I mille ricordi di Margherita Palli, tra mostre, scenografie, musica, lezioni e una ricerca continua del bello. La incontriamo visitando la mostra, da lei curata, su Luca Ronconi al Museo Teatrale e ai Laboratori della Scala, a pochi giorni dalla prima de La cena delle beffe di Umberto Giordano, con la regia di Mario Martone, per cui ha realizzato le scenografie. La incontriamo proprio all’Ansaldo, passeggiando per i laboratori, tra i bozzetti e gli abiti in mostra, mentre Martone, in sala prove, perfeziona i movimenti di scena.
ZERO: Mi piace l’idea di intervistarti proprio qui, alla mostra su Luca Ronconi, tra tanti oggetti che sono parte della sua storia, ma anche della tua.
MARGHERITA PALLI: Tanti ricordi, disegni, oggetti. Leggi queste frasi, ad esempio: le ha raccolte Gianluigi Ricuperati e sono recitate da Franco Branciaroli. Sai una cosa di Luca?
Che cosa?
Passava sempre qui, di prima mattina, da solo. Curiosava, osservava. Raramente disturbava le persone che stavano creando le scene. Se qualcosa non andava, veniva da me: suggeriva, correggeva. Ecco il senso di aver fatto questa mostra proprio qui. Perché è una mostra sulla creazione di uno spettacolo, una mostra che va ben oltre le 24 regie che Ronconi ha fatto alla Scala. Fare una mostra su di lui, proprio qui, significa raccontare quel che c’è dietro un’opera, la tecnologia pazzesca, i materiali. Per questo non vedrai modellini, ma soprattutto schizzi, documenti, abiti, frammenti. Dettagli che possono sembrare solo per addetti ai lavori, ma in realtà raccontano moltissimo di quel che poi è andato realmente in scena.
Fare una mostra su Ronconi, proprio qui, significa raccontare quel che c’è dietro un’opera, la tecnologia pazzesca, i materiali
Ecco Martone, laggiù. Stanno provando. Restiamo però su Ronconi e sulla città dove avete lavorato di più insieme: come sei arrivata a Milano?
Sono Svizzera, cresciuta a Lugano ma originaria di Pura. Curioso: è il luogo dove è sepolto Arturo Benedetti Michelangeli. A diciassette anni volevo fare scenografia ma Zurigo era mal collegata con i treni. Così decisi di fare l’Accademia a Milano. Era il 1968, studiai con Tito Varisco, il quale mi chiese poi di lavorare per lui al disegno dei costumi. Non ci pensavo nemmeno: amavo l’arte e volevo fare scultura. Andai a fare il ragazzo di bottega nello studio di Alik Cavaliere. «Non vorrai mica fare l’artista?». Così presi un lavoro da assistente alla Triennale.
La Triennale del 1979 curata da Pier Luigi Nicolin, vero?
Fu davvero molto interessante: facevo tutto, dipingevo anche i muri. Ci furono mostre fantastiche. Mi occupavo soprattutto della Galleria del Disegno. Ricordo la prima grande mostra su Mario Botta e poi una mostra davvero originale sugli strumenti di disegno per l’architettura curata da mio marito Italo Rota.
Che cosa ricordi di quegli anni a teatro?
Il Don Carlos alla Scala! Poi tutti gli spettacoli di Luciano Damiani e tutto Patrice Chéreau, fin dalla fine degli anni Settanta quando era al Teatro Piccolo nel periodo in cui Strehler era via. Con mio marito Italo Rota, già allora andavo molto a teatro. Da spettatrice.
Dove lavorava tuo marito in quegli anni?
Ai primi tempi lavorava in studio da Vittorio Gregotti, poi andò a lavorare da Albini, di cui dice sempre di essere allievo. Poi nel 1981 venne il concorso per la Gare d’Orsay, Gae Aulenti vinse con Italo e Piero Castiglioni, allora ci trasferimmo a Parigi e io aiutavo Gae nel ruolo di colorista. Insomma, coloravo le tavole dello studio.
Hai iniziato a fare scenografia proprio con Gae Aulenti, vero?
Certo, nel 1981 mi chiese di aiutarla a mettere in scena Donnerstag aus Licht di Karlheinz Stockhausen: fu allora che conobbi Luca Ronconi. Per la prima volta ebbi ufficialmente il ruolo di assistente scenografa. Intanto proseguivo in studio con Gae. Insomma, lavoravo su due fronti. Poi venne La Donna del Lago diretta da Maurizio Pollini al Rossini Opera Festival di Pesaro.
Quale fu il vostro primo spettacolo?
Fummo tra i finalisti al Premio Ubu a quel punto Luca Ronconi mi chiese di fare due spettacoli con lui. Una era Fedra per il Teatro Metastasio. Già allora detestavo Parigi e non vedevo l’ora di tornare a Milano, che già adoravo e vedevo come la mia città. Andai da Gae e le dissi che sarei andata a lavorare per Ronconi.
Come la prese?
Malissimo: non mi ha più parlato per vent’anni. Lo prese un po’ come uno sgarbo di Ronconi nei suoi confronti.
Come iniziò il rapporto con Ronconi?
Splendidamente. Facemmo Commedia della Seduzione per il Teatro Regionale Toscano e Le due commedie in commedia, coprodotto dal teatro di Roma e alla Biennale di Venezia. Era il 1984. Conobbi Franco Quadri e con quello spettacolo vinsi il premio Ubu.
Com’era Milano allora?
Una città fantastica, che ho sempre amato. Potrei vivere solo qui oppure a Berlino oppure a Tokyo: al di fuori di queste tre città potrei stare solo in campagna. Non amo le città dove senti troppo la storia. Roma, ad esempio, mi pesa. Milano è una città moderna. Una città che guarda al futuro.
Milano è una città moderna, che guarda al futuro
Cosa ti piace di Milano?
Camminare. Cammino tantissimo. Mi piacciono i giardini, la natura in città, soprattutto quella che non si vede. L’Orto Botanico ad esempio. Anche i giardini di via Palestro e poi il Planetario: un edificio che a suo modo segna un’epoca. Il Pirellone, così antico e moderno. Poi adoro Corso Buenos Aires, so che non è così chic ma mi piace tantissimo passeggiarci. Faccio shopping compulsivo.
Quali sono i tuoi negozi preferiti?
Certamente Corso Como 10 e poi il negozio di Issey Miyake, però il mio negozio preferito resta eBay: in questo sono una specie di nerd. Potrei stare tutto il tempo collegata alla ricerca di cose da comprare, soprattutto quando torno in studio. Navigo, leggo e disegno guardando il giardino. Ho la fortuna di vivere in una casa piccola ma silenziosa con una bellissima vetrata sul verde, era la galleria di Massimo De Carlo. La trovai quando mio marito Italo era in India a costruire un tempio per la famiglia Mittal. Un vero colpo di fortuna: Hanuman deve averci protetti…
Dove vai a mangiare?
Non sono una grande cultrice del cibo, vado anche da McDonald’s in piazza Duomo: mi piace mangiare da sola leggendo il giornale tra un filippino, due studenti e quattro extracomunitari. Certamente ci sono ristoranti che apprezzo, tipo Carlo e Camilla in Segheria che mi piace tantissimo, oppure il ristorante 13 Giugno, forse perché fanno un ottimo Plateau Royal – che a pensarci bene è l’unica cosa che mi piace di Parigi. Spesso mi piace andare da sola alla Rinascente, mangiare un sushi tra i turisti, guardarmi intorno e pensare ai fatti miei, oppure al Triennale Design Café ma per la bellezza del luogo, soprattutto da quando hanno restaurato i Bagni Misteriosi di De Chirico.
Ti piacciono i cocktail?
Certamente: ultimamente ho anche avuto l’occasione di creare un mio cocktail, il Jupiter’s Supper, proprio dedicato alla Cena dele Beffe. Il mio bar preferito è il Ginrosa dove bevo, per l’appunto, l’omonimo cocktail oppure lo spritz della casa. Mi piace perché è un posto molto milanese, senza turisti e poi è lì da una vita. Alla Segheria fanno dei cocktail fantastici. Ovviamente mi piacciono molto anche a Taveggia e la Pasticceria Cucchi, anche se la preferivo quando era un po’ più fané. Certo, da Cucchi trovi ancora il cameriere come te lo immagini.
Che cosa miglioreresti di Milano?
L’aria. Per il resto la città è fantastica, si sta bene, i mezzi pubblici funzionano. La gente si lamenta troppo. Adoro la Stazione Centrale, non è meravigliosa? Insieme alla Pennsylvania Station è la più bella del mondo. Mi piace arrivarci in anticipo per guardarmi intorno… Oppure, forse, questa mia puntualità è solo una mania un po’ svizzera!
C’è Mario Martone oltre il vetro. Siamo partiti da La Cena delle Beffe e andati in tutt’altra direzione. Cosa mi dici di Mario?
Con Mario abbiamo già lavorato. Avevamo fatto Otello a Tokyo. Ora c’è quest’opera avvero interessante perché non è stata più rappresentata alla Scala dal suo debutto.
Come avete pensato l’ambientazione?
L’opera è del 1924, così abbiamo deciso di tuffarci nell’America degli anni Venti, a Little Italy, costruendo una casa di tre piani dopo aver fatto molta ricerca iconografica e sull’architettura. Sopra c’è la pensione dove vive Ginevra, al pianoterra il ristorante e sotto la stanza delle torture. Abbiamo visto molti film sull’America. La sala da pranzo è simile a quella de Il Padrino e poi ci sono riferimenti a Era mio padre di Sam Mendes e persino a Vertigo.
Come si lavora con i laboratori della Scala?
Qui ci sono maestranze eccezionali e laboratori che possono fare qualunque cosa. Ad esempio, è molto difficile riprodurre delle finte tappezzerie degli anni Venti ma anche gli oggetti, che so, il calorifero, tutto in materiale leggerissimo, eppure siamo riusciti a produrre una scenografia realista per nulla scenografica.
Ecco i bozzetti per la Damnation del Faust di Ronconi del 1995, come si lavorava con lui?
Vedi questo disegno? È un esempio del lungo processo creativo. Quando lavoravamo insieme, io facevo molti disegni. Parlavamo tantissimo. Ronconi stimolava molto la ricerca e aveva un metodo molto aperto alla progettazione e alla creazione di nuovi immaginari.
Mi fai un esempio concreto?
Ecco, proprio qui. Questo è l’Oberon del 1988. Avevo trovato un libro bellissimo sui panorami, con Luca facemmo tutto un viaggio in quell’immaginario. Alla fine eravamo come in un cirque d’hiver con la corte di Carlo Magno che stava dentro ad assistere. Una striscia d’immagini. Altre volte invece, si partiva da una pianta o da un’idea di prospettiva.
Ad esempio?
Ecco Lodoiska del 1991: Ronconi voleva un’immagine del pubblico che guarda la scena dall’alto. Un’immagine precisa, neoclassica. Certo, poi l’abbiamo rielaborata tra mille dibattiti e alla fine la scena sembrava un po’ ambientata una grande stanza di Sing Sing.
Altre volte avete lavorato sulla sorpresa, è il caso di Arianna a Nasso nel 2000.
Qui l’idea è quella di un aristocratico che ha un teatro nel suo palazzo. C’era una grande foto, una parete di fondo ma poi nel mezzo si apriva una porticina e lì c’era una sala da pranzo da cui il signore poteva vedere il teatro: a un certo punto la parete si apriva e veniva fuori un’enorme scenografia de L’isola dei morti di Böcklin. Ci sono cinque versioni, noi scegliemmo la terza, quella con i contrafforti più geometrici, perfetti per metterci sopra i personaggi. Tra l’altro era proprio la versione che Hitler aveva portato a Berlino, nel suo studio, per l’incontro con Molotov.
Ecco la parete con i materiali di Latina e Vigilia…
Un progetto cominciato a Spoleto, con i costumi pensati da Walter Albini. Sono tutti sul libro di Maria Luisa Frisa. Per Ronconi è stato il progetto di una vita. Ronconi aveva una sua visione del futuro che ripensarla oggi fa quasi impressione. In Vigilia, una delle tre versioni dello spettacolo, venivano usati solo oggetti che i cittadini dismettevano. Era il 1983 e non c’era ancora la cultura del riciclo.
C’è sempre uno sguardo verso il futuro.
Lo vedi anche nel film di Jacopo Quadri: c’è un momento in cui Ronconi dice: «Io ho più di ottant’anni, quindi per me questo punto della storia è il punto finale, ma voi che ne avete 20, 24, 25 siete fortunati (..)
perché potreste essere gli autori di un modo nuovo di fare teatro».
Chi sono gli amici di Margherita Palli?
Le persone che frequento. Intanto mio marito, che vedo molto spesso! Poi le amiche storiche e quelle d’infanzia: Sveva e Chantal. In generale mi piace molto stare con i giovani, con i miei studenti, con le persone con cui lavoro. Certo, a dirla tutta non ho poi così tanto tempo per distrarmi con gli amici: io lavoro un sacco!
Che cosa sogni per il futuro?
Non ho un sogno particolare. Devo dirti però che ogni nuovo lavoro è un tuffo nel futuro. Bellissimo e preoccupante: c’è sempre la paura di non saperlo fare, poi la creazione prende sopravvento.
Ogni nuovo lavoro è un tuffo nel futuro
Che cosa avresti fatto in un’altra vita?
Direi il veterinario. Ho sempre amato la natura e gli animali, soprattutto le mucche. Mi piacciono da morire, le mucche.
Con quale direttore d’orchestra hai avuto un rapporto particolarmente interessante?
Tantissimi, ma sempre con il regista a fare da intermediario. Ricordo un Falstaff con Ronconi e Georg Solti a Salisburgo, dove c’è un boccascena di 36 metri per 9 da altezza. Disegnammo un grande schermo, come al cinema: si apriva e chiudeva, con le architetture ispirate da Edwin Lutyens e il verde dalla visione di Gertrude Jekyll famosa giardiniera inglese del Novecento. Gli uomini a sinistra facevano pesca alla trota e le donne, a destra, erano occupate nel giardinaggio, poi c’era l’osteria con una grande cantina. Solti non era molto convinto della cantina. Mi chiese “Ma è certa che sia Inghilterra? Mi porti la documentazione!” Ronconi era via per due giorni, allora feci un collage ritagliando le colline del Chianti e incollandole su paesaggi inglesi. Alla fine gli piacque moltissimo.
Quali sono gli artisti del novecento che ami di più?
Tantissimi, difficile fare nomi. Guardo tutto. Spesso in funzione di quello che sto facendo, dalla pittura all’arte concettuale. Certo, Alik Cavaliere rimane un ricordo importante: era un artista visionario, con quella natura vera che entrava nella natura artefatta.
Che cosa fai stasera?
Vado a casa a lavorare. Italo torna da un viaggio. Spero che cucini lui, visto che io sono piuttosto negata. Devo finire il nuovo allestimento di Women in Italian Design al Triennale Design Museum. Curato da Silvana Annichiarico, sarà un percorso sulle donne del design italiano del Novecento. Se non finisco i bozzetti entro questa settimana mi uccidono.
Ci dici qualcosa di più della mostra?
È una mostra piuttosto impressionante, con una gran quantità di materiale. Sono rappresentate 300 donne con circa 650 oggetti. Tutti pezzi realizzati da donne italiane o da designer che hanno vissuto o le hanno realizzati in Italia, in ordine cronologico dal futurismo ai giorni nostri. L’allestimento prende sia la curva, sia una zona oltre il ponte, la parte più misteriosa che chiamiamo “delle trame”.
Come hai risolto l’allestimento?
È un grande fiume che si allarga progressivamente e di tanto in tanto ha dei turbini che smistano il flusso delle acque, e dunque degli oggetti, dai più piccoli ai più grandi, dall’anello alla poltrona.
Quali oggetti ti hanno colpito particolarmente?
Ci sono moltissime cose che conosco, dalla lampada di Gae Aulenti alle creazioni di Patricia Urquiola. Molto interessante il Topo Gigio fatto dalla Perego in gommapiuma nel 1959, proprio per l’uso di un materiale innovativo ma delicatissimo tra tanti oggetti molto più solidi. Se però dovessi rubare qualcosa, porterei via il Papero, la lampada disegnata nel 1971 dalla Cini Boeri, che per me è una specie di casco da astronauta!