Qual è il ruolo del pensatore – del filosofo per alcuni – nella socialità immersiva e digitale con cui ci interfacciamo tutti i giorni? Come l’intellettuale può inserirsi nell’impetuoso scorrere dell’evoluzione tecnologica, stimolando la coscienza critica sulle implicazioni socio-politiche del positivismo 3.0? Ma ancora, qual è il posto dell’intellettuale in senso ampio nel contesto socio-economico (e lavorativo) di oggi? Ce ne parla in anteprima Raffaele Alberto Ventura (Minumum Fax, Eschaton), in attesa del suo intervento a Milano Digital Week.
Chi sei e cosa fai? Raccontami il tuo percorso o anche, semplicemente, di cosa ti occupi tutti i giorni.
Per il pubblico italiano sono principalmente l’autore di due libri che si interrogano su cause e conseguenze del collasso del nostro sistema politico-economico. Vivo in Francia dove, come gran parte delle persone formate dal sistema universitario, sono stato assorbito nella classe professionale-manageriale: qui mi occupo di marketing per un grande editore. È un buon punto di osservazione sia su certe tendenze culturali che su certe disfunzioni tipiche delle organizzazioni.
Ora mi hai incuriosito: quali sono le "tipiche disfunzioni delle organizzazioni" che hai rilevato e stai rilevando nella tua carriera parallela di consulente aziendale?
Abbiamo la tendenza a considerare che la razionalizzazione dei processi organizzazionali su scala sempre più grande garantiscano una maggiore efficienza e produttività. In realtà nelle organizzazioni tendono strutturalmente a emergere fenomeni di controproduttività e diseconomie di scala che determinano dei rendimenti decrescenti. Te ne elenco alcuni: la distorsione dei fini, ovvero la tendenza a confondere gli obiettivi privati con gli obiettivi collettivi, e con essa i conflitti di status, l’aumento dei costi di transazione per gestire la comunicazione, la demotivazione e la deresponsabilizzazione. In generale il problema è che per governare dei sistemi complessi noi costruiamo delle interfacce che ci permettono di operare sulla realtà attraverso simboli e incentivi, ma queste interfacce a un certo punto diventano obsolete…
Domanda a bruciapelo: cosa fa un filosofo nel 2020? Non valgono risposte tipo “quello che faceva un filosofo nel 1700”. O meglio, qual è il ruolo dell’intellettuale nella nostra società un po’ frattalizzata un po’ polarizzata? Ma soprattutto, ti senti un filosofo, come più di una persona ti definisce?
Non so se “filosofo” sia la parola adeguata, perché porta con sé una connotazione un po’ pomposa, ma quello di cui la nostra epoca ha terribilmente bisogno è la trasversalità (analisi che colleghino i risultati di discipline differenti, senza circoscriversi entro compartimenti disciplinari stagni) e la storicizzazione (analisi che mostrino la dimensione storica e socialmente costruita, ma non per questo “sbagliata”, dei concetti e dei valori che diamo per scontati). Oggi stiamo vivendo una vera e propria crisi relativa al posto nella societé degli intellettuali in senso ampio, delle persone istruite: abbiamo persone troppo formate che non trovano lavoro ma anche troppe persone poco formate o formate male, competenti che non vengono più creduti o addirittura odiati per la loro competenza. Quindi abbiamo contemporaneamente l’emergenza di una “classe disagiata” che non è riuscita a trovare il proprio posto nel mondo e una situazione di “disrupzione” attraverso la quale sta cambiando il paradigma culturale.
Nel tuo libro “Teoria della classe disagiata” (Minimum Fax) parli anche dei Laureati in Scienze Umanistiche e del loro ruolo nella società in un contesto - quello dell’industria culturale - che continua ricordargli come non ci sia posto di lavoro per tutti. Al netto del fatto che si tratti di un quadro abbastanza paradossale per situazione socio-economica italiana, bisogna probabilmente trovare nuovi ruoli, una nuova didattica, per calare l’umanistico nel reale: rilevi anche tu uno scollamento fra quello che gli studenti approfondiscono negli atenei e l’attuale “mercato culturale” o pensi ci sia un più banale problema di domanda/offerta? Nel primo caso, quali figure (professionali o di ricerca) siano prioritarie per rilanciare l’industria culturale?
Storicamente, da almeno un secolo, l’Italia è un paese in cui coesistono sia grandi proporzioni di sottoistruiti che di sovraistruiti. È un circolo vizioso perché i primi non sono incentivati all’istruzione in quanto troverebbero un collo di bottiglia sul mercato del lavoro, mentre i secondi si condannano alla disoccupazione intellettuale perché non c’è un mercato di consumatori culturali in grado di assorbirli. L’Italia non è né la Francia né gli Stati Uniti, dove esistono (per ragioni diverse) grandi mercati per l’industria culturale. Su questo dobbiamo essere realisti: in fondo i grandi artisti italiani andavano a lavorare all’estero anche nel Seicento e nel Settecento. Quello che ci mostra il successo degli italiani all’estero tuttavia è che la cultura umanistica italiana è ancora in grado di dare qualcosa di importante, proprio perché offre una visione totalizzante della realtà a fronte di una tendenza alla specializzazione che troviamo negli altri paesi avanzati.
Wikipedia mi ricorda che l’escatologia è “una dottrina tesa a indagare il destino ultimo del singolo individuo, dell'intero genere umano e dell'universo”: puoi spiegare a uno che su Facebook posta principalmente meme più o meno rubati, come questa definizione si cala sulla tua pagina di approfondimento e disse(rta)zione chiamata appunto Eschaton?
Si tratta di un nome che avevo dato al mio sito più di dieci anni fa, quando scrivevo racconti buffi sull’anticristo. Abbi pazienza, avevo vent’anni. Ma dell’escatologia mi è sempre piaciuta una cosa, ovvero che definisce il modo in cui la nostra società, anche dopo la sua secolarizzazione, si rappresenta la storia: come una parabola verso una qualche fine. Però io non credo che la storia abbia una fine, anzi la vedo più come qualcosa di ciclico. Credo che siamo tutti consapevoli che nella nostra epoca qualcosa stia finendo, ma questo non vuol dire che non ci sarà qualcos’altro dopo. A me interessa capire proprio questa fase di esaurimento e anche immaginare quello che potrebbe venire dopo.
Nel tuo ultimo libro “La guerra di tutti” (Minimum Fax) parli di antagonismo e polarizzazione in senso socio-economico, ma anche in senso “particellare” quando si parla della “guerra di ogni” giorno che si combatte sui social media a colpi di opinioni. A cosa pensi che possano portare le continue, fisiologiche e spesso automatiche, polarizzazioni di opinione nelle conversazioni social media? C’è una dialettica e un reale scambio fra le parti o il rischio è che non si arrivi mai a una sintesi virtuosa (e quindi costruttiva) tra le diverse istanze?
I social media, se ci pensi, sono sostanzialmente macchine che ci fanno litigare e perdere tempo, e intendo dire che sono state in qualche modo progettate per ottenere questo risultato: per farci stare dentro quell’ecosistema, cliccare, scrivere, arrabbiarci. Certo ci permettono anche di socializzare, e in fondo è come se avessero accelerato e accentuato tutte queste dinamiche sociali, nel bene o nel male. Ma il male che producono è nuovo e imprevedibile, e non sappiamo ancora come gestirlo. Probabilmente svilupperemo col tempo delle abitudini, quella che una volta si chiamava “netiquette”. Nel frattempo ne subiamo le conseguenze politiche.