltano e danno voce al terroir e alla sua ricchezza, non torni più indietro a bere quelli prodotti serialmente. Troppo perfetti, in un certo senso piatti, senza sbavature. A volte mi mettono anche in soggezione. Il vino artigianale è quello che non si fa dimenticare, è quello di una serata in cui ti ammazzi di risate e ne vuoi sempre di più. È quello che ti si imprime nei ricordi, che riesci a descrivere in maniera sintetica, sono les petites madeleines di Proust.
La sanità del vino parte imprescindibilmente da quella delle sue uve. Tutto quello che dai sotto, sopra e in mezzo alla pianta te lo ritrovi non solo nel bicchiere, ma soprattutto nel terreno che rischia di diventare sterile come cemento, compattato, vuoto, morto. Tu vuoi che il tuo vino sia vivo, che evolva, che sia ogni anno diverso e questo puoi averlo solo con un terreno altrettanto vivo, aereato, con i lombrichi, le farfalle e le api. Solo quella è la soluzione. C’è questa strana convinzione che una cosa sia trattare la pianta e l’altra sia bere il vino che produci, come se i due fattori fossero separati. Non si possono separare le due cose, sno l’uno il frutto dell’altro. Più la vigna è sana e più lo sarà la tua uva e più il tuo vivo sarà vivo.
La maggior parte dei vini sul mercato sono prodotti con diserbanti, concimi di sintesi, pesticidi, ingredienti di originale animale. Sei favorevole a una normativa che costringa i vignaioli a scrivere tutto quello che c’è nelle bottiglie e come viene ottenuto il vino? Perché? In caso affermativo, pensi sia un traguardo raggiungibile in tempi brevi?
Fino ad un mese fa ero assolutamente convinta. Poi parlando con altri produttori amici e con più esperienza, ci ho ripensato un po’. Niente a che fare con la trasparenza, ma con un eventuale effetto boomerang di chi beve vino e con giudizi affrettati, superficiali e privi di fondamento. Si rischia che per essere trasparenti, si venga penalizzati in qualche modo. Ci devo pensare su un po’: me la rifai questa domanda più avanti?
Tre bottiglie che porteresti sulla Luna.
Solo tre? Nemmeno per il viaggio mi bastano. Possiamo ragionare a casse, magari miste? Sicuramente il Brazan del caustico Mario Zanusso de I Clivi così non sento la nostalgia del Verdicchio, la Bandita della nascosta punk Nadia Tavjin a quella di Fabrizio Iuli e il Boca delle mie sorelle putative Elena e Paola Conti. Poi mi imboscherei però una bottiglia di Casa Coste Piane.
Cosa bevi a parte il vino?
Da buona irlandese adottiva non appena posso torno sull’isola degli elfi e scompaio in un barile di Guinness.
Cosa significa per te bere responsabilmente? Bevi tutti i giorni?
Le parole “bere” e “responsabilmente” suonano così buffe. Non lo so, non so cosa rispondere senza suonare ipocrita. Cerco di non bere tutti i giorni, quando mi prende la mania del periodo di disintossicazione, ma poi capita sempre qualcosa da festeggiare o commemorare o affogare che insomma, be’. No dai, non bevo tutti i giorni.
E se ti è capitato di non bere responsabilmente, qual è il rimedio per una sbronza?
Cercare di riprodurre una grasssisssima colazione irlandese fatta di salsicce, pancetta, uova, pudding, bachelor’s beans, pane tostato e imburrato col burro salato, succo di arancia, tè e poi svieni o in alternativa acciughe con burro e pane tostato insieme a una sudata di qualche tipo. Ma diciamo che dipende molto dall’entità della sbronza. Tu ne hai uno da suggerire? Si provano tutti. E a volte si usano in combinazione quando la situazione è abbastanza disastrosa.
Leggi qui tutte le interviste ai protagonisti di La Terra Trema.</strong