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Ippolito Pestellini Laparelli

La Palermo di Manifesta, le ricerche sulle infrastrutture digitali e il ritorno a Milano

Written by Lucia Tozzi il 29 July 2018

Place of residence

Milano

Attività

Architetto, Curatore

Creative mediator di Manifesta 2018 a Palermo, The Planetary Garden, insieme a Mirjam Varadinis, Bregtje van der Haak e Andrés Jaque, Ippolito Pestellini Laparelli ha posto al centro della biennale d’arte la città stessa, con i suoi edifici e i suoi spazi sublimi e con le persone che la abitano o che ci lavorano, costruendo network con attivisti, studiosi e specialisti venuti da tutto il mondo (e specialmente da Milano). In questo periodo ha maturato la decisione di lasciare Rotterdam, la città che per anni è stata la sua base in qualità di partner di OMA, per ritornare a vivere a Milano, una città che dal suo punto di vista è interessantissima perché si trova al confine tra l’Europa Centrale e i territori del grande sud, dell’area meridionale e mediterranea da cui dipendono moltissimi equilibri geopolitici globali.

Pizzo Sella, Photo by Cave Studio
Pizzo Sella, Photo by Cave Studio

Palermo è una cornice magnifica per Manifesta, ha superato ogni aspettativa.
Per un’istituzione come Manifesta lavorare a Pizzo Sella, sulla costa Sud, allo Zen, ha significato reinventare il formato. Ampliare la dimensione geografica dell’evento, portare la Biennale in luoghi dove le biennali non ci sono mai, in cui le persone non sono normalmente esposti a processi di produzione culturale, non utilizzare spazi istituzionali, lavorare in parallelo all’infrastruttura culturale che la città già possiede. All’inizio l’idea era di localizzare Manifesta ai Cantieri della Zisa, per rilanciare uno spazio postindustriale che esiste già. Non era un’idea sbagliata, figuriamoci, però tra una manifestazione in un’area conclusa e invece l’interazione con l’immenso patrimonio di palazzi del centro storico chiusi al pubblico, e con i mille spazi di grande potenziale poco utilizzati, abbiamo scelto la seconda, pur accollandoci un lavoro molto più pesante: un contratto diverso per ogni location, mediazioni infinite. I Rotor, i Coloco con Gilles Clément o anche i Cooking Sections , come anche molti altri partecipanti, hanno iniziato a lavorare un anno prima dell’opening. Il processo di costruzione del progetto, insieme agli agronomi, attivisti, architetti, botanici, geografi, cittadini, è stato per noi la vera Biennale. Il risultato è solo la punta dell’iceberg.

Pizzo Sella, Photo by Cave Studio
Pizzo Sella, Photo by Cave Studio

Beh, certamente la scelta di aprire così tanti luoghi è stata intelligentissima, anche se da più parti è stata giudicata eccessiva: la magnificenza degli spazi, di Palazzo Butera o Palazzo Forcella, o dell’Archivio di Stato o dell’Orto Botanico, ha oscurato le opere d’arte, o quanto meno ne ha attutito la percezione.
Forse è vero, ma il sottotesto della Biennale è che il progetto è la città. Manifesta non è Art Basel o Documenta, non ci sono mezzi per realizzare opere e installazioni paragonabili a quelle di eventi più ricchi: e quindi abbiamo puntato su opere a cavallo tra la ricerca e la rappresentazione teatrale, che fossero innescate dall’incontro tra grandi temi di rilievo internazionale e le dimensione locale, propria di Palermo. E a essere convocati non sono stati solo gli artisti, ma anche architetti, scienziati, sociologi, persone che avessero una relazione con quei temi e fossero in grado di rappresentarli in maniera sensibile: Forensic Oceanography o Laura Poitras sono due esempi importanti, che intrecciano giornalismo investigativo, ricerca accademica, attivismo, video e altri mezzi che offrono un grado in più di conoscenza sulle politiche europee nel Mediterraneo e sulle infrastrutture militari statunitensi sul territorio siculo. In questo senso la biennale può essere intesa come un dispositivo spaziale, come nel progetto dei Rotor: un progetto molto preciso, che parla dei temi definiti da Manifesta ma lo fa agendo su un edificio cui nessuno aveva mai potuto accedere, su un’area oggetto di scandali, imponendo un punto di vista inedito. Ricalibra la questione della speculazione mafiosa rispetto al tempo geologico: da lì il senso del “giardino planetario” e la citta’ stessa assumono nuove connotazioni.

Pizzo Sella, Photo by Cave Studio
Pizzo Sella, Photo by Cave Studio

L’altra critica che è stata mossa è che alla fine Manifesta sembrava una mostra milanese, piuttosto che siciliana o anche internazionale. La presenza di artisti, galleristi, spazi indipendenti di Milano o comunque riferiti a Milano è imponente.
È vero che c’è stata una grande adesione da parte dei milanesi, tra i progetti collaterali. In realtà abbiamo avuto oltre 600 richieste e abbiamo selezionato solo 71 progetti, ma in linea di massima le scelte non erano legate a rapporti privilegiati, perché nessuno di noi, con l’eccezione di Mirjam, appartiene al mondo dell’arte. La selezione è avvenuta veramente sulla qualità: ad esempio un lavoro come quello di Alterazioni Video, Incompiuto Siciliano, che ha assommato più di 10 anni di ricerche, non poteva restare fuori. Da Palermo abbiamo scelto uno scrittore e un architetto, Giorgio Vasta e Roberto Collovà: sono due narratori della città, perché oltre ai City Scripts di Vasta anche l’ossessione quarantennale di Roberto Collovà per la costa sud di Palermo, alterata da decenni di speculazione, è puro storytelling.
Molte cose hanno cominciato a prendere forma durante la fase esplorativa, l’Atlas, che abbiamo condotto non da soli, ma insieme a moltissime persone di Palermo, dai cuochi che lavorano a Molti Volti, ai preti che gestiscono Santa Chiara, agli attivisti di Porco Rosso, ai botanici dell’Orto botanico, ai rappresentanti della consulta delle culture. A tutti chiedevamo di mostrarci la loro Palermo, e con Giorgio Vasta è stato lo stesso, ci ha fatto fare un giro di tutte le soglie della Vucciria, raccontandoci storie d’invenzione o reali su ogni soglia. Poi non tutti sono stati ugualmente disponibili: molti sono stati diffidenti nei confronti degli aspetti più ambigui di una Biennale internazionale come Manifesta.

Palazzo Forcella De Seta, Photo by Cave Studio
Palazzo Forcella De Seta, Photo by Cave Studio

Ci sono state molte resistenze?
Si, soprattutto all’inizio, nelle prime conferenze di presentazione, eravamo spesso accusati di non dire cose nuove, di escludere alcune parti o voci della città. Ma verso la fine queste tensioni si sono sciolte, anche grazie all’impegno che abbiamo messo nel creare un network su ogni progetto che coinvolgessse sempre delle persone locali, degli esperti, degli attori internazionali, in modo da moltiplicare le prospettive.

Coloco allo ZEN, photo by Cave Studio
Coloco allo ZEN, photo by Cave Studio

Beh, la complessità delle relazioni sul territorio è cosa nota, non è un luogo comune…
La città è molto stratificata, si ha a che fare con l’aristocrazia dei palazzi, fino agli abitanti della Kalsa e dei quartieri limitrofi, con cui c’è stata molta difficoltà di comunicazione. La nostra sede, il Teatro Garibaldi, è stato anche saccheggiato, insomma ci è stato richiesto un surplus di negoziazione. Spero però che non sia stato percepito come un evento imposto, ma piuttosto infiltrato nelle pieghe della città.

Workshop di Gilles Clément e Coloco allo ZEN, photo by Cave Studio
Workshop di Gilles Clément e Coloco allo ZEN, photo by Cave Studio

Che cosa resterà dopo la fine della Biennale?
Alcuni progetti, come Coloco e Gilles Clément allo ZEN o i Rotor a Pizzo Sella, hanno prodotto oltre al risultato materiale – il giardino tra le case di Gregotti, l’intervento sullo scheletro di cemento – un vero e proprio prototipo sulla metodologia di lavoro, fondato sul coinvolgimento ampio delle comunità locali, degli studenti, delle persone che ci lavorano e sulla capacità di fare molto con pochissime risorse. Sono progetti di urban commons, che possono essere replicati. Il caso di Cooking sections lavora di più sul piano delle idee: loro hanno studiato il sistema dei giardini panteschi, in cui l’albero di agrumi è riparato da un muro che crea un microclima adatto alla produzione, e gli antichi sistemi di irrigazione sul territorio siculo, recuperando le antiche tecniche in tre laboratori urbani e creando insieme alla facoltà di agronomia di Palermo, un sistema di monitoraggio degli alberi. È un tentativo di costruire una risposta ai problemi di ordine climatico ma anche politico (di accaparramento e gestione delle risorse idriche da parte di strutture criminali) legati alla scarsità di acqua. Anche dopo lo smantellamento dei laboratori questa idea potrebbe rivelarsi produttiva.

ZEN, Photo by Cave Studio
ZEN, Photo by Cave Studio

Secondo te è vero che si è invertita la situazione rispetto a Catania, che ora Palermo mostra una vitalità culturale, una vivacità superiore?
Manifesta si innesta su una visione politica di Orlando che si è impegnato a riscrivere la narrativa di Palermo: da città legata alla mafia a città di cultura, di accoglienza, di multiculturalismo. Quando siamo arrivati a Palermo la Zisa, il Teatro Massimo e una miriade di altri spazi consolidati e indipendenti già funzionavano a pieno ritmo, riuscendo a mobilitare grandi presenze, come Ai WeiWei, anche grazie alla nomina a capitale della cultura. Manifesta ha agito poi da ulteriore catalizzatore in questo processo, che Orlando ha potuto avviare anche grazie alla grande partecipazione civica che ha mobilitato nel lungo periodo della sua stagione politica. Abbiamo trovato una città che si era riappropriata della produzione culturale, dagli spazi autogestiti ai comitati cittadini ai piccoli imprenditori che fanno progetti.

Teatro Garibaldi, photo by Cave Studio
Teatro Garibaldi, photo by Cave Studio

Un tema che risulta più efficace di quanto anche pochi mesi fa si potesse immaginare, visto che avete inaugurato mentre Salvini chiudeva i porti. Anzi, devo dire che forse l’ho trovato anche sovradimensionato per una città come Palermo, perché è vero che la città è stata il crocevia di mille culture, e che il suo centro è abitato per il 20% da migranti, ma oggi è realmente attraversata da flussi così imponenti? L’impatto degli sbarchi non è più forte sulle coste meridionali della Sicilia?
Palermo è il quinto porto in Italia per sbarchi, il grosso arriva tra Pozzallo, Augusta e Lampedusa: ed è vero che quelli che arrivano sono in transito, non si fermano. La maggior parte dei migranti residenti, infatti, è del Bangladesh, non dell’Africa. La percentuale della popolazione non italiana totale in città è del 4%, mentre a Parigi e’ del 21% a Berlino e’ del 13% o Londra e’ del 37% La cosa interessante però è che la città resta un nodo di flussi diversi: ogni anno riceve un milione di turisti, contemporaneamente ai migranti, ed è poi un importante switch point di cavi di fibre ottiche che arrivano fino alsud est asiatico , uno snodo di merci, di traffici legali o illegali, di flussi di semi o germi. È raro che tutto questo converga in una sola città.

Palazzo Ajutamicristo, photo by Cave Studio
Palazzo Ajutamicristo, photo by Cave Studio

Venendo a te, che progetti hai dopo Manifesta?
Sto organizzando un mio ritorno in Italia, cerco casa a Milano.

Vuoi continuare a fare ricerca?
Si, mi interessano progetti di ricerca e curatela. Io ora insegno a Tu Delft e Royal College of Art, e con l’RCA sto conducendo una ricerca sulle infrastrutture fisiche dei dati: infrastrutture che non vediamo, inaccessibili, remote, anonime, iperprotette, ma che gestiscono, immagazzinano, distribuiscono i dati, e hanno un impatto energetico e politico enorme sulle nostre vite. Ho partecipato a un progetto su un grande data center, e quello che è interessante è che la segretezza da cui queste infrastrutture sono circondate è dovuta non solo ai protocolli, ma anche al fatto che sono private, proprietà di corporation, prive di responsabilità nei confronti della società pur avendo un rilievo geopolitico così grande. E l’immenso consumo di energia da parte di queste infrastrutture è ancora più rilevante, perché la retorica sulle smart cities e le nuove tecnologie è impostata sul risparmio energetico, mentre la massa di dati che cresce esponenzialmente moltiplica queste strutture energivore, ma invisibili: è solo un modo di sottrarre allo sguardo l’aumento dei consumi, è uno spostamento.
Un dato che mi aveva colpito molto è che circa il 90% dei dati digitali esistenti al mondo sono stati prodotti solo negli ultimi due anni.

Di cui una percentuale abissale è completamente inutile…
Si infatti, e però questo si sovrappone a dei regimi legali molto diversi. In alcune aree del mondo, come l’Europa, i dati si possono immagazzinare per un certo numero di anni e poi eliminare, ma in altri luoghi, come in Russia, è obbligatorio conservarli per sempre. Se si pensa alle conseguenze materiali di queste regole si capisce che di fatto è una situazione fuori controllo.

E come si fa ricerca su argomenti così segreti? È quasi roba da spie.
Beh si, è una ricerca investigativa. Ho avuto la fortuna di accedere a parte di questa industria, di riuscire a capire alune dinamiche, anche sul piano spaziale, su come è fatta fisicamente. Ma è veramente difficile da penetrare. La grande domanda oggi è quanto la società civile può interferire con questi flussi, come può accedere a queste informazioni, che tipo di capacità decisionale possiamo avere nei confronti di questo sistema. Noi pensiamo di potere decidere tutto da qua, ma in realtà le nostre scelte sono condizionate all’origine.

Ne parlavo anche con Delfino Sisto Legnani, ed è stupefacente il grado non solo di indifferenza, ma anche di rassegnazione con cui le persone, anche colte, accettano questo stato di cose.
Molti ricercatori e artisti lavorano su pratiche che io, più che di resistenza, chiamo di empowerment. Per esempio puoi fare in modo che il tuo volto non sia riconosciuto da scanner urbani, c’è il modo di anonimizzare i dati, etc. Out of control room è una sezione di Manifesta che riguarda da un lato gli spostamenti forzati di persone, come nel caso di Forensic Oceanography, John Gerard, Erkan Ozgne , ma dall’altro indaga i flussi (di capitale, dati, merci, energia) come il by-product fuori controllo della globalizzazione, e cerca di elaborare gli strumenti per accedervi e capirli, quali informazioni possiamo estrarre su cosa esattamente succede quando siamo su internet ad esempio. Il lavoro Citizen Ex di James Bridle, nella prima sala a Palazzo Ajutamicristo, è un’applicazione banalissima che traccia dove passano i nostri dati quando accediamo internet: può sembrare irrilevante, ma siccome i paesi hanno regimi di accesso ai dati personali molto diversi, già sapere dove vanno i dati è molto utile, perché si può decidere di utilizzare altri server, altri browser, si acquisisce una minima possibilità di governare i processi – quella che in inglese si chiama agency – senza subirli in modo totalmente passivo. Tiziana Terranova una volta ha detto: la relazione che c’è tra l’interfaccia di Facebook e il grafico relazionale in cui loro inseriscono i dati per venderli è in architettura la stessa relazione tra il quartier generale di Facebook, super friendly, trasparente, giocoso, e la terribile anonimità dei data center.

Un’altra cosa che mi colpisce molto è la vulnerabilità di questi sistemi. I cavi sottomarini per esempio. C’è un libro, Tubes, scritto da Andrew Blum, un giornalista del New Yorker che per due anni ha attraversato i luoghi dell’internet fisico: ha assistito al landing di uno di questi cavi sulla costa del Portogallo, ha visitato uno switch point, un data center di Google, e altri posti del genere, e leggendolo diventa evidente come sarebbe sufficiente un coltello per mettere offline 700 milioni di persone in India o chi sa dove.

In effetti è strano che non ci siano ancora stati episodi noti di sabotaggio o terrorismo
C’è molto cyberterrorismo, e countercyberterrorismo.

Certo, ma che io sappia nessuno ha volontariamente bombardato un data center o segato un cavo…
Beh, forse è successo e non lo sappiamo.

Un altro aspetto importante è il gigantismo dei mezzi utilizzati per costruire le reti: per esempio le navi posacavi che sono le più grandi navi del mondo.
O anche gli stessi data center, che sono strutture lunghe un chilometro e più. Una delle tipologie più in crescita in assoluto, ne vengono costruiti sempre di più. Con una velocità impressionante. Non esiste un protocollo standard, ognuno li progetta in modo un po’ diverso, ma la cosa interessante è che si tratta di un’architettura fatta per la macchina, serve a ospitare una grande serie di server, e potrebbe essere completamente automatizzata, potrebbe emanciparsi dalla necessità che degli uomini entrino un certo numero di volte al giorno al suo interno per manutenerla e controllarla. Questo permetterebbe di eliminare la luce, l’aria condizionata, e tantissimo spazio, perché le macchine possono lavorare anche a temperature elevate, ma per ragioni di costi prevale il modello tecnologicamente meno sofisticato, con grandissimi sprechi di spazio ed energia.
Il 15 e 16 settembre curo a Manifesta un Public Program intitolato Accountable Networks, sul come rendere tangibili quei network invisibili, portando ciò che è astratto a un livello sensoriale, e quindi accessibile e aperto al dibattito. Tra gli invitati ci sono Tiziana Terranova, e ancora da confermare Evgenij Morozov, più altri contributi più artistici come Metahaven.

E invece a Milano che farai, continuerai a collaborare con Prada e con gli altri con cui hai lavorato?
Qua a Milano ho lavorato moltissimo con Prada, per le sfilate e nelle prime fasi per la Fondazione. Ho fatto la mostra della Rinascente a Palazzo Reale, ho lavorato con clienti come Knoll per scenografie, installazione, e poi a Venezia per il Fondaco, però oggi mi occupo anche di cose diverse. Non sono venuto a Milano per lavorare esclusivamente su Milano, ma vorrei continuare dei progetti iniziati a Manifesta che hanno una prospettiva su tutto il Mediterraneo. L’idea è quella di guardare al footprint geografico che l’Italia ha al di fuori di se stessa, perché è un’area dove si gioca il destino dell’Europa. Certo, vengo in questa città perché vengo da qui e vorrei che mia figlia crescesse qui, e non in Olanda, ma la vera ragione è che vorrei concentrarmi sul Grande Sud.

Questo è interessantissimo: tutti vengono a Milano o tornano a Milano inseguendo questo sogno della New Milano da Bere, questa sbandierata rinascita come unica città europea d’Italia, l’eccezione liberal in un paese regredito, e altri luoghi comuni, e invece tu vieni pensandola come un nodo strategico del Grande Sud! Non sai quanta soddisfazione mi dai.
La nuova vitalità di Milano è una cosa positiva, naturalmente, sono venuto anche per quello. Detto questo, Orlando sostiene che il declino di Palermo è cominciato con i Florio, che con la loro ambizione europeizzante hanno snaturato la vocazione Mediterranea della città, mettendola nella condizione di essere sempre in ritardo, di sentirsi sempre inadeguata, marginale. È un’idea che mi ha colpito molto, perché normalmente quel periodo è magnificato e associato alla fioritura del liberty.

Un pensiero molto gattopardesco
Totalmente! Ecco, secondo me la cosa fantastica di Milano è che è una finestra su due mondi: da una parte è una città centroeuropea, investita dai capitali internazionali, e dall’altra parte appartiene all’area opposta, ai piedi bagnati dell’Europa, al Mediterraneo. È una condizione che mi piace molto: come Palermo è marginale rispetto all’Europa e all’Africa, così Milano possiede un’altra forma di marginalità, tra il centro Europa e il sud. Non mi pare paragonabile ad una nuova Londra, perché è meglio di Londra.

Soprattutto speriamo che rallenti l’acquisto selvaggio di pezzi di città da parte dei capitali stranieri, che a Londra sta producendo degli effetti aberranti.
Dipende dalla modalità con cui vengono gestiti. Ci sono città come Parigi che a un modello di deregolamentazione contrappongono una capacità di dominare i rapporti pubblico-privato straordinaria. La città non cede i terreni se non ci sono garanzie precise sui vantaggi sociali che un certo tipo di intervento può portare in quell’area urbana.