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PARASITE 2.0

L’architettura come atto politico e pratica relazionale: un’operazione al confine

Written by Giorgia Martini il 6 September 2023
Aggiornato il 20 September 2023

II Parasite 2.0 nascono nel 2010, da un’idea di Stefano Colombo, Eugenio Cosentino e Luca Marullo. Ibridano architettura, design e scenografia, lo fanno tra Milano e Londra. Con Stefano e Eugenio abbiamo parlato di architettura e politica, di abitare e di DIY, di massimi sistemi e di cose semplici travestite da massimi sistemi, di come operano oggi gli architetti, di come potrebbero farlo, di come cercano di farlo loro.

 «Il deserto è il contrario dell’ambiente antropizzato, perché è ostile alla vita, così come lo è il buio, ma proprio per questo sono ambienti potenziali, dove tutto può ancora succedere. Quando invece il potere porta la luce, viene meno la libertà data da quel sistema di norme ufficioso.»

 

Parlando con chi frequentava il Corvaccio e il Rosa Nera, spazi residenziali e centri sociali della Corvetto di più di dieci anni fa, è emerso il tema dell’abitare e della predominanza della forma appartamento plasmato sulla famiglia tradizionale. Secondo voi l’architettura che ruolo ha nel regno egemonico dell’appartamento?

SC: Io credo che l’architettura, intesa come lo spazio dell’abitare, sia in gran parte una conseguenza e non tanto una causa della configurazione della società. Lo spazio domestico è per molti versi il risultato di un modo di vivere la città e di come l’umanità da sempre ha colonizzato gli spazi urbani nei secoli. Senz’altro la dimensione dell’appartamento è il frutto di una precisa visione del mondo, figlia del secondo Novecento, che non coinvolgeva soltanto l’abitare, ma la società nel suo complesso, di cui l’architettura si è fatta portatrice. Ciò non toglie che il progetto possa aprire nuove possibilità, ma questo passa soprattutto attraverso il dialogo con le persone, le quali in primis possono suggerire nuovi modi di vivere lo spazio. Pensiamo ad esempio all’uso che si fa del ballatoio nei palazzi di via Imbonati: ad oggi possiamo dire essere pienamente spazio pubblico. Giancarlo De Carlo raccontò che progettando un edificio residenziale aveva collocato le finestre a sud e il ballatoio a nord, così che nelle case entrasse più luce, rispettando perfettamente gli stilemi dell’architettura. Poi di fatto lo spazio più vissuto era il ballatoio (sempre all’ombra). Questo significa che l’architettura può assolvere il suo compito solo se si mette in ascolto. 

 

EC: Secondo me è fondamentale scindere l’appartamento come ambiente fisico e l’appartamento come prodotto culturale. Nel primo caso ci troviamo davanti un luogo privato, nel quale entri, chiudi la porta e stabilisci le tue regole. Potenzialmente quindi il più grande regno di libertà, che può contenere qualunque cosa tu voglia. Queste sono le potenzialità dell’appartamento in quanto elemento fisico. Se invece lo pensiamo in quanto espressione culturale, ciò che dobbiamo chiederci è quali siano le caratteristiche del soggetto per cui quel prodotto è pensato. È evidente che l’appartamento è plasmato sulle esigenze della famiglia tradizionale, madre, padre e figli, che a sua volta è un prodotto culturale che deve consumare beni e servizi. Anzi la famiglia patriarcale è la maggior consumatrice e quindi creatrice di offerta nel mercato. Quest’ultimo quindi spinge perché l’appartamento si configuri come motore propulsore del consumo. La critica allora non dovrebbe essere tanto rivolta verso l’appartamento in sé, ma piuttosto verso l’architetto che si subordina totalmente alle logiche e alle richieste del mercato.  

L’architettura può ancora essere un atto politico e guidare un eventuale cambio di paradigma dell’abitare?

SC: L’architettura ha intrinsecamente delle possibilità in questo senso, ma non può avere nessuna efficacia se si considera l’unico atto politico. Molti architetti hanno pensato di poter agire politicamente in modo svincolato dalle altre discipline sociali e questo atteggiamento, comune anche in altri ambiti, è per forza di cose fallimentare. Certo, riflettere solo entro i confini della propria disciplina è molto più semplice, ma proprio questa semplicità è inadeguata alla comprensione di una società composita. Pensiamo ad un problema concreto come può essere la gestione del patrimonio residenziale popolare: per capire le cause e immaginare delle soluzioni non bastano gli architetti, come non bastano i sociologi da soli, serve interazione fra mondi diversi.

EC: L’architettura ha la possibilità di mettere in relazione le persone, non solo da un punto di vista sociale, ma anche funzionale. Il benessere della seconda metà del secolo scorso ha incentivato la privatizzazione e la costruzione di un immaginario collettivo profondamente radicato sull’individuo singolo, che di conseguenza ha influenzato la configurazione dell’architettura residenziale. Ognuno voleva in casa propria tutti i benefit possibili, per rendersi autonomo e svincolato dagli altri. Nei palazzi quindi non ci sono, ad esempio, lavatrici condominiali, sale computer condivise, anche il riscaldamento non doveva più essere centralizzato. Oggi che il rincaro dei prezzi dell’energia e l’inflazione ci rendono tutti più poveri, ricominciamo a parlare di comunità energetica e a valutare la possibilità di condividere i servizi e quindi le spese con i vicini. Ovviamente questo genere di cambiamenti è contestuale alle fasi di crisi del benessere considerato acquisito: i comfort del mercato anestetizzano il cambiamento e gli architetti molto spesso per comodità preferiscono restare allineati con le richieste del mercato, piuttosto che addentrarsi nelle complessità del mondo contemporaneo. Questo anche perché l’architettura non è spesso percepita nelle sue potenzialità politiche e resta uno strumento nelle mani di un professionista, mentre dovremmo renderla uno strumento a servizio della città.

In un vostro articolo sul rapporto fra architettura e ideologia politica, in chiusura fate riferimento al tema dell’espropriazione del brutto, che di solito coincide con le periferie più povere, in nome di un principio di bellezza imposto in modo coatto dalla medio-borghesia. Possiamo fare questo discorso anche per Corvetto e limitrofi?

EC: è indubbio che Corvetto sia la nuova zona di espansione della città e anche noi, come DOPO?, siamo un agente di gentrificazione e contribuiamo a modificare l’estetica, e non solo, di quest’area. Rispetto ad altre zone della città, questo processo sta avendo un decorso più lungo e diluito nel tempo, ma sappiamo che quando avrà termine qui cambierà anche la distribuzione della popolazione. Il punto è che quando ci si trova in aree mediaticamente considerate pericolose, dove le norme ufficiali non corrispondono a quelle ufficiose, si aprono moltissime possibilità. Sono quelli che definiamo deserti urbani, rifacendoci al contesto del deserto biblico, che in più circostanze si è rivelato luogo di rinascita. 

SC: Il deserto è il contrario dell’ambiente antropizzato, perché è ostile alla vita, così come lo è il buio, ma proprio per questo sono ambienti potenziali, dove tutto può ancora succedere. Quando invece il potere porta la luce, viene meno la libertà data da quel sistema di norme ufficioso, che sta all’ombra dell’istituzione, a cui prima Eugenio faceva riferimento. Noi cerchiamo questi luoghi proprio perché sono spazi di possibilità. Su scala urbana i deserti sono quartieri come Corvetto, dove 9 anni fa abbiamo deciso di trasferirci, perché solo entrando in questi luoghi, vivendoli, è possibile creare un’interazione che non sia semplicemente top-down.

Il concetto di open source, inteso come conoscenza e creazione condivisa, è tornato in varie forme spesso nelle conversazioni con le diverse realtà di Corvetto. Potete spiegare cos’è per voi l’open design, in che rapporto sta con il Do It yourself e se secondo voi lo sviluppo di queste pratiche può avere un impatto positivo sulle zone periferiche?

EC: In generale credo che il concetto di open design abbia perso molta credibilità, per tanti motivi. Un po’ perché molto spesso ha coinvolto strumentazioni estremamente complesse, penso ad esempio alla stampante 3D, con la quale avremmo dovuto poterci produrre tutto in casa e che si è rivelato un fallimento totale. Ma anche perché se ci pensiamo quello che chiamiamo open design è semplicemente qualcosa che, in Italia almeno, abbiamo da secoli, cioè tutte le attività di quartiere con le quali si è sempre imparato a fare la pasta, allevare gli animali, curare le piante, attività per le quali dovremmo parlare di open life probabilmente. Per altro tutte queste pratiche, che si nutrono di condivisione e portano le persone a vivere più fuori che dentro casa, sono proprio quelle che contribuiscono a rendere sicuri i quartieri. Una città non è sicura perché è illuminata, ma perché ci sono le persone per strada. La città la fa il piano terra e non gli appartamenti che ci sono sopra. Tutte le piccole attività che portano gente e fanno sì che sui marciapiedi ci sia qualcuno, ci fanno sentire sicuri, molto più che centinaia di lampioni. 

 

SC: Quando si parla di open design penso si debba fare molta attenzione. Spesso accade che il mercato inglobi idee e iniziative nate proprio in antitesi rispetto alle logiche del sistema di produzione capitalistico e che passando attraverso le maglie del profitto, finiscono per essere un prodotto al pari degli altri. Per fare un esempio, oggi in città abbiamo il bike sharing, un servizio molto utile, che fa profittare cifre altissime alle Company di noleggio. L’idea di condividere la bicicletta era venuta all’inizio degli anni Sessanta ai Provo, un collettivo di architetti che ha trasformato l’Olanda, e che naturalmente avevano previsto che lo sharing fosse totalmente gratuito. Quando entra in campo il concetto di open design, il rischio di finire totalmente nelle logiche di mercato è molto alto. Per questo è importante distinguerlo dal Do It Yourself, che trova le sue radici nel pensiero punk inglese soprattutto e che si basa sul principio di autonomia: mi serve una cosa, me la costruisco da solo e da solo non significa in solitudine, anzi, il coinvolgimento della comunità è centrale. Il punto è piuttosto che il sapere necessario a realizzare una certa cosa, non mi viene da qualcuno che lo detiene in modo esclusivo. Questo processo nuoce fortemente alla speculazione del mercato, perché così facendo ci si emancipa da una fornitura di servizi dietro pagamento, motore principale del nostro mondo. Questo tipo di pratiche è oggi molto più complesso che in passato, quando le interazioni a livello locale erano più frequenti e spontanee. Queste dinamiche oggi minaccerebbero fortemente il sistema di produzione, soprattutto se teniamo conto del fatto che il livello di competenze dei professionisti nei diversi settori è cresciuto esponenzialmente e pensare di basare gli scambi anche secondo le logiche della banca del tempo rappresenterebbe un pericolo reale per il sistema speculativo del mercato tradizionale.