Curatrice, storica dell’arte, giornalista, docente alla Bocconi. Paola Nicolin adesso è al lavoro su the classroom, il centro di arte e educazione che lunedì 27 marzo svela al pubblico un nuovo capitolo. Le abbiamo fatto qualche domanda per capire cosa possiamo aspettarci di trovare in una piccola stanza di via Cesare Correnti, tra materiali dall’archivio di Chris Burden, una classe di studenti e in cattedra Piero Golia e Diego Perrone, in una collaborazione inedita intorno a una stampante Risograph.
ZERO: Dal 24 al 26 marzo negli spazi di Via Cesare Correnti 14 sarai di nuovo al lavoro con the classroom: due artisti come Golia e Perrone terranno una serie di incontri/workshop/lezioni dedicati alla figura di un altro artista, leggendario, come Chris Burden. Ci puoi raccontare cosa succederà?
Paola Nicolin: Gli artisti si troveranno all’interno di una stanza al piano terra del palazzo di via Cesare Correnti. È una stanza che si affaccia sul cortile e anche sul giardino interno: ha una bella luce, un volume generoso ed è completamente circondata da una scaffalatura in legno. Credo sia stata utilizzata per servizi diversi e in ultimo è stato un magazzino di bottoni e foderami.
Qui dentro ci saranno due stampanti Risograph (una che arriva da ATTO che sono partner del progetto e l’altra da From outer space), un tavolo, delle sedie e poco altro. Serviranno come strumenti di lavoro di una classe mista composta da circa 20 studenti. Da venerdì a domenica infatti Piero Golia e Diego Perrone osserveranno e ragioneranno su una serie di materiali di studio legati ai lavori di Chris Burden…
E con gli studenti? Cosa faranno?
Non mi chiedere esattamente “che cosa” perché davvero non ti so rispondere. I materiali arrivano dallo studio dell’artista americano e verranno di fatto aperti in classe alla presenza degli studenti. Su queste basi gli Golia e Perrone utilizzeranno la tecnica Risograph, che è poi una versione evoluta del ciclostile, come strumento di lettura e rielaborazione – riso in giapponese significa “ideale” – dei materiali di Burden. La tecnica è stata scelta dagli artisti e credo sia legittimo aspettare di vivere l’esperimento, tra controllo e imprevedibilità. Il corso ci chiude domenica 26 e lunedì 27 invece, secondo la struttura dei progetti di the classroom, apriremo la classe al pubblico con una installazione del lavoro fatto e dei materiali prodotti, e una proiezione del documentario di Peter Kirby su Burden in cortile.
Come hai scelto gli artisti? Diego Perrone e Piero Golia sono una coppia abbastanza imprevedibile, per non parlare di Chris Burden come “soggetto” su cui lavorerà la classe…
Imprevedibile è in effetti un aggettivo che si addice a questo progetto… in ogni caso Golia e Perrone sono due artisti rilevantissimi, della medesima generazione, che hanno attraversato territori confinanti ma che non hanno mai lavorato insieme a un progetto specifico.
L’idea provare a invitarli nasce dal desiderio di lavorare con loro, con le loro individualità e ossessioni personali che a titolo diverso si sono rivolte ai temi dell’educazione, della scultura, del disegno, della performance, della produzione collettiva e del dialogo tra artista e suo pubblico. Piero e il suo lavoro alla Mountain School of Arts ad esempio, mentre Diego è uno dei primi artisti con i quali ho iniziato a parlare e confrontarmi sul progetto the classroom, più di due anni fa oramai.
Perrone e Golia sono quasi coetanei, mentre Burden era di quasi trent’anni più anziano…
Questo progetto desiderava anche lavorare sul dialogo tra generazioni, sulla possibilità o impossibilità di restituire un discorso su un passato recente attraverso lo sguardo produttivo di un altro artista. La relazione tra gli artisti italiani e un gigante come Burden parte da qui e da qui si sviluppa associando contesti e generazioni, transiti e conoscenze personali, come quella tra Piero Golia e l’artista americano, e affinità espressive nella differenza di scelte di ciascuno di loro. Una volta formulato l’invito si sono messi a lavorare in tandem, e per noi è stato solo il gusto di vederli agire al centro a ai margini, testare le possibilità e vedere che cosa succede.
Come è nato invece il progetto the classroom?
the classroom credo che sia nato da una ossessione e da una passione che mi porto dietro, vale a dire quella per l’educazione come gioco, ricerca, conoscenza, racconto, scambio tra persone diverse. Era una idea legata ai così detti public program che accompagnano l’attività espositiva. Avevo iniziato a formularla durante il periodo di lavoro per il Comune di Milano, pensando in modo particolare alla relazione tra spazi espositivi con collezione e quelli senza collezione e dunque a un modo per mettere in relazione – non attraverso il formato “mostra”, queste due anime di uno stesso sistema museale. Come tutte le idee, anche questa sente il tempo ed è stata suscettibile di cambiamenti perché è stato l’incontro con alcune persone a far accadere il progetto.
Chi erano queste persone?
Prima ne avevo parlato con un gruppo di amici e collezionisti, legati dalla figura di Massimo Buffetti, che ho avuto la fortuna di conoscere di persona. Questi mi hanno dato fiducia e forse mi hanno messo come si dice “fretta”, anche se in modo positivo. Nello stesso periodo ho chiesto a Giovanna Silva – che conosco dai tempi di “Abitare” – e a Giulia Mainetti – che ho avuto modo di conoscere come partner di allestimenti e progetti che ho curato – se erano interessate a lavorare insieme a me; poi la Università Bocconi, in modo particolare Paola Dubini – la prof.ssa Dubini anzi – mi ha dato l’opportunità attraverso la rete di Bocconi Art Campus di avere da un lato uno spazio in ateneo dove realizzare la prima “classe” di Adelita Husni-Bey e nello stesso tempo ha facilitato il coinvolgimento dei studenti Bocconi, miei e di altri corsi, come stagisti e interlocutori del progetto.
Questo ha definito anche le diverse “sedi” di the classroom, giusto?
In questa direzione abbiamo continuato e continueremo a guardare a Bocconi come un contesto di sperimentazione e hub per forme di produzione non canoniche e per il tema della lezione come forma d’arte. In mezzo c’è la ex scuola di via Porpora, che è apparsa sulla scena d’improvviso e sembrava essere il regalo che metti in cima alla lista di Babbo Natale, fatta apposta per installarci la mostra di Adelita che ha inaugurato l’anno scorso il programma. Dopo c’è stata una tappa a Marrakech con Hilario Isola per la Biennale della città, e di seguito il progetto appassionante sul restauro e l’arte contemporanea con Masbedo, dove ci sono state molte relazioni istituzionali per noi fondamentali (l’Opificio delle Pietre Dure, l’Estate Fiorentina e il Comune di Firenze, le Gallerie degli Uffizi, il Centro di restauro della Venaria e la Reggia, la Soprintendenza, il Mibact solo per citarne alcuni) accanto a una rete di partner privati (come In Between Art Film e Snaporazverein). Da qui in poi si è aggiunto al team Luca Bradamante, che è oggi responsabile delle produzioni e dei rapporti con i partner esterni. Ecco fine, direi. Senza queste persone the classroom non esisterebbe, così come non esisterebbero i suoi obiettivi che sono condivisi con chi ne fa parte e in primo luogo con gli artisti.
Quali sono questi obiettivi?
Uno è quello di cercare di mettere sempre al centro del discorso sulla storia dell’arte – largamente intesa – l’artista. Pensiamo a una storia “mancina”, che contempla l’errore e la diversità come ricchezza. Un altro obiettivo è quello di infittire il dialogo tra generazioni e contesti; mentre un’altra ossessione è lo spazio della educazione: come gli spazi influenzano il nostro modo di imparare? Più penso a quanto tempo passiamo in qualcosa che si chiama “aula”, più l’idea della scuola come infrastruttura culturale mi affascina e mi fa essere orgogliosa di un paese che ha fatto tanto in tema di ricerca sulla educazione e la didattica. Un obiettivo forse più maturo di the classroom è provare a utilizzare questo nomadismo che abbiamo scelto per verificare delle ipotesi in contesti diversi, tra storia e futuro, carichi di bellezza complessa come quelli legati al nostro paese.
Qual è il rapporto tra dimensione espositiva e momenti didattici e laboratoriali all’interno di the classroom?
È il rapporto che c’è tra luogo di produzione e luogo di esposizione: i due termini in the classroom tendono, ove possibile, a coincidere. Ti ricordi come cambiava l’aula scolastica da quando ci entravi a settembre a quando te ne uscivi a giugno? Da una stanzona vuota e pure spesso desolante a uno scrigno di oggetti e ricordi, lavoretti e pasticci che descrivono un anno di vita passata lì dentro. Ecco uno dei desideri di the classroom è provare a capire se e come si possa imparare dalla relazione tra la produzione didattica e la sua condivisione fuori e dentro lo spazio dell’aula. È un tema molto frequentato, sul quale formidabili artisti hanno lavorato: molti di questi sono sulla wish list dei nostri prossimi progetti che si allunga a dismisura e che pensiamo possa essere un terreno fertile con il quale continuare a confrontarci.
Ci puoi parlare della tua formazione invece?
Sono una storica dell’arte caduta nella rete della curatela. Ho una formazione accademica ma sono una irrequieta di natura e questo mi ha portato sfuggire dai contesti troppo rigidi. Mi sono laureata a Milano, in Lettere Moderne con indirizzo in storia dell’arte – credo che questo nome non esista più – con una tesi sul museo durante le dittature. Sono stata fortunata perché il museo protagonista di questa storia era il grande cantiere del Musées d’art moderne di Parigi costruito nel 1937, che è poi diventato più cool in epoca 2.0 con l’aggiunta del Palais de Tokyo nello stesso palazzo. Quando a tesi conclusa volevo pubblicare questa storia Gianni Romano mi diede fiducia realizzando il libro sul Palais de Tokyo con Postmedia. Negli anni della università ho iniziato a scrivere per voi di Zero sotto lo pseudonimo di nicotine, poi ho smesso di fumare e con il fumo è volato via anche la nicotina. Ho frequentato poi un master in storia dell’architettura – che è una altra mia ossessione/passione – tra Roma e di nuovo Parigi, dove ho conosciuto Jean Louis Cohen tra il 2002 e il 2003, che all’epoca era il responsabile della Cité de l’Architecture, il grande museo di architettura di Parigi. Lui mi chiese di lavorare alla presentazione della collezione della prima sala del museo, che era dedicata a un grande viaggiatore, architetto e disegnatore francese di fine settecento, Louis François Cassas, che faceva delle sublimi maquette di architettura orientale in sughero che mostrava poi di ritorno dai suoi viaggi nella sua galleria parigina. Non ho mai pubblicato nulla su questo secolo, anche se spesso mi torna la voglia di rimettermi a studiarlo.
Sei tornata poi in Italia?
Si, e ho cominciato a lavorare per la pagina di Milano di Repubblica, alla scuola di Armando Besio che mi ha sempre trattato malissimo ma che adesso ringrazio per avermi insegnato a scrivere in modo sensato, e a difendermi. Di qui mi sono poi dedicata al dottorato di ricerca che ho iniziato a Venezia ma che mi ha presto fatto trasferire nella ridente cittadina di Cambridge MA., che come molti anche per me è stata la città dello studio per antonomasia. Dal 2004 al 2007 ho fatto ricerca prima a MIT – che forse per me era troppo clima “guerra fredda” – e poi a Harvard: quando ho cambiato casa e mi sono trasferita in zona il mio advisor mi disse “Paolina, welcome to the civilized world” e in effetti quelli sono anni per me molto importanti che hanno segnato la mia formazione e anche credo la mia persona – e ne ho spesso nostalgia. Sono tornata in Italia continuando a fare un poco avanti e indietro con New York sino al 2009 quando è nato il mio primo figlio. Avevo appena iniziato a insegnare in Bocconi e stavo già lavorando a “Abitare” come esterna grazie a Italo Lupi che per me è ancora oggi una persona di riferimento in ogni cosa che faccio. Poi con Stefano Boeri sono stata inclusa nella redazione con il ruolo di art editor in anni di grande fermento della rivista e delle sue iniziative “oltre la carta”. Con Abitare l’esperienza si è chiusa nel 2011 con il Being Cattelan, il numero monografico su Maurizio che ho curato. In quell’anno apriva la sua personale al Guggenheim.
Ti mancava ancora un’esperienza con il comune di Milano…
Poco dopo Pisapia vinse le elezioni, Boeri divenne assessore alla Cultura: non seguii la campagna elettorale ma a luglio mi chiese se volevo far parte della squadra di lavoro, con Tommaso Sacchi e gli altri del gruppo, occupandomi del programma di arte contemporanea. ”La sventurata rispose” certe volte mi viene da dire pensando al vuoto che mi ha lasciato la sospensione brusca dei lavori in corso, ma è solo come battuta perché ancora oggi lo ringrazio molto per quella offerta di lavoro. In due anni e mezzo al fulmicotone è come se avessi fatto di nuovo il percorso dal nido all’università – di una scuola che però non esiste, se non sul campo e dall’interno del sistema. La relazione con i dirigenti e con tutti i dipendenti di un sistema molto complesso come quello del Comune di Milano in quel momento è stata una palestra incredibile e utilissima, della quale mi sono resa conto solo molto dopo il termine del lavoro. Per prendermi una pausa da tutto questo è nata la mia seconda figlia nel 2014 mentre stavo inaugurando la mostra di Markus Schinwald in Triennale sotto la direzione artistica di Edoardo Bonaspetti, Poi ci sono state tante altre occasioni di lavoro e collaborazioni con istituzioni e questo a me piace perché ogni istituzione è un universo complesso da trattare con cura e dal quale imparare sempre moltissimo.
Ecco siamo arrivati al 2016 con the classroom…
Oltre a the classroom quali progetti stai seguendo attualmente?
Ho l’università che mi prende parecchio proprio sul fronte della didattica dalla quale tento di non essere fagocitata. Poi ci sono le ricerche “vere”, sto lavorando su Vincenzo Agnetti da qualche tempo ed è una fissa che mi porto dietro dalla mostra sugli anni Settanta a Milano, la storia delle mostre e l’educazione come pratica artistica – su questo vorrei trovare il tempo di chiudere un libro che sta lì ma a differenza dei miei figli non so perché ma anche se lo guardo non cresce da solo. Non scrivo più per “Mousse” o “Kaleidoscope”, ma ho mantenuto la mia collaborazione con “Artforum” che mi aiuta in stile scuola Besio a essere chiara e a capire che se non scrivo non vedo. Ho seguito di recente la vicenda di Danese, per la quale mi sono occupata dei testi che accompagnano la stagione della direzione artistica di Ron Gilad. Lo avevo conosciuto durante gli anni di “Abitare” ma non avevo mai lavorato con lui. È la prima volta che lavoro con una azienda di design e sono grata a Carlotta de Bevilacqua per avermi chiesto di mettere il naso in questa storia.
Nel tempo libero (se te ne rimane…) quali posti frequenti a Milano?
Non so se faccio contento il direttore Amichetti, ma di bar o cocktail bar da qualche tempo direi… “poca roba”. Il mio tempo libero è per i miei figli dunque o andiamo via insieme o se siamo a Milano i posti sono i parchi giochi (zona Vetra), la piscina (San Carlo), la scuola di musica (la scuola Musicale di Milano), il fantastico nido di mia figlia (Clorofilla), le cartolerie (come Favini per esempio) e tutti i percorsi in bici che attraversano queste zone e dove Pietro mi comincia a fare le domande tipo: che cosa è quella torre (la Velasca)? perché il Duomo brilla? andiamo ancora a teatro con Luca (Trevisani che ha fatto un lavoro con la classe di mio figlio per una mostra in Triennale)? Mi porti al supermercato del buono (Naturasi)? E cose del genere… Subito fuori Milano poi c’è Camogli dove mi piace sempre scappare con mio marito.
Se invece a Milano ci sto da sola il primo posto è la pasticceria: sono ipoglicemica dunque posti come Cucchi, Gattullo, Marchesi, Supino – anche se i cannoncini li conquisto solo con l’inganno – sono come oasi nel deserto urbano; ho ricominciato a correre dunque per me diventa una oasi-pasticceria anche il bar dell’angolo sotto casa dove faccio colazione alle 7, prima di rientrare a casa e iniziare la giornata. Passo spesso da Verso, amo le riviste dunque a volte le sfoglio alla Feltrinelli della Stazione Centrale, dove mi piacere vedere la gente tra i libri. Stesso passaggio “di puro piacere” mi capita di farlo in posti tipo Wait and See e in generale passare in bici nel quartiere delle 5vie, dove ho vissuto per anni. Mi piace ballare, lo faccio con i miei figli in casa ma ammetto che in balera è un’altra cosa: l’ultima volta sono stata a un compleanno all’Arizona 2000: ecco qui Andrea direi “tanta roba”.
Per finire: hai qualche progetto che ancora non sei riuscita a realizzare?
Moltissimi! Soprattutto perché penso di averne realizzati pochi e che ci sia ancora tutto da fare. Sono un poco malata di progettualità ma di tante idee si muore; the classroom mi aiuta in questo perché è uno scrigno dove metto tutte le idee che mi sembrano preziose, che non riusciamo a realizzare ma che sono lì in attesa del momento giusto e vanno protette senza perderci troppo tempo su. Sul futuro però non mi dilungo perché se non sono superstiziosa diciamo che sono “molto prudente”.