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Missing Ear

Break-Glitch, psicoacustica e ascolto attivo all''interno del suo album di debutto

quartiere Gallaratese

Written by Tommaso Monteanni il 2 November 2022
Aggiornato il 29 March 2023

Matteo Gualeni, in arte Missing Ear, è un musicista bresciano classe 94. Studia per tre anni batteria jazz al conservatorio di Brescia per poi trasferirsi a Milano nel 2017 e proseguire gli studi in musica elettronica e sound design al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Vive in zona Gallaratese dopo aver passato i primi anni a Milano in Via Tucidide 56, il villaggio artistico dell’Ortica. Fa l’insegnante di batteria, di Ableton e di Sound Design all’Accademia del Suono di Lambrate ed è manager della distribuzione dell’etichetta indipendente Beat Machine Records.

Ascoltare è Resistenza.

Ci siamo dati appuntamento al chioschetto fuori dalla Triennale per parlare del suo album di debutto, Skyquakes, uscito il 14 ottobre per la storica etichetta tedesca Force Inc. / Mille Plateaux (pre-order del vinile QUI). Al suo interno troviamo passato e presente di Matteo: tanta batteria ibridata con un sound fortemente elettronico, che qualcuno potrebbe definire Break-Glitch, e un concept molto forte che prende forma da studi di audio-percezione del suono su tutto quello che passa inosservato al nostro sistema uditivo – cosa che non è successa quando la sirena di sicurezza è scattata a un metro da noi appena ci siamo incontrati.

Tommaso Monteanni: Da quanto vivi in Gallaratese e come te la vivi in questo quartiere?

Matteo Gualeni: Vivo in Gallaratese da due anni circa e onestamente non c’è tutta questa frizzantezza artistica nell’aria che tira, anzi essendo un quartiere principalmente residenziale direi che a tratti diventa anche ostile verso quel tipo di attività che fanno “rumore”. Detto ciò spostarmi dall’altra parte della città rispetto a Tucidide ha comunque rivoluzionato la mia vita musicale, soprattutto per la vicinanza che adesso ho con Radio Raheem, che si trova appunto qua in Triennale e con cui adesso ho un costante flusso lavorativo: avvicinarmi così tanto mi ha portato a cambiare mindset nei loro confronti elaborando nuove idee e proposte che riescono a strutturarsi e prendere vita in maniera molto più agile rispetto a quando vivevo in Tucidide e la collaborazione non andava oltre lo slot singolo mensile.

 

TM: Missing Ear, in italiano “orecchio mancante”, è il nome del tuo nuovo progetto solista. Come nasce e da quali basi parte?

ME: Il progetto nasce in maniera embrionale da una residenza in Radio Raheem che si chiama W.C.W.P. (What Can We Percieve) in cui io e il mio amico Michael Barteloni, con cui formiamo un duo audiovisivo, in arte Baransu. Durante questa residenza ho iniziato a maturare delle idee su un nuovo radio show, “The Missing Ear”, in collaborazione con Daniela Gentile, mia amica e ricercatrice del suono allo Spatial Sound Institute di Budapest; è da qui che nasce l’incipit per il mio progetto solista. In una fase iniziale ci sentivamo con lei una volta a settimana per fare delle videochiamate in cui ci confrontavamo in discorsi sulla percezione acustica, incentrati soprattutto su cosa il nostro cervello capta e ascolta e cosa invece passa inosservato. Durante questi incontri è venuto fuori il concept del disco in maniera più concreta, che tra l’altro può essere ritrovato anche in una sua frase che ho inserito nel Press Kit, Ascoltare è Resistenza: riportare l’ascolto ad essere una componente attiva. Questa esortazione verso il pubblico a essere attivi si riversa in feedback anche sull’approccio alla produzione musicale e alla performance live, per aumentare e facilitare il coinvolgimento dell’ascoltatore: ad esempio tornare fisicamente sulla batteria all’interno del live al posto di un set con i synth, oltre che un mio bisogno da musicista, è un modo per includere un atto performativo che aiuti a mandare questo messaggio. Di fatto, la partecipazione attiva, che dovrebbe portare a un’attenzione selettiva, è il fil rouge del progetto in tutte le sue parti.

 

TM: Quindi si può dire che è un album di ricerca?

ME: In realtà non lo direi, non ho la pretesa di dire che la musica che ho partorito in questo album ha uno scopo di ricerca, sarebbe arrogante considerando che c’è gente come Daniela che passa le giornate a fare studi per mezzo di paradigmi sperimentali e scientifici. Quello che ho tentato di fare è partire da un approccio più metodico e accademico per portarlo all’interno di uno più estetico ed esplorativo…insomma più creativo.

TM: Il pubblico, in senso ampio, potrebbe non essere tutto avvezzo ad un ascolto così attento. Come ti rapporti nei confronti di questa parte di pubblico? In generale, hai un’idea di quale sia il tuo pubblico?

ME: Semplicemente non mi rapporto. Ho capito che devi scegliere, non puoi pensare che la tua musica possa piacere a tutti ed è anche sbagliato pensare che possa arrivare a tutti. Secondo me la cosa giusta è arrivare bene dove puoi arrivare. Per rispondere alla domanda sul mio pubblico te la rigiro mettendo il focus sui festival: se quando ero più giovane pensavo che sarei voluto finire a suonare in tutti i festival possibili immaginabili, adesso con questo progetto ti dico che mi interessa arrivare in quelle situazioni contate, come ad esempio possono essere il Berlin Atonal, il MUTEK, il MIRA Digital Arts e altri ancora, dove il pubblico è in grado di comprendere quello che stai facendo, per il semplice fatto che è interessato. Questo approccio “targettizzato” lo sto avendo anche attraverso e grazie a Radio Raheem, dove con il mio show mensile The Missing Ear mi permette di fare community con artisti e persone del settore e condividere oltre che momenti e pensieri, anche un pubblico affine e più ristretto ma anche più mirato.

TM: Arrivando qua in Triennale in bici stavo ascoltando il tuo album, e ho avuto modo di notare come si sposava bene col mio percorso fra i palazzi e le macchine. Se ti dicessi che in qualche modo mi ricorda una musica da videogame?

ME: Ti dico che è un TAG! Tante persone a cui ho fatto sentire questo disco o in generale la mia musica mi hanno detto spesso che suona da colonna sonora. Effettivamente io amo le colonne sonore e potrebbe benissimo essere il mio lavoro full time, e di fatto rivedo quello che hai detto nella mia musica. La verità è che a me piace la narrativa e questo commento che hai fatto è la cosa che più si collega al discorso degli AS (Auditory Streams) su cui viene concepito il disco: se tu non ragioni più le canzoni in strutture predefinite (Intro – Ritornello Bridge ecc.) puoi esplorare un altro modo per raccontare la musica, e se tu ti approcci alla composizione con un’altra ottica, e dunque il tuo punto di origine è diverso, lo sviluppo può prendere molte più strade. Se prendi per esempio Cocoon Crush di Objekt, che è la reference da cui ho preso maggiore ispirazione per Expa, traccia di apertura del disco, quel mondo musicale molto trippy mi piace tantissimo. Mi sono quindi chiesto come si legasse quell’universo alla mia natura da batterista, e da lì ho coniugato i break e frequenze scaglionate in maniera molto serrata. Per me tutto quello che è un sequencer ritmico è amore forte.

 

TM: A proposito di produzione, da cosa parti per le tue creazioni, batteria, basso o synth?

ME: Batteria, sempre. Ma più che batteria in sé e per sé, dalla parte ritmica: può essere un sol della tastiera che ripeto in sequenza finché non crea un tempo. Anzi per essere più precisi, il ciclo, che secondo me è la base più corposa dell’intenzione.

TM: Dalla lettura del titolo e della tracklist, l’impressione è che tu abbia nominato le tracce collegandole al concept dell’album. I titoli che mi hanno colpito di più sono “Skyquakes”, nome del disco, e “19 dB”, ottava traccia. Mi spieghi il significato di entrambi?

ME:19 dB” è il nome di un capitolo del libro “Unsound:Undead”, e parla di questa cella di massima sicurezza in Siria, Saydnaya, dove attraverso studi e interviste degli ex prigionieri viene associata questa differenza di ampiezza del suono con l’aumento della violenza del regime di sicurezza. Al netto del fatto specifico, quello che mi ha colpito è stata proprio l’attenzione che il libro dà a questi fenomeni legati al suono. Mi sono ispirato tanto al libro, anche per dare il nome a “Bodily Sounds” e all’album stesso: gli “Skyquakes” sono dei forti boati che provengono dal cielo capaci anche di far vibrare gli edifici dell’area circostante da cui provengono, ma di cui non si ha sempre una spiegazione scientifica. Seguendo il filo conduttore dell’ascolto attivo, ho chiamato così l’album proprio perché è un fenomeno davanti al quale non puoi rimanere impassibile, non passa inosservato. Un po’ come la sirena di prima per cui mi fischia ancora l’orecchio – ride, NdR.

 

T: Dentro l’album si possono sentire tante sfumature, dal jazz, all’elettronica, passando anche per qualche basso funkeggiante. Quanta consapevolezza c’è stata nel dare queste sfaccettature al disco?

ME: Una delle cose belle di lavorare a questo album apparentemente da solo, è che in realtà ho fatto più collaborazioni di quante ne abbia mai fatte prima; quel basso che hai sentito l’ha suonato Morgan Bosc, un mio amico storico che vive ad Amsterdam e con cui ho collaborato per due tracce del disco, “19 dB” e “Bodily Sounds, registrate entrambe al distaccamento degli Abbey Roads Studio proprio ad Amsterdam. Ho cercato di inserire anche questo tipo di sfumature per dare un senso di godibilità al pubblico, che non deve necessariamente essere composto da addetti del settore o studiosi musicali, ma anche da gente che ascolta per il piacere di farlo. Per quel che riguarda la componente più  jazzy è venuta fuori da sé e io l’ho accolta, non è calcolata; ha sicuramente un ruolo di bilanciamento ed equilibrio per l’album ma sono felice non sia esageratamente presente, in quanto il focus del disco non è quello.

TM: Un’altra parte di questo progetto che dimostra la presenza di un lavoro a 360° è il contenuto video che hai sviluppato insieme a Marco Ciceri. Com’è nata la collaborazione insieme a lui?

ME: Ho conosciuto Marco Ciceri proprio qua in Triennale grazie a Grand River, una mia amica artista che vive a Berlino e che collabora con lui su progetti audiovisivi. Dopo esserci scambiati un paio di feedback su musica e progetti vari abbiamo colto la prima occasione utile per collaborare, e dopo una serie di scambi a distanza è venuto fuori il video della terza traccia del disco, Lost and found – Marco Ciceri è un visual artist stanziato a Berlino; tra le sue collaborazioni più significative ci sono i Moderat, Ellen Allien ed il compositore, chitarrista e polistrumentista dei Nine Inch Nails, Alessandro Cortini, NdR.

TM: Nella creazione di un progetto c’è tutta un’elaborazione da parte dell’artista che non sa fino in fondo se arriverà o meno all'ascoltatore - banalmente, aumentare o diminuire il riverbero di un rullante. Analizzando il lavoro che hai eseguito sul tuo album, qual è l’intenzione o la componente musicale che vorresti arrivasse a chi ascolta il disco a discapito di altre?

ME: Se c’è una cosa che mi preme più di altre è che il taglio che voglio dare alle mie sonorità è di essere ritmicamente tanto presente. Che poi si noti ascoltando attraverso le batterie, i glitch o nel synth spezzato e pannato in un determinato modo non importa, basta che rimanga l’associazione ad una forte presenza ritmica.

TM: Hai già avuto occasione di portare il progetto live da qualche parte o Opposites United sarà la prima volta in cui l'album prende vita?

ME: Sarà la prima volta! Sto lavorando ad una piccola chicca per mostrare cosa intendo per live set, almeno su questo progetto…Sicuramente il live è un’altra parte molto importante e come dicevo prima, la batteria acustica e quelle analogiche saranno una componente fondamentale. Non sarà un live set fatto solo di sintetizzatori e computer: mi manca suonare e sentire quel misto di stanchezza ed endorfine da live, ho bisogno di esplorare nuovamente la parte più intima di me stesso.