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Max racconta Miky e Max

Written by Salvatore Papa il 22 February 2021
Aggiornato il 4 March 2021

Place of birth

Ferrara

Place of residence

Bologna

“Un bar Sport – scrive Stefano Benni – possiede un richiamo tanto maggiore, quanto più organicamente possiede attrazioni: ad esempio, è perfettamente inutile che un bar possieda un buon biliardo, se non ha un buon scemo da bar”. Ovviamente questo vale anche per Miky e Max, di cui Benni è stato assiduo cliente. E chi è stato da Miky e Max sa che a Bologna un altro bar del genere non esiste. E non solo perché lì ci sono un buon biliardo e tanti “buoni scemi”, ma proprio per le sue caratteristiche di bar di paese archetipico.
Max che l’ha visto nascere e cambiare prima di lasciarlo a Simonetta e Alessandra è un jukebox di storie.
Da lui abbiamo scoperto, ad esempio, che il bar non si chiama Miki e Max, né Miky e Max né tantomeno Mike e Max come c’è scritto sull’insegna del locale…e molto altro ancora.

 

Com'è nato Miky e Max?

La mia famiglia prese il bar nel 1987. Eravamo mio padre, mia madre, mio zio (il fratello di mia mamma che aveva appena cinque anni più di me, praticamente un fratello) ed io. Prima era il famoso Bar Mario (un bar-latteria; per i vecchi il nome è ancora quello), ma dopo un anno l’ex proprietario, il signor Mario Stanzani morì – aveva solo 60 anni, come purtroppo anche mio padre quando se ne andò – e allora decidemmo di cambiare il nome. Mio papà si chiamava Franco, ma non voleva chiamarlo Bar Franco. Allora siccome io ero (e sono) un grande appassionato di Mikey Mouse, accomunammo il nome con quello di mio zio Michele e così nacque Mikey e Max. Solo che sbagliarono l’insegna e scrissero “Mike e Max”, ma quel nome non esiste.

Quindi hai sempre fatto il barista?

Sì, praticamente sono nato e cresciuto dentro un bar. A un certo punto ho preso anche un attestato da barman, ma il barman l’ho fatto tre volte in vita mia in locali di amici. Mi è bastato per capire che il barman ha un contatto con la gente completamente diverso rispetto a un barista, un rapporto differente con la quotidianità. Per questo ti dico che sono sempre stato un barista.

Com'era all'inizio?

Era incredibile. E il merito era di mio padre, che riusciva a far andare tutti d’accordo. Al tempo c’erano più di venti persone che dormivano in piazza del Baraccano e facevano praticamente parte del bar. E lì le differenze tra un barbone e un notaio sparivano in un attimo.

Di personaggi ne avrai visti tanti...

Stefano Benni, che per molto tempo ha frequentato il bar, voleva convincermi a scrivere un libro. Ne ho visti così tanti che oggi mi pento di non aver preso appunti.

Tipo?

C’era uno che chiamavamo fulmine: era l’addetto ai giocatori di carte che andava a prendere le sigarette al tabaccaio Cappello in via Castiglione. Questo qua partiva alle due e tornava alle quattro e mezza. Andava e non tornava più e non si capiva dove andava.
L’affezionatissimo Esterino, un vecchio partigiano che si metteva sempre all’angolo, l’unico pensionato che si alzava a mezzogiorno e mezza; beveva dieci campari soda caldi e fumava le sue gitan senza filtro, praticamente tutti i giorni era lì.
Per non parlare degli scherzoni dei fratelli Bonaga, Stefano e Giorgio, a un signore che faceva l’operatore sanitario al Sant’Orsola. Questo qui era un po’ narcolettico e gliene combinavano di tutte i colori.

Di più, di più!

Potremmo fare notte. Il tipo che entra vestito in giacca e cravatta e dopo un quarto d’ora esce con la gonna e i tacchi a spillo; quell’altro che per due giorni consecutivi entra un giorno da Coltelli e un giorno da Orfeo mi urla “ciao faccia di merda” e se ne va; il cocainomane che viene a provarsi decine di vestiti prima del matrimonio della sua ex chiedendo a tutti “come sto?”; la prostituta di 85 anni che chiamavamo “finestra chiusa” perché abitava in via Orfeo e quando aveva i clienti lo capivi subito perché chiudeva gli scuri.

La tua preferita?

All’epoca si giocava molto a carte. Al tavolo ci sono i due tappezzieri, il liutaio e un tale Antonio. Arrivano all’ultima mano di “settemani” e il liutaio ha praticamente la vittoria in tasca. Ma mai dire mai e alla fine perde di un solo punto. Allora con grande nonchalance si mette in piedi sul tavolo, si cala completamente i calzoni e urla “adesso mettetelo anche nel culo!”. In sala c’erano in quel momento due signore che stavano degustando il tè. Tu immagina queste che all’improvviso si trovano davanti un bel culo bianco. Chiaramente non le ho mai più riviste, ma ci siamo fatti un sacco di risate.

Ma era anche un bar molto rock no?

Ah sì, tra la fine degli anni 80 e i 90 è stato il ritrovo dei rocker bolognesi, ci veniva Roberto Terzani, si vedevano i Wind Open (gruppo spalla della PFM), poi Federico Poggipollini e tanti altri.

Poi cos'è successo?

Nel 2004 Michele aveva mollato e tutto è stato lasciato sulle mie spalle. Volevo vendere, perché insomma non era più il Miki e Max di un tempo, la gente era cambiata, tutti personaggi che avevano fatto la storia del bar non c’erano più. Dal 2000 il bar aveva anche iniziato ad avere una certa notorietà, quindi la frequentazione era diventata molto universitaria. Nulla di male chiaramente, semplicemente sentivo di aver esaurito quel percorso. Ma dei miei amici mi convinsero a fare una società. Dentro c’erano anche Simonetta e Alessandra che sono state mie socie fino al 2014, quando poi alla fine mi sono deciso a lasciare a loro le mie quote.

Ora cosa fai?

Faccio il droghiere sempre lì vicino, alla Drogheria degli Elefanti.

E del quartiere che mi dici?

Io ti parlo di queste tre strade qui, Coltelli, Orfeo, Rialto, che ho sempre amato. Noi l’abbiamo sempre chiamato il grande imbuto, perché tutti alla fine ci finivano dentro a prescindere dal ceto sociale. Ricordo ancora la prima festa in strada che facemmo nel ’97, fu meraviglioso. Qui mi sento a casa da sempre.