Docente dell’Università Bocconi, presidentessa della Fondazione CRT, cui fa capo Triennale Milano Teatro, vice-presidentessa del Museo della Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, compare nei CdA di Palazzo Ducale a Mantova, della Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, di As.Li.Co. a Como, della fondazione ISEC e della casa editrice Egea. Paola Dubini ci racconta delle opportunità che nascono da una buona gestione economica del settore culturale, e della partnership tra Triennale Teatro e Volvo Car Italia.

È nella comprensione profonda della specificità artistica e culturale di ogni organizzazione e di ogni progetto che si costruiscono le basi per trovare alleati, pubblici, linee di ricavo.

 

Chi è Paola Dubini? Come è entrata in contatto con la cultura in senso lato?

Sono professoressa di management all’Università Bocconi, dove ho partecipato alla costruzione del CLEACC, il Corso di Laurea in Economia per le Arti la Cultura e la Comunicazione, che ho diretto per sei anni. Attualmente sono direttrice invece del corso di laurea magistrale in Management.

Quindi, con una formazione da Economista aziendale, mi occupo di management culturale, economia e policy culturali dalla metà degli anni Novanta. Le mie aree di ricerca riguardano le condizioni di sostenibilità economica duratura delle organizzazioni culturali, siano esse pubbliche, no profit o imprese, e l’imprenditorialità culturale. Lavoro su tematiche di policy culturale, sugli impatti dell’Agenda 2030 nel funzionamento delle organizzazioni culturali, sulle tematiche di genere.

Nella sua professione lega economia e cultura: come ha costruito questo rapporto, nei primi passi della sua carriera?

Per presentarmi a un concorso universitario dovevo scrivere una monografia. Nella mia disciplina c’erano due strade da percorrere: un libro di ragioneria o un’analisi di settore. Ho scelto di scrivere sull’economia delle case editrici di libri, perché sono appassionata lettrice e nessuno aveva ancora studiato il settore in una prospettiva economica. Nel frattempo, con Claudio Dematté, Stefano Baia Curioni e altri  colleghi, abbiamo cominciato a riflettere sulla necessità di formare manager al servizio delle arti e della cultura. Progressivamente ho concentrato i miei interessi, professionali e di ricerca, su questi settori: dalle case editrici, alle biblioteche, fino ai musei, il cinema, la musica e il teatro. È stato affascinante veder nascere e crescere questa disciplina, ma anche faticoso abbattere le diffidenze dei colleghi economisti e delle comunità professionali e accademiche che già si muovevano in campo culturale. Poiché i percorsi formativi e professionali, le regole di ingaggio, i paradigmi sono molto diversi (e sono diversi fra settori e fra discipline: un archeologo e un antropologo sono altrettanto distanti fra loro quanto un economista e un musicologo), siamo partiti cercando di capirci sul significato dei termini che usiamo. Ancora oggi mi pare ci siano molti fraintendimenti su termini che sono diventati di uso comune.

Insegna da molti anni. Come ha visto evolversi la concezione di management culturale? E che intuizioni ha sul futuro lavoro dei suoi studenti?

La comunità di chi studia management culturale è piccola, anche a livello internazionale, e la disciplina è giovane. Anche nella pratica molte delle evoluzioni che interessano chi fa cultura sono recenti. Quando ho iniziato, il management culturale non esisteva, molto lavoro è stato necessario per chiarire la differenza fra management della cultura e management per la cultura. È nella comprensione profonda della specificità artistica e culturale di ogni organizzazione e di ogni progetto che si costruiscono le basi per trovare alleati, pubblici, linee di ricavo.

Di sicuro, oggi rispetto ad allora, viene riconosciuto che i processi gestionali delle organizzazioni culturali sono molto importanti, ma siamo comunque in una fase di sperimentazione. I direttori dei musei più importanti sono noti al di fuori degli addetti ai lavori e fanno parlare di sé: anni fa questo non accadeva. Sebbene siano organizzazioni dimensionalmente piccole rispetto ad altri comparti, si comincia a riflettere sulle ricadute dell’attività culturale sulla società, a fare leva sull’offerta culturale come elemento di caratterizzazione dei territori, a pensare alle organizzazioni culturali come parte attiva della società.  Un’altra novità degli ultimi anni è un ricorso crescente ad accostamenti e contaminazioni tra linguaggi artistici diversi all’interno di enti “specializzati”: istituzioni permanenti ospitano o organizzano festival, arte moderna e contemporanea sono accostate, gli spazi polifunzionali pullulano. Questa è una grossa sfida sul piano gestionale.

I miei studenti più “antichi” sono quarantenni che lavorano in tutti i settori culturali in giro per il mondo: sono artisti, storici dell’arte, giornalisti, registi, produttori. Alcuni sono manager culturali, altri imprenditori. E anche quelli di loro che hanno deciso di non lavorare nei settori culturali hanno ricevuto durante la loro formazione universitaria un’iniezione di spirito critico e di capacità di leggere i tempi e la complessità dei contesti, molto utili per lavorare in qualunque settore. I miei studenti di oggi entreranno in mercati del lavoro più pronti che in passato a riconoscere l’importanza dei settori culturali e la commistione di elementi materiali e immateriali, economici e non economici, nei processi di costruzione di valore.

Ha scritto un libro con un titolo curioso: Con la cultura non si mangia. Falso! (2018). Mi racconta di cosa si tratta?

È un libro che parte dalla constatazione che le riflessioni sul valore della cultura sono spesso frettolose, parziali e misleading. Frasi come “la cultura è il nostro petrolio” o “i ragazzi non leggono” o “l’arte non serve” non rendono giustizia all’importanza che la cultura ha nel mettere ciascuno di noi in relazione con il tempo, lo spazio e le altre persone, cosa tanto più necessaria quanto più aumenta la mobilità (voluta o meno) delle persone. Chi fa le spese di questa sciatteria semantica e di postura è chi con la cultura ci lavora.

Quindi il libro riflette sul valore della cultura: l’ho scritto “per mettere ordine” ed è stato letto come un manifesto civile; nasce come il distillato di diversi anni di ricerca, ed è diventato una straordinaria esperienza di confronto in tutta Italia!

Che cosa prevede il suo ruolo in Triennale?

Sono Presidente del teatro, che fa capo alla Fondazione CRT. Questo, formalmente, significa che lo rappresento istituzionalmente mentre, in pratica, partecipo a una riflessione collettiva su due piani: come collocare un pezzo importantissimo della storia e del presente del teatro in una città sempre più internazionale e vivace dal punto di vista culturale, e, allo stesso tempo, come contribuire a valorizzare la proposta del teatro all’interno di Triennale Milano, che è una straordinaria casa delle arti a livello internazionale.

Come vede la partnership con Volvo Studio Milano? Può raccontarmi come si è sviluppata?

La partnership è nata nel 2021 da una chiacchierata nel giardino di Triennale sullo sviluppo di spazi destinati alla cultura contemporanea a Milano e sulla possibilità di attivare collaborazioni su progetti legati alle arti performative. È nata subito una forte sintonia, così nel 2022 abbiamo presentato negli spazi di Volvo Car Italia la prima edizione del progetto Esplorazioni. Un viaggio tra danza e musica, che sviluppa un dialogo tra corpi e suoni, mettendo insieme artisti che spesso non si conoscono, che non hanno mai lavorato insieme e che vengono invitati a costruire performance inedite. La rassegna Esplorazioni è dedicata ai temi del movimento, della scoperta e della sostenibilità, tematiche di grande rilievo sia per Triennale sia per Volvo. Dopo il successo della prima edizione, quest’anno abbiamo presentato il 20 settembre Lele Sacchi e il collettivo MINE, cui è seguita Open Machine di Vittorio Cosma e il 9 novembre sarà la volta di Philippe Kratz, in dialogo con Laura Marzadori, primo violino del Teatro alla Scala. Conclude la rassegna il 16 novembre il duo Panzetti/Ticconi, che si esibiscono insieme al sound designer Teho Teardo.

Cosa aggiunge a un’istituzione come Triennale la collaborazione con un’azienda come Volvo Car Italia?

Triennale Milano nasce come la casa delle arti, come un luogo di ricerca, sperimentazione, proposta culturale che riunisce una pluralità di linguaggi espressivi. Nella sua programmazione  confluiscono numerosi progetti che nascono dalla collaborazione e dal confronto con altre realtà. La partnership con Volvo Car Italia sicuramente va in questa direzione: mette in dialogo Volvo e Triennale, ma anche due spazi cittadini e gli spettatori che li frequentano. È un’occasione per moltiplicare le opportunità, un gioco di sponda tra geografie urbane e modi di leggere alcune questioni centrali per la società.

Dal suo punto di vista, in generale, che futuro hanno i rapporti tra istituzioni culturali e aziende?

Penso che siano destinati ad aumentare e ad articolarsi in varietà e qualità, man mano che migliora la conoscenza e la fiducia reciproca e che si affina la capacità di integrare i processi. Alcune imprese intervengono direttamente nei settori culturali attraverso le proprie fondazioni; altra cosa è partecipare a progetti pubblici e collettivi di avvicinamento all’arte, di accessibilità, di sostegno a giovani artisti, solo per citare alcuni esempi. E d’altro canto, l’offerta culturale delle istituzioni sempre più spesso esce dai confini tradizionali per  distribuirsi in città. C’è da imparare ancora molto in materia di governo di queste relazioni, ma è un terreno di scambio entusiasmante.

Se dico arte, qual è la prima opera che le viene in mente?

Mi sono avvicinata alla cultura partendo dai libri. E il mio amore per i libri è nato imparando a leggere su Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari. E quindi… la prima opera che mi viene in mente sono le illustrazioni di Bruno Munari per l’edizione Einaudi che ho nella mia biblioteca.

Quali sono i suoi posti del cuore a Milano?

Sono di parte… Perciò dico le istituzioni nelle quali lavoro più intensamente! Sono luoghi del cuore, perché in tutti lavoro con persone che hanno tanto da insegnarmi, in tutti mi sento accolta, in tutti percepisco una attenzione alla cultura come strumento di crescita civile, come palestra di cittadinanza, come luoghi piacevoli e sicuri in cui divertirmi e incontrare persone. Triennale in particolare è un posto che non finisce di meravigliarmi: ha spazi bellissimi e versatili e un’offerta culturale sempre interessante e stimolante, nella incredibile varietà delle sue proposte. Più la frequento, più mi rendo conto dei mille modi in cui mi sa proporre occasioni di svago, di conoscenza, di relazione.