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Rareș

Al suo CV in formato musicale il cantautore di origini romene aggiunge un'intervista rapida e furiosa, senza parole in più, discorsi in più...

Written by Redazione Venezia il 7 October 2020
Aggiornato il 7 February 2022

Rare…sh! Si pronuncia così, ma si scrive ş, con la cediglia sotto alla esse per intenderci. Rareș Cirlan sfoggia un certo esotismo sonoro fin dal nome.  Partendo dalla difficoltà di scriverlo correttamente, andando a scovare sulla tastiera un fonema turco ottomano piuttosto inedito a queste longitudini, si finisce presto con la facilità di ascoltare e perdersi nella sua musica. Un pop personale e delicato, quello di Rareş. Se per raccontare il suo primo album “Curriculum Vitae” bastasse unire i puntini in stile settimana enigmistica potremmo disegnare una traiettoria tangente ai suoni e alle atmosfere psichedeliche alla Mac De Marco che hanno rimbalzato per tutti gli anni dieci tra Canada e Stati Uniti, virandola poi verso i colori del soul e le alte temperature della musica tropicale. Di solito si riassume tutto usando il prefisso “indie-qualcosa”, ma questa creatività sincera e questa voce ricchissima non meritano tali semplificazioni. Classe ‘97, un disco uscito in pieno lockdown, dna meticcio, tipico di una parte di Italia che guarda naturalmente verso est. Rareş è la punta di diamante di una scena florida di cantautori cresciuti alle porte della laguna, ma ha già mollato gli ormeggi. Facciamoci spiegare le cose per bene, una alla volta.

La cover del primo disco di Rareș © Moreno Hebling

–   Perchè piangi? Perchè hai disegnato delle goccioline sul tuo volto? Sono lacrime? Di gioia o tristezza?
«Sono lacrime, le ha disegnate il mio amico Marcello. Sono lacrime di tristezza, tra poco saranno di gioia, arriva l’inverno ed è tutto più caldo e delicato. Il disco parla di una tristezza atavica che vorrei scrollarmi di dosso molto presto. È nato così, ho sofferto e ho scritto. È quello che faccio se mi prende male, come diceva Luigi Tenco: quando sono felice vado in giro, quando sono triste scrivo…»

–   Questa intervista è iniziata con un “perchè”, poteva iniziare con un “come”, “chi”, “dove”: qual è secondo te la cosa più importante da mettere in chiaro? Dove metti il tuo baricentro?
«Le relazioni tra le persone, è qui la priorità secondo me. Capire cosa succede tra A e B, tra un punto e l’altro del discorso, il non detto, o il non fatto. Anche i luoghi e le persone mi ispirano, i paesaggi».

–   Passiamo al “dove” allora. Dove sei? Da dove arrivi? Dove andrai?
«Vengo da Marghera, sono a Bologna, spero di andare un giorno in Irlanda. Ho il mito dell’Irlanda e spero di finire prima o dopo in quell’isola. Ricordo che appena sono atterrato a Dublino mi sono trovato bene su molti aspetti: le persone, l’atmosfera».

–   Per fare musica: chitarra o computer?
«Tutte e due, metà e metà. L’ultimo brano “Vene Più”, così come “Marcellino”, “Mamma Banana” sono state scritte al computer, le altre con la chitarra».

–   Adesso partiamo con le domande serie. Com’è pubblicare e promuovere un disco a tempi del coronavirus?
«Il disco è uscito il 6 marzo, dovevamo festeggiare a Bologna, ma c’era appena stato il lockdown, il Veneto era appena diventato zona rossa, abbiamo evitato di vederci. Quello è stato il momento storico che ci ha attraversato. Sul disco c’è stato un lavoro organico, non c’era la volontà di far esplodere nulla. Chi ha dovuto sentire ha sentito, chi ha ascoltato ha ascoltato. Nessuno è stato forzato all’ascolto, eppure molte cose stanno succedendo. È il mio primo disco e paradossalmente non so nemmeno cosa sia significhi fare un disco fuori dal coronavirus. Non ci sono stati release party non è partito tour, tutto è avvenuto puramente in digitale. Anche nelle date che si sono svolte e si stanno svolgendo, anziché presentarmi in trio, mi esibisco in solo e questo ha reso necessaria la ricerca di nuove sonorità e nuove formule. Mi sto divertendo molto, è uno show dalla forte impronta elettronica. Mi sento un nativo-covid, avrei preferito di no, ma sto imparando comunque tanto».

© Moreno Hebling

–   Scrivere in italiano è difficile, il tuo stile un po’ “sillabato” decostruisce e ricostruisce le parole come se fossero pezzetti di lego. Viene fuori una narrazione musicale fatta di parole interrotte, che crea spazi, pause, tensioni. Come è venuto fuori?
«È un tutt’uno tra scrittura e canto, non saprei bene spiegarne la genesi, è una cosa che mi apparteneva, frutto di certi ascolti, da Hank williams, di cui provavo a imitare i tipici yodel, a Edoardo Vianello, ma anche Bon Iver e le canzoni dei miei amici. Nel mio dna c’è un sacco di musica mia e non mia. In questo primo disco ho giocato molto, ora c’è già qualcosa di nuovo».

–    Curriculum Vitae: perché questo titolo? Ne hai mandati in giro tanti? Con che destinazione?
«Di quelli lavorativi ne ho mandati in giro abbastanza, in un caso è andata bene, ho coronato il mio sogno, lavoravo in centro a Bologna, come cameriere, in una tigelleria. Il disco invece lo considero frutto di un atto di mecenatismo».

–    Raccontaci la storia della tua vita, quello che non metti nel curriculum, che rimane fuori.
«Sono nato e cresciuto a Birlad, in una regione vicino al confine con la Moldavia, fino ai 9 anni. Sono venuto in Veneto nel 2005. È da tanto che non torno nel paese d’origine. La mia romania è fatta ormai dalla famiglia, dal cibo, dalla lingua, dalle persone».

–   Parliamo di Marghera (e dintorni): i tuoi posti preferiti per bere, mangiare, ricaricarti.
«Parto dal Bar dei Morti, che in realtà si chiama Red Bear Pub, vicino al cavalcavia di Catene, gestito da Pavel. Vado lì praticamente da sempre: birette, panini tutto è mega buono. Ci sono anche giochi da tavolo, c’è chi ci va per leggere, mangiare, socializzare. Poi “Al vapore”, che frequento da quando sono piccolo, e “Argo16”, ricordo di aver partecipato quando ancora si chiamava “Spazio Aereo” il 27 dicembre 2014 ad uno dei primi eventi, era un open mic. È stato il debutto ufficiale delle mie canzoni».

atti creativi. © Moreno Hebling

–    Parliamo di Bologna: come ti trovi? Cosa ti ha portato lì? Come cambierà la musica stando lì?
«È una bella città, è stato difficile trovare casa, ora è il terzo anno che sto lì, dopo un paio di anni ho iniziato a conoscere le situazioni, la gente. Ci sono molte persone che fanno musica sia in ambienti accademici e che in spazi più indipendenti, ci sono sempre cose da fare, io frequento spesso il Macondo. Non so quale sia il nuovo paradigma post-covid. Penso che starò a Bologna ancora un altro anno, voglio comunque cambiare aria, penso faccia bene».

–  Cosa stai ascoltando in questo periodo?
«Niente». (Non è vero, alzando la cornetta del telefono filtra un urletto: “chi è?” “Tiny Tim”)

–   La musica: la consideri ancora come una materia necessaria nella vita delle persone e nella formazione della loro identità? La tua generazione che rapporto ha con le canzoni? La smaterializzazione dell’ascolto, lo streaming, hanno trasformato questa disciplina in un orpello scontato e senza valore?
«La musica è viva ed è fondamentale anche per i 18enni di oggi, soprattutto nei legami tra industria musicale e moda, che si intrecciano su instagram. Io mi sento fuori da quel paradigma, ho un’altra attitudine. Ma penso sia necessaria, non penso possa implodere un legame così forte. Forse l’immagine della musica si distorce con l’età, la mia prospettiva è quella di chi la fa e la deve fare: ogni tanto mi sta un po’ sul cazzo, ma no, non direi mai che è un orpello».

–    Esiste una scena cantautorale veneziana?
«Ho amici con cui faccio le cose e sono molto contento. Marcello e Tobia Della Puppa, Giuseppe Vio, sono qui con me anche in questo momento. Siamo una fabbrichetta facciamo tutto qui a casa, in terraferma».